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"Take me down to the paradise city
Where the grass is green and the girls are pretty Take me home, I want you please take me home" Paradise City - Guns N' Roses Paradise City è il tema della seconda tornata di UniVersi, c'è tempo fino al 15 marzo compreso per postare il proprio racconto in gara. Ricordatevi che: - Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 6000 (spazi compresi, titolo escluso); potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito. - I racconti devono avere un proprio titolo e devono essere postati in forma anonima, effettuando il login con nome utente Titivillus e password universi. - Qui potete trovare il regolamento completo. RACCONTI IN GARA - ...E se Paradise City (5657) - La cartella (4918) - Whisky & Glock (5945) - La mia città (2364) - Una striscia di paradiso (3653) - Condizionamento (4043) - N52 (5921) - The Red Side of the Blue (3529) - Silvio don't cry (5971) - Paradise city - Profezia (3581) |
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Ehi dol! Bel dol! Suona un dong dillo! Suona un dong! Salta ancor! Salice bal billo! Tom Bom, bel Tom, Tom Bombadillo!
Ultima modifica: 16/03/2015 18:43 Da Tavajigen.
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...E se Paradise City
«…E se Gesù il Nazareno fosse stato un semi-alieno?» Il quesito sembrava più una di quelle boutade da fanta-scienziato e non certo il sincero dubbio del Ph. D. Johan MacBaptistand, un vero e proprio luminare della genetica applicata. Tant’è che il suo collega, nonché commensale di quel pranzo, faticò a non sgranare gli occhi nel sentire quella frase. Riuscì comunque a ribattere prontamente: «Prima di tutto, come ti può balenare per il cervello una cosa del genere mentre stiamo mangiando. Secondo, sono veramente curioso di conoscere il percorso che hai seguito per arrivare a questa deduzione» «Come sempre, queste cose, nascono facendo tutt’altro mio caro Peter. Mia figlia mi ha chiesto come erano fatti gli alieni dopo aver guardato un cartone animato. Le ho dato una spiegazione sommaria e, non so come, mi ha risposto: “e gli Angeli invece, come arrivano sulla terra?”. A quel punto mi si è accesa una luce ed ho pensato: “È mai possibile che viste le conoscenze dell’epoca si potesse confondere un angelo con un alieno?”». «Beh, viaggiando per ipotesi, tutto è probabile ma nulla è certo…» «È vero, hai ragione anche tu. Però l’ipotesi¬ mi affascina. E non so come ma ho veramente pensato che tutta la storia di Gesù, dal suo concepimento fino alla morte, potesse essere l’esperimento di una civiltà superiore per capire a che punto si trovasse quel genere alieno appena incontrato. In sostanza, l’Annunciazione, non sarebbe altro che un incontro ravvicinato tra quella che fu Maria ed una specie aliena. Oggi sappiamo come fecondare un ovulo e sappiamo che non è necessario avere un rapporto sessuale per concepire. All’epoca no. Pensaci: se una razza aliena fosse stata in grado di viaggiare nello spazio avrebbe potuto tranquillamente conoscere già anche tutte queste tecnologie. Non solo. Così pensando, anche il concetto di Maria Vergine resterebbe salvo. Sarebbe rimasta incinta di un ibrido da Vergine. E sempre da Vergine avrebbe partorito. Anche l’Annunciazione per Giuseppe sarebbe poi verosimilmente spiegabile. Perché, parliamoci chiaro, più di duemila anni fa nessun uomo avrebbe potuto credere facilmente ad una storia raccontata da una donna come quella perpetuata da Maria. Ma se è vero che anche a Giuseppe arrivò l’Annunciazione, al punto da convincerlo così nel profondo, probabilmente quello che è descritto solo come un sogno potrebbe in verità essere un altro incontro, magari solo telepatico» «Affascinante come ipotesi. E, sinceramente, spiegherebbe in maniera un po’ più razionale anche tutto il seguito» «È la stessa cosa che ho pensato anche io! A quel punto, Gesù, non sarebbe solo più un uomo o il semplice Figlio di Dio per chi ci crede. Sarebbe invece il figlio ibrido di una specie superiore ed è per questo che, crescendo, avrebbe man mano preso condizione della sua realtà riuscendo a fare cose impossibili per gli umani al punto da chiamarli miracoli. Però resto dell’idea che tutto quello che ha realizzato lo ha fatto davvero per intercessione della specie aliena superiore. Quell’uomo, in quanto ibrido, non aveva in verità alcuna conoscenza se non quella di comunicare in via privilegiata con l’essere alieno superiore. Così, tutti quei miracoli sarebbero spiegabili in maniera molto più razionale per quanto di razionale ci sia ben poco in quello che stiamo ipotizzando. Tipo, l’acqua in vino e la camminata sulle acque siamo già stati in grado di riproporla al genere umano pur essendo frutto, in verità, di un’illusione o del potere della chimica. La moltiplicazione dei pani e la più importante, la resurrezione di Lazzaro, sarebbero comunque più plausibili ipotizzando tecnologie aliene molto più avanzate delle nostre conoscenze attuali» «E cosa ti fa propendere per la costante intercessione?» «Beh, la fine di quel Gesù. Se veramente tu avessi avuto dei poteri e se davvero fossi stato in grado di usarli autonomamente ti saresti fatto mettere in croce come se nulla fosse? Io no, sono onesto» «Diciamo che la tua ipotesi, per quanto a tratti bislacca, darebbe una spiegazione anche molto più razionale a quel "Eloi, Eloi, lama sabachthani?"» «Bravissimo, hai colto nel segno. Lo stesso Gesù, che fino ad allora aveva visto esaudire ogni richiesta da quest’intercessione si chiede perché non capiti questa volta. Ma è incredibile, almeno stando a quanto ci è stato tramandato, come lo accetti passivamente convinto di fare comunque la cosa giusta» «Tra l’altro, anche a lui, stando a quanto è scritto, era stato il tutto preannunciato. Ed a questo punto si andrebbe a chiudere il cerchio» «Amen» Sorrisero e subito dopo, Johan e Peter, ripresero a mangiare cambiando completamente il registro dei loro discorsi. Il mattino seguente, ritrovatisi di fronte, come al solito, alle loro scrivanie si guardarono intensamente. E fu Peter ad attaccare bottone in maniera più o meno ironica: «Ma sai che stanotte ho fatto un sogno strano?» «Che sogno? Perché anche io ho passato una notte piuttosto tormentata» «Non saprei come descrivertelo. Di sicuro però, una voce silenziosa continuava a ripetermi nel cervello che avevo ricevuto la rivelazione finale e che avrei dovuto fondare Paradise City, con te, per accogliere coloro che verranno di nuovo» «WHAT THE FUCK?» «Che c’è Johan?» «Non è possibile. Non è possibile. NON È POSSIBILE» «Puoi dirmi che CAZZO c’è Johan?» «Ho sognato la stessa identica cosa» «Cazzo» Nella stanza piombò un silenzio così intenso che nessuna metafora renderebbe adeguata giustizia. Solo poco prima dell’orario d’uscita, i due, si incrociarono nuovamente lungo il corridoio. «Se il sogno è davvero lo stesso, sai anche cosa dobbiamo fare domani» «Si, lo so Peter» «Amen» |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 16/02/2015 14:36 Da Titivillus.
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La cartella
Tutto mi ritorna alla memoria per il fatto di aver trovato una vecchia cartella di scuola, di quelle con le cinghie dietro, che si poteva portare anche sulle spalle. E' piccola e leggera, ma quando la utilizzavo, carica di libri, mi sembrava un gran peso da portare addosso. Questo è il destino di chi deve svuotare la casa dei genitori che sono venuti a mancare: dover ripercorrere attraverso gli oggetti trovati nelle scatole, negli armadi e nei cassetti, la propria vita. Una seconda memoria che non alberga nel cervello, ma in un reliquiario creato da altri che, quando giunge il suo tempo, si schiude facendoci tremare. Ricordo ancora cosa contiene questa cartella. A tredici anni ero un ragazzino piuttosto gracile, avevo continui dolori in tutto il corpo, alle giunture, alla mascella; la miopia aumentava e di notte bagnavo il letto, come un bambino. Stavo morendo, ma non lo dicevo a nessuno. Anche allora i miei genitori non erano mai a casa, non perché fossero già trapassati, accudivano i miei nonni oppure erano a lavoro. Io passavo interi pomeriggi da solo, a guardarmi allo specchio per vedere se le ossa stessero uscendo dalle articolazioni, se i denti stessero per esplodere o se il cervello mi stesse per schizzare fuori dalle orbite. "Che piangano la mia morte, si accorgeranno di me quando sarà troppo tardi." , mi compiacevo all'idea del loro dolore per la mia assenza. Non studiavo più e di conseguenza marinavo la scuola, soprattutto quando c'era tecnica con quel professore così carico d'odio e rimproveri, la sua disapprovazione per le biglie, le figurine o il pallone. Con il suo continuo richiamo ai doveri e alla serietà, mi soffocava. Andavo in giro per la città, anche se non troppo lontano da casa. Per evitare d'incontrare qualcuno che mi potesse riconoscere facevo strade secondarie. Compravo un fumetto e andavo in un giardino frequentato da ragazzi più grandi di me. Non parlavo con nessuno, inventavo canzoni stupide che cantavo a me stesso o guardavo la gente che passava. Una giorno vidi dei ragazzi in motorino scippare la borsa a una signora, scappai per paura che intervenisse la polizia e iniziasse a farmi domande sul perché ero lì e non a scuola , poi mi sentii in colpa per non averla aiutata, ma non tornai più in quella strada. Una volta, sulla panchina dove mi sedevo di solito, c'era un ragazzino che teneva fra le mani una foto. Era il primo della mia età che vedevo in giro da quando avevo iniziato a marinare la scuola. Passammo tutta la mattina insieme, eravamo felici di avere qualcuno con cui parlare. Io mi chiedevo se anche lui stesse per morire, altrimenti perché era lì e non a scuola, o con i suoi genitori? ma non avevo il coraggio di domandarglielo, gli chiesi un semplice: perché sei qui? Suo padre per lavoro si spostava regolarmente di città in città, di conseguenza tutta la famiglia lo seguiva. Così, questo mio nuovo compagno d'avventura, ogni anno doveva rinunciare agli amici, e adesso stava per partire di nuovo. Non aveva più voglia di tornare in quella scuola, che avrebbe dovuto abbandonare. "Io sto per morire e a nessuno importa né a mio padre né a mia madre o ai mie nonni che vogliono tutto loro, tutto l'affetto per loro - io sono solo - solo a casa - non mi lasciate solo, non mi lasciate solo - perché mi odiate? perché mi odiate e mi lasciate solo? solo a morire a morire e..." - e mentre piangevo e gridavo, e la rabbia mi faceva singhiozzare e sussultare, lui mi teneva stretto, mi abbracciava. La mattina volgeva al termine ed era arrivato il momento di separarci. Ci rattristava l'idea di non incontrarci più, fu allora che mi diede il regalo che è ancora custodito in questa cartella: una cartolina con la foto di una città. Il padre gli aveva promesso che sarebbero presto tornati alla loro città natale, e gli aveva dato questa immagine che lui conservava gelosamente."Così mi verrai a trovare e staremo ancora insieme" - mi disse. Giunto a casa trovai mia madre che piangeva sul divano, non mi avvicinai, preoccupato com'ero che fosse venuta a sapere che non ero andato a scuola. Mio padre, che mi osservava dalla cucina, mi disse che il nonno non c'era più. Ognuno fa i conti con sé stesso nel momento del dolore: chi non può mettere radici, chi si sente abbandonato, chi perde qualcuno di caro. Ma c'è una consolazione: non siamo soli. Feci ciò che quel mio nuovo amico aveva fatto a me, abbracciai mia madre. Il bambino che ero morì quel giorno. Apprezziamo qualcosa solo quando ci sfugge, e ci rammarichiamo di non averne compreso il senso nel momento cui avviene. Forse ci sono altri luoghi in cui il nostro passato e il nostro presente sono diversi da quelli vissuti, migliori, carichi di gioia. Apro la cartella e guardo la città raffigurata nella cartolina, vi immagino due bambini, due amici, le loro famiglie, i loro nonni, felici e insieme. Quante vite dovremmo vivere, e non ne viviamo neanche una. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 09/03/2015 09:57 Da Titivillus.
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Whisky & Glock
“La città paradiso!” Solo, seduto su una panchina in un piccolo parco alberato, Mark ricordò le parole di Alice con una bottiglia di whisky in mano e una pistola Glock in tasca. “Abbandoniamo questo purgatorio, non c’è lavoro, non c’è futuro! Andiamo in città! Sento che troveremo un paradiso di opportunità!” Ora si trovava lì, da solo, osservando quel presunto paradiso ma sentendosi all’inferno. Con lo sguardo fisso verso l’orizzonte, tracannò del whisky accarezzando inconsciamente la tasca mentre la sua mente iniziò a vagare tra i ricordi. Mark e Alice si erano conosciuti al liceo innamorandosi tra i banchi di scuola come nelle classiche commedie romantiche e rimasero insieme sostenendosi a vicenda nelle difficoltà che il fato aveva riservato loro. Lui perse i genitori durante l’anno del diploma, un colpo durissimo che senza la presenza di Alice avrebbe rischiato di mandarlo al tappeto. Successivamente lei sconfisse un tumore, Mark le restò accanto cercando di donarle tutta la forza che poteva per combattere quella battaglia ma spesso sembrava più lei a sostenere lui che non il contrario. Iniziarono a convivere poco più che maggiorenni pur decidendo di rimandare le nozze, i soldi erano pochi e andavano gestiti con cura. Mai una vacanza o la possibilità di soddisfare dei capricci, si erano adattati a sopravvivere più che a vivere ma a Mark non era pesato, era felice e non aveva sentito la mancanza di nulla. Col tempo le cose iniziarono a cambiare, non solo le già scarse opportunità di lavoro sembravano diminuire ogni giorno ma iniziava a pesare anche una spensieratezza giovanile accantonata troppo presto. Arrivò la svolta quando Alice lo sorprese con la proposta di trasferirsi. Lui tentennò, non era un intrepido esploratore ma più un pigro abitudinario e quella rivoluzione lo spaventava. Si fece forza vincendo le sue paure, l’amava troppo e l’avrebbe seguita in capo al mondo accettando quindi la nuova destinazione. Ricordava il viaggio, breve ma concentrato di emozioni: dall’eccitazione per l’avventura alla paura del salto nel vuoto che stavano compiendo, finchè non arrivarono nello stesso luogo in cui ora si trovava da solo. Tornò alla realtà e paragonò le due immagini, quella di allora e quella che aveva dinnanzi agli occhi in quel momento. Ora come la prima volta lo spettacolo era indiscutibilmente mozzafiato, al crepuscolo lo skyline della città offriva la perfetta combinazione di moderno metallo e selvaggia natura. Alberi e palazzi si completavano regalando un panorama indimenticabile, reso ancor più affascinante dal placido fiume che avvolgeva la città rispecchiandola e mescolando così la verità col suo riflesso. Quel giorno notò anche dell’altro, una disorientante foschia celava chissà quali oscuri e pericolosi segreti. Non sapeva se fosse solo colpa dell’alcool o una sorta di monito ma comunque si chiese se quella nebbiolina fosse presente anche la prima volta e lui non l’avesse notata. Lasciò per un attimo da parte quella domanda rituffandosi nei suoi pensieri. L’impatto con la città fu il migliore che potesse sperare, trovarono rapidamente lavoro e una casa integrandosi facilmente coi ritmi caotici cittadini. Sentendosi a proprio agio, la coppia iniziò a guardare con ottimismo al futuro pensando al matrimonio e valutando la possibilità di allargare la famiglia. Ad intaccare quei progetti di vita ci pensò il capo di Mark, una mattina lo convocò in ufficio scuro in volta comunicandogli quasi meccanicamente che la crisi obbligava l’azienda a dei tagli e che lui era l’ultimo arrivato. La perdita dell’impiego lo svuotò completamente, si sentì sconfitto come mai gli era capitato prima inoltre un solo stipendio rappresentava un problema serio. Vivere divenne quasi utopia ma anche il semplice sopravvivere assunse le sembianze di un miraggio. Con quei problemi economici si ritrovarono in una situazione peggiore di quella che avevano lasciato prima di giungere in città. Nel momento più critico della loro vita, Alice sparì all’improvviso senza un apparente motivo. Mark provò di tutto pur di ritrovarla ma ogni tentativo risultò vano, sembrava come essersi dissolta nella nebbia che tanto lo inquietava. Il suo cuore esplose in mille pezzi e avvertì un dolore totale e talmente grande che temeva seriamente di impazzire, sempre che quella soglia non fosse ormai già valicata. Si sentì tradito sia dalla città che dalla sua amata, la vita senza Alice per lui era semplicemente impensabile, collegò questo pensiero alla sua tasca estraendone la pistola, aveva finito la bottiglia e il coraggio liquido faceva effetto. Credeva di essere finalmente pronto ad usarla. Chiuse gli occhi portando la Glock alla tempia e mentre stava per premere il grilletto udì una voce familiare: “Non farlo amore mio!” Rimase scioccato nel sentire l’unica persona ad averlo chiamato in quel modo e scoppiò a piangere non trovando neanche il coraggio di riaprire gli occhi. Dubitava fortemente che quelle parole fossero reali, ubriaco e sconvolto com’era. Forse la foschia aveva valicato i confini penetrando il suo cervello ma fu comunque felice di risentire la sua Alice:“Non farlo! Devi vivere!” Mark continuò a piangere per diversi minuti, quando riuscì a calmarsi finalmente ritrovò almeno in parte la lucidità che sembrava ormai perduta. Si alzò dalla panchina e rimettendo in tasca la pistola lasciò cadere un ritaglio di giornale datato 9 marzo: “Pirata della strada: altra vittima. Nella giornata di ieri, caratterizzata da un’intensa foschia, una giovane donna di nome Alice Truman è morta investita attraversando le strisce pedonali.” Prima di riprendere la strada di casa, osservò il panorama ancora una volta sussurrando: “La città paradiso.” Avrebbe dovuto decidere se restare o partire ma in quel momento non era importante, a contare davvero erano le immaginarie parole di Alice che gli avevano dato la forza di continuare a vivere. Solo…ma con lei per sempre nei suoi pensieri. |
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Ultima modifica: 09/03/2015 21:37 Da Titivillus.
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La mia città
Ieri sono andato nella mia città, dopo una giornata stressante. E’ la città che mi ha dato i natali e le sono particolarmente legato, più che da un sentimento campanilistico, da un vero e proprio amore per i suoi paesaggi, per le sue vie, per i suoi monti, per il suo lago. L’ultima stazione della linea Milano-Como è a una ventina di metri dal lago, ragion per cui, scesi dal treno, si inizia a sentire una dolce brezza che accarezza le guancie scaldate dal sole tipico di una giornata di primavera. Uscendo dalla stazione, passando una struttura in acciaio dal sapore novecentesco, il sole abbaglia gli occhi con i suoi riflessi nel lago. Alzando lo sguardo ci si trova immersi in una conca ai cui lati si stagliano i monti a destra e dei colli a sinistra, in modo che la città debba arrampicarsi da una parte, estendendosi dall’altra. Incamminatomi sul lungolago, mi ritrovo con il sole di fronte, poco più alto delle piccole vette che si alzano oltre il lago; scorgo tra gli alberi il tempio Voltiano, che mi fa venire in mente i tanti pomeriggi passati con la mia ragazza nei giardinetti poco distanti. Tra me e il tempio, il piccolo porto, con le barche che dondolano all’ondeggiare dell’acqua, a tratti si sente qualche rombo di motore, un idrovolante sta volteggiando sopra la mia testa descrivendo ampie circonferenze nel cielo azzurro macchiato da qualche leggerissima nuvola. Il sole è ancora abbastanza in alto da illuminare tutta la valle, cedo alla voglia di seguire il corso del lago accantonando il desiderio di un buon gelato in centro. Prima di avviarmi verso il viale alberato che fa da perimetro all’acqua, attraverso piazza Cavour e scorgo il campanile del Duomo, quasi in contrasto con lo stile gotico, sottile e slanciato, dell’edificio. Addentratomi nel viale alberato che tocca il lago, l’ombra mi accoglie con una ventata d’aria mite; un signore passeggia fischiettando e richiama il cane, di volta in volta. Una ragazza studia, sdraiata sull’erba, il Manzoni: mi accorgo della fortuna che ho, vedendo questo luogo di pace e di ispirazione per un grande scrittore come fu. Ho trovato un soggetto su cui scrivere – penso. Arrivo allo stadio, noto che l’idrovolante ha smesso di volteggiare sopra la città e inizia la discesa verso il lago. Il sole sta per calare, nascosto dalle cime. Giro le spalle al lago, prendendo la via del ritorno. |
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Una striscia di paradiso.
Bani Shueila, 08 luglio 2014. Oggi è il mio tredicesimo compleanno e torno ad abbracciare mia madre dopo lunghi mesi trascorsi a cercarla nei volti dei passanti, nella brezza del vento e nelle ombre che strane nuvole disegnavano sui muri. Se ne andò un giorno di marzo; un grande boato, poi in mezzo ad una nuvola di cenere e detriti sparì. Il corpo dilaniato dalle ferite rimase per ben 2 giorni vicino al confine, ma la sua essenza scomparve appena il missile raggiunse il suo obbiettivo. Il Paese dove vissi era tutto raccolto all’interno di un alto muro che noi bambini ci divertivamo a dipingere e a colorare e solo da quassù capisco che non serviva a proteggerci come le nostre madri, bugiardamente ci raccontavano. Per la prima volta ho la possibilità di scoprire ciò che sta all’esterno di quel muro, posso vedere con estrema chiarezza da dove sparavano tutte quelle piogge che giornalmente colpivano questo o quel quartiere, grosse gocce pesanti come piombo che sconquassavano il terreno e facevano salire al cielo nubi di cenere e grida di pianto. Visto da quassù il mio Paese assomiglia ad una vaso, muri alti che contengono poche gocce di vita, destinate con il tempo ad evaporare e a non lasciare più nessuna traccia; più che ad un vaso ad un bicchiere, con pareti che sembrano trasparenti visto come il mondo, occidente in primis, finge di non vederlo questo dannato muro. Riabbracciare mia madre è il sapore più simile alla felicità che io abbia mai provato. Ma questa sfumatura di gioia si dissolve in fretta, visto che posso vedere cosa succede 30 mila piedi sotto di me. C’è una bambina di 7 anni con un vestitino giallo macchiato di sangue, nelle mano destra una collanina di conchiglie, le lacrime che si scavano lentamente la strada attraverso la terra e la polvere che ricoprono il suo viso. Se ne sta in ginocchio, immobile, mentre una ruvida brezza gli scompiglia i capelli; lo sguardo vuoto fissa quel cumulo di calcinacci da dove alcuni uomini hanno da poco estratto un bambino un po’ più grande di lei; il corpo è inerte, completamente avvolto da una coltre bianca, la bocca socchiusa, e gli occhi castani spalancati al cielo; occhi che hanno perso la propria luce per sempre. Fatima aveva deciso di indossare il vestitino giallo perché era il mio compleanno, era il suo vestito preferito. Stavamo mangiando assieme un pezzetto di torta che preparai la sera prima, ad un certo punto lei si alzò e con la faccia carica di orgoglio corse fuori in cortile dicendomi che aveva una sorpresa per me. Il vento face oscillare la tenda che sostituiva la porta d’ingresso, e vidi Fatima raccogliere una collana nascosta dietro ad un cespuglio. Improvvisamente sentii un sibilo, i muri tremanti si scrollarono di dosso la polvere un attimo prima che una luce accecante implodesse tutt’ attorno. Fui pervaso da un senso di leggerezza e pace che aumentò d'intensità a mano a mano che salii nel cielo fino a ricongiungermi con mia madre. Io e Fatima eravamo legatissimi, ancor prima che nostro padre ci abbandonò per arruolarsi con Hamas e che nostra madre se ne andò in seguito a quel terribile attacco. Ora che anch’io l’ho lasciata, Fatima non ha più nessuno, e le lacrime tornano a farsi vedere sul mio volto per la prima volta da quando sono arrivato qui. Potevo fare poco da vivo, ora da morto forse ancora meno, se non scrivere questa lettera con la speranza che possa far aprire gli occhi a chi non sa, e smuovere la coscienza a chi può far qualcosa. Vista la distanza che mi separa dal mondo dubito che possa arrivare, ma sento comunque il dovere di scriverla; per Fatima, per Gaza, per tutto questo paradiso. Mahmoud Abu Khusa |
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Ultima modifica: 11/03/2015 22:44 Da Titivillus.
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Condizionamento
“Signore, è appena arrivata una lettera da suo figlio.” Queste parole gli provocarono una scarica elettrica lungo la schiena; alzò gli occhi dal grande registro che stava compilando. “Tutto è perduto, quindi. Avanti, aprila e leggila per me.” L’emissario scartò la busta, estrasse la missiva e, con voce calma e profonda, cominciò a leggerla. Caro padre, ti scrivo per comunicarti il mio tragico fallimento. Sono stato scoperto e la mia missione è finita nel peggiore dei modi. L’obiettivo era così vicino, come mai lo è stato prima d’ora; del resto, il tuo piano si è rivelato perfetto fin dall’inizio. Infiltrarsi non è stato difficile, sono stato ben accettato sin da subito, come previsto. I problemi sono sorti nei giorni seguenti e per tutte le settimane che ho passato in questo terribile posto. Qui sono tutti maledettamente felici, si aiutano a vicenda e senza alcun secondo scopo; vige uno stato di calma e pace assoluta. Ho dovuto far sempre buon viso a cattivo gioco, ridere e gioire con gli altri, sopportare le più bieche forme di altruismo; dedicando quasi tutto il mio tempo a collaborare con persone mai viste in iniziative che non portavano a nessun guadagno materiale. E’ stata dura, ma ho retto. Sì padre, ho resistito, perché sapevo che solo mantenendo alta la concentrazione avrei potuto ingannare gli abitanti di questa spaventosa città e farmi credere uno di loro. Dopo circa un mese trascorso con un finto sorriso stampato in faccia, ho ritenuto che fosse finalmente passato abbastanza tempo per chiedere un’udienza privata con il mio obiettivo, senza suscitare alcun tipo di dubbio. E così è stato: l’incontro è stato organizzato per il giorno dopo, ossia ieri. Padre, descrivere il mio fallimento non sarà facile per me ora, dato che ancora affogo nella vergogna al solo ripensarci, ma ci proverò. Sono arrivato da lui pieno di convinzione nei miei mezzi e decisamente caricato dalle settimane passate a nascondere l’odio dentro di me; voglioso di esplodere tutta questa rabbia con la fine e goduriosa arte dell’omicidio. Ho però capito di essere prossimo al fallimento nel momento in cui ho incrociato il suo sguardo: ha scavato dentro di me e ha capito in un istante chi fossi e quale missione mi avesse condotto fin là. Sono stato arrestato e adesso mi trovo qui, in questa cella, in attesa di decidere sul mio futuro. Ebbene sì, mi faranno scegliere: morte o condizionamento. Domani lui verrà qui e mi chiederà se vorrò sparire per sempre o se vorrò passare il futuro in questa città, diventando come gli altri folli abitanti che la popolano. Ed io…beh, ho preso la mia decisione: mi farò condizionare. Mi conosci abbastanza bene da indovinare le mie motivazioni, dunque non mi dilungherò a spiegartele. Padre, mi hanno dato la possibilità di scriverti questa lettera per salutarti; ed io ti saluto chiedendoti perdono per aver tradito la tua fiducia. Spero in futuro di potermi riscattare, anzi: sono proprio sicuro che ce la farò. Il lettore alzò gli occhi dalla lettera e si rivolse all’uomo seduto alla scrivania. “Cosa significano le sue ultime parole? Ha in mente qualcosa?” L’enorme pugno sbatté sul tavolo. “Quello stupido, si è fatto ingannare. Pensa di poter in qualche modo bloccare o influenzare il condizionamento, di diventare così un angelo corrotto e di raggiungere in questo modo la mia Nemesi, l’Altissimo, per distruggerlo o corromperlo. Non è riuscito neanche a scalfire Pietro, che lo ha sopraffatto in un attimo, come potrebbe mai superare il condizionamento ad angelo? Non ha la forza mentale necessaria. Loro lo sapevano, per questo gli hanno dato la possibilità di fare quella scelta, altrimenti lo avrebbero disintegrato e basta. E poi gli hanno anche fatto scrivere la lettera, in modo da farmi sapere che hanno preso mio figlio e che lo faranno uno di loro, uno sporco lurido angelo, così che io mi tormenti nell’angoscia. Ora lasciami, devo pensare a come riprendermelo. Giuro che raderò al suolo quel posto prima o poi, con tutti i loro abitanti. Lo giuro sul mio nome, Lucifero!” |
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Ultima modifica: 13/03/2015 08:12 Da Titivillus.
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N52
Entro nel locale e come sempre avverto le luci della ribalta su di me: è come se l'occhio di bue mi illuminasse dalle quinte, facendomi risplendere come un faro nella notte. Le donne si girano immediatamente, non necessitano nemmeno di vedermi fisicamente: loro mi "sentono". Una due tre, bionda rossa mora, la prima col seno grande, l'altra con le gambe chilometriche, la terza con il culo più da sballo mai entrato in un paio di pantaloncini aderenti. Le ragazze aspettano che mi sieda al bancone, poi scivolano verso di me, attratte irresistibilmente dal mio fascino. Non devo neppure aprire bocca, non devo neanche citare le frasi dei vecchi film che mi piacciono tanto, quelli 2D del ventesimo secolo: “Ehi baby, tu ed io non saremo mai amici”. “Bambina, non ho niente che tu non possa sistemare”. Una mi appoggia una mano sulla spalla, languidamente, l'altra ride a ogni mia parola, la terza sogna persa dentro i miei occhi con le labbra leggermente dischiuse. Beviamo molto e parliamo poco, saliamo fino al mio appartamento, entriamo e la notte comincia irrefrenabile e convulsa, un turbinio di lenzuola, tette e chiappe da leccare, da succhiare, da condividere, la mia virilità continuamente sollecitata e immersa ora qui, dopo là. Dormo a tratti, risvegliato da una delle ragazze, da una carezza, da un sussurro, da due di loro che iniziano a toccarsi aspettando che io possa tornare a soddisfarle. Ogni mia notte da che ricordo è stata così: due o tre donne, mai una sola, qualche volta addirittura di più. Mentre sono sotto la doccia, dopo che le splendide creature mi hanno lasciato nella tarda mattinata, cerco di pensare al lavoro, alla mia vita, alla mia famiglia, a un qualcosa che mi descriva oltre all'essere un predatore di fica. Niente, nulla balza alla memoria: il mio nome lo conosco, ma non mi dice nulla di particolare, non so cosa faccio per vivere, non so se ho qualcuno o qualcosa al di fuori del mio scannatoio e dei locali dove vado a rimorchiare. Non ricordo di essere neppure mai uscito dal quartiere, non sono mai stato in giro per il mondo, in qualche lontano recesso della grande Città che ormai da qualche secolo ricopre il Pianeta Terra. A dir la verità non ricordo nulla che risalga a più di sei giorni fa. Nel pomeriggio dormo qualche ora, poi il pene mi risveglia perché esige di essere massaggiato, leccato o immerso nuovamente. Mi vesto, esco e rivolgo i miei passi verso un locale in centro, sicuro di andare incontro ad un'esperienza memorabile. Mangio qualcosa di veloce per la strada e persino l'anziana venditrice di panini mi guarda attenta, un sorriso di desiderio lievemente abbozzato sul volto rugoso. Appena entrato nel bar, non quello di ieri, due femmine superbe si interessano immediatamente a me: in un batter di ciglia si avvicinano e poco dopo mi portano in bagno, regalandomi un servizietto indimenticabile. Il tutto prosegue ballando da qualche altra parte, su una pista stretta dove i loro corpi seminudi e caldi, scivolosi per il sudore, si strusciano addosso a me, eccitanti. Finisco in una camera d'albergo sconosciuta, senza più sapere chi siano le prede o il predatore. Raggiungo vette di piacere inaudito attraverso mille fantasiose posizioni: fremo, spingo, mi surriscaldo, quasi non respiro più per l'affanno, ma l'esperienza è totale, assoluta, unica. Mentre le mie partner riposano avvinte in un abbraccio follemente erotico, mi affaccio alla grande vetrata: la Città sottostante è immensa, sconfinata, l'unica realtà di questa epoca del mondo. La camera è insonorizzata eppure con l'orecchio della mente so quanto grande sia il frastuono del traffico mischiato a migliaia di voci sguaiate che riempiono la notte. Le luci sono ovunque e dappertutto gente cammina sghemba, abbracciata ad altra gente, uomini e donne alla ricerca di divertimento, di sesso, di piacere. Ho nuovamente voglia di scoparmi le due splendide creature che tanto mi hanno fatto godere poco fa e rivolgo i miei passi verso il letto. All'improvviso mi sento strano, indefinito, scosso: non sto male ma è come se dentro il mio corpo stesse avvenendo una metamorfosi a livello infinitesimale, molecolare. E' come se un'armatura cadesse via, come se un fantasma di un qualcosa che non posso comprendere mi abbandonasse, sostituito da una vecchia e conosciuta fiamma che rientra più rapida del pensiero dopo essere stata ospitata chissà dove e chissà per quanto tempo. Guardo il letto e vi vedo due donne ordinarie, banali, totalmente diverse da come apparivano fino a pochi istanti fa. La comprensione si affaccia dentro di me crudele e corro in bagno a cercare lo specchio: non vedo più il fascinoso e tenebroso predatore di fica, quello che divento ogni volta che posso trascorrere la mia settimana N52 a Paradise City, il “luogo dove tutto è possibile” come recita la brochure, no davvero. Di fronte a me vi è solo Carmelo Allegri, contabile, con la sua/mia faccia da topo, gli occhi troppo ravvicinati, il mento sfuggente, le labbra sottili. E' finita, come sempre, sia per me, sia per le due amanti di questa nottata. Le sveglio, le avverto e ci vestiamo in fretta senza guardarci, colmi di imbarazzo, sapendo di dover raggiungere il primo posto di Polizia: da lì verremo tradotti fuori dal quartiere e torneremo alla vita normale. Per trecentocinquantotto giorni sognerò la mia settimana di vacanza, la N52, quella in cui potrò prendere la droga psichica legale HMF (hide my face), che mi farà apparire come desidero nell'intimo, permettendomi inoltre di scordare la quotidianità. Assieme a me vi saranno tante altre persone durante le loro ferie, drogate, felici e irriconoscibili. Nessuno più crede alla vita dopo la morte, fandonia dei tempi andati, in cui la superstizione finiva per mischiarsi all'oggettività, nutrendo culti insensati. Noi il nostro paradiso lo possiamo avere in terra, solo per una settimana all'anno certo, ma a Paradise City ogni sogno diventa realtà. |
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Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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The Red Side of the Blue
“Merda!” Non era scalzo, ma sarebbe potuto esserlo. “Solo merda! Fango e merda, puzza e merda!” Non era solo merda, ma sarebbe potuto esserlo. Aveva un cranio essiccato a mordergli un calcagno. Uno scalpo, un teschio...chiamalo come vuoi, ma aveva un pezzo di Punk attaccato alla caviglia. Gli aveva messo tutto il piede in bocca quando ormai si era stancato di avanzare cautamente spostando quelle teste con i piedi. Gli occhi cavi si incrociavano per guardargli i lacci. “Se vai in discoteca con questi fai la mafia”, gli aveva detto Rotùt, immaginando il seguito di devoti che si sarebbero accalcati al suo calcagno per la processione del sabato sera. E quei lacci li aveva comprati per quello, solo per quello. Erano tremendi, brutti da morire, dolorosi agli occhi come un parto, ma la fila era interminabile e l'Ego gli esplodeva in petto come se gli avessero colpito l'Anahata con indice e medio. Una figura vestita da apicoltore girava in tondo spruzzando del liquido contro l'osteoporosi, per evitare che le teste si crepassero. Di tanto in tanto si piegava su di esse e tirava fuori una pinza dai pantaloni per strappare i denti a chi ancora ne aveva. “E mollami!”. Scosse il piede per scrollarsi quella testa che continuava a mordicchiargli la caviglia tentando di risalire il piede per arrivare ai lacci. Pensa se ora, spostandoti con la sedia, scoprissi che attaccata al tuo piede c'è una testa che sta cercando di digerirti e che, se avesse un apparato digerente, probabilmente quel piede non sarebbe più tuo ma bolo. Disprezzo e disgusto, fango e merda. Ma quella testa non ha stomaco né succhi gastrici, non ha pelle né denti...e ti ricorda tanto tua nonna. Gli ricordava inconfondibilmente sua nonna. La pelle era rugosa e sottile, tanto da lasciar intravedere tutto il sistema circolatorio. Tanto che, quando esercitava una leggera pressione su una vena, poteva vedere distintamente i globuli rossi sbattere contro l'ostacolo e riversare a terra il loro carico d'ossigeno. Erano lì, con le braccine esili e le manine indaffarate a tirar su quelle leggere bolle d'ossigeno che andavano di nuovo a riempire la sacca. Dei goffi ma ligi canguri paonazzi. Avevano anche gli stessi occhi scavati e vuoti: gli occhi della malattia, gli occhi della stanchezza. Con gli occhi lucidi, respirò a pieni polmoni quel tanfo nauseante e si sfilò delicatamente il teschio dal piede con le mani. “Tornerò a prenderti”, gli disse, mentre la bocca sdentata continuava a ruminare come un bambino che chiede di essere avvicinato al capezzale. Si tolse le scarpe e gliene infilò una in bocca, mentre un laccio gli colava fuori dalla bocca come il rivolo di saliva di un vegetale. “Aspettami qui”. La sua voce era coperta dai mugugni degli altri ospiti, mentre l'apicoltore continuava con il suo ritornello. E a lui andava bene, gli andava bene bisbigliare ed essere coperto da quel vociare, perché sapeva che non sarebbe tornato. Sarebbe potuto essere scalzo e lo era. I piedi nudi affondavano nella melma mentre il fiato si appesantiva e gli occhi lucidi si confondevano con la fronte. “Qual è il mio peccato? Dov'è il mio Paradiso? Cerbero, figlio d'un cane, nato a tre teste ché di saccenza ingordo. Mangiami i piedi, teste di cane, ma ricorda il promesso, me lo farò bastare. Suonerò il violino, lo suonerò ancora, ma ridammi le mani per sfuggir la calura. Dov'è il mio peccato? Qual è il mio fardello? Ti farò pianger sangue e sputare il cervello. Fatti vedere, rabbioso bastardo, e 70 illibate per il mio salto nel vento”. |
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Ultima modifica: 14/03/2015 17:24 Da Titivillus.
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SILVIO DON'T CRY
Silvio pose i suoi lucidi occhi sul macchinario alla sua destra. Un punto verde tracciava rapido una linea del suo stesso colore. Uno, due, tre bip e poi più nulla. L’oscurità. E poi la Terra. E le stelle. Poteva vederle, poteva sentirle. Nudo fino all’anima si allontanava sempre di più dal suo pianeta e dal suo corpo materiale, un uomo in fuga da sé stesso. Un’attrazione simile a quella gravitazionale, diretta chissà dove, lo portò a superare il pianeta rosso. “Pianeta comunista!” Si compiacque della propria battuta e di essere cosciente mentre Marte era ormai lontano. Il suo naso catturava aria senza curarsi della possibilità che fosse un’illusione. Senza il tempo di riflettere si ritrovò di nuovo nel suo corpo coperto da una tunica bianca. Calpestava un terriccio azzurrognolo che sotto il suo peso si deformava come se non avesse realmente sostanza, come una nuvola. Era su una luna di Saturno. Ne vedeva gli splendidi anelli nel cielo terso. Dietro di lui una macchina infernale riduceva lenta i suoi lamenti. Davanti un enorme cancello dorato sormontato dalla scritta Welcome to the Paradise city. Non si stupì di trovarsi in Paradiso. Sulla sinistra, appoggiato ad un bancone, un uomo con profonde rughe e capelli bianchissimi si agitava nel sonno. Silvio picchettò il campanello della reception e il vecchio aprì gli occhi senza turbamento. Come se fosse sveglio da duemila anni disse meccanicamente: - Nome e cognome? Era la prima volta dopo tanti anni che qualcuno non lo riconosceva. Con voce smorzata rispose: - Sono Silvio Berlusconi. - Bene è in elenco, questa è la sua card. Prima di entrare bussi alla porta del Paradiso. Buona permanenza. Tramortito prese la card dal bancone e riprese lucidità. - Lei è San Pietro, giusto? – e al cenno affermativo di questo – Perché ha due chiavi e non una? - Ho un cesso tutto mio. Varcando le soglie della città del Paradiso si sarebbe aspettato onori e gloria. In fondo era stato il più grande statista italiano. E a questo pensiero una risata diffusa si sparse tutt’intorno. Decine di persone si tenevano le loro tuniche bianche strette in vita mentre si genuflettevano con le lacrime agli occhi. Il più grosso fra loro, calvo e con un mazzo di garofani rossi che gli spuntava da dietro la tunica, si fece avanti. In lui Silvio riconobbe il suo: - Maestro! - Silvio sei giunto finalmente, ci hai messo fin troppo tempo! L’espressione di Silvio rimase immutata, tutto preso com’era da quella figura familiare. - Bettino mi dovrai spiegare tutto. - Abbiamo tanto tempo, non temere. Per ora sappi solo che i tuoi pensieri qui non sono segreti, ecco spiegate le risate di prima. Craxi si tolse gli occhiali e si asciugò le ultime lacrime. - Questi corpi non sono materiali, sono illusori, creati dalla nostra mente per permetterci di sopravvivere senza impazzire. Sei arrivato qui perché l’aggeggio lì fuori ha catturato il tuo stato quantico, la tua anima. Così anche i tuoi pensieri non hanno più il recinto del tuo cranio. A proposito, bei capelli. Il primo impatto con la città Paradiso fu per Silvio meno entusiasmante di una partita del Milan di Inzaghi. Con Craxi che svolgeva il ruolo di Virgilio si sentiva un novello Dante, ma era ancora mosso da un’insana ambizione. Craxi era troppo in basso nella scala gerarchica. Non resistette a lungo prima di domandare: - E il Capo? - Sono sicuro che Gesù ti vorrà conoscere presto – il sorriso di Silvio straripò dalla sua faccia – ti seguiva sempre in tv. Anche se ha bestemmiato quando hai fatto passare tutti al digitale, qui eravamo impreparati. Silvio era ormai impossessato dal demone della smania: - E che ne pensa di me? - Sei qui no? Nella sua Paradise city. - Questa città Paradiso però mi sembra architettata male, potremmo chiedere di fare città Paradiso 2, che ne pensi? L’occhiolino non gli riuscì, anche la sua anima era impregnata di silicone. - Non ti azzardare a chiamarla città Paradiso davanti a Lui, è fissato con i Guns n’ Roses. Hai bussato alla porta del Paradiso vero? Finalmente arrivò il grande giorno. Non stava più nella pelle inumana. Sapeva che si sarebbe divertito da matti. Si aggiustò la barba allo specchio che rifletteva il suo tipico riso sardonico e riaprì la ferita al costato. Ai nuovi umani faceva sempre effetto metterci un dito dentro. Suo padre pensava di castigarlo, ma era riuscito a crearsi una Paradise city dal nulla. Esiliato su quella luna di Saturno per non esser riuscito a conquistare la Terra, era riuscito perlomeno ad ottenere la macchina con cui ora catturava le coscienze quantiche dei terrestri che desiderava. Silvio si presentò nel luogo indicatogli da Craxi. Il suo corpo illusorio tremò alla vista della sua villa di Arcore coperta in parte dalla figura di Gesù. - Sono così onorato! - Oh, anch’io Gesù. Silvio non aveva perso la sua verve e il suo sorriso pieno di illimitata accondiscendenza. Indicando dietro di sé Gesù attaccò con la glorificazione che aveva preparato per Silvio: - Questa villa è un mio regalo per te, per un uomo che si è fatto da sé, che ha sconfitto il comunismo italiano riportando in auge il nome dell’Italia scendendo in campo solo – e rimarcò la parola solo – per i cittadini italiani. Silvio si beava delle sue parole mentre Gesù fremeva dentro tanto quanto più era maestosa e falsa l’apoteosi. – Un uomo che è morto innocente nonostante in vita fosse stato vessato dalle toghe rosse, un uomo che… La manfrina durò a lungo. Alla fine Silvio si permise di rivolgere a Gesù una domanda che lo opprimeva e volle alleggerirla con una battuta delle sue: - Beh, devo dire che da Paradise city mi aspetto ancora una cosa: le 72 vergini. La patonza deve girare! Gesù sghignazzò per qualche minuto prima di fissarlo con uno strano mix di sorriso beffardo e sguardo torvo: - Caro mio, non vedrai alcuna donna nuda per il resto dell’eternità. Questa è la mia Paradise city, non la tua. Non ti sei chiesto come mai Craxi se ne va con un mazzo di garofani su per il culo? |
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Paradise City - Profezia
Correre. Più veloce. Non basta, spingi, spingi forte, respira, sforzati finché non esplode il cuore. Crrrck. Ancora quel rumore, vicinissimo. Un ramo che si spezza? Davanti a me il Guercio perde l'equilibrio in modo troppo goffo da esser naturale, compie una folle piroetta in aria come se la parte inferiore del suo corpo avesse improvvisamente deciso di correre più in fretta del resto, sospinta in avanti da una forza prodigiosa. Sparisce rotolando in una nuvola di polvere, arti e uno schizzo di sangue. Impossibile... È follia. Scarto di lato per evitare il suo corpo un istante prima che qualcosa colpisca il terreno là dove avrei dovuto esserci io, divellendo una zolla di terra grande quanto una testa. Sono ancora vivo. Scatto. Sono oltre il limite, più veloce di quanto abbia mai corso in vita mia, più di quanto mai correrò, perché ce la farò anche questa volta, non morirò, non qui, non ora. Il bosco è vicino, là sarò al sicuro. Un sibilo acuto seguito da un tonfo e la corteccia di un albero che esplode. Mi tuffo tra le foglie. Mi graffiano, mi schiaffeggiano, l'orecchio sinistro mi duole dopo l'impatto con un ramo. Duroch si è sbagliato. Come posso pensarlo? Duroch non si è mai sbagliato. Coincideva quasi tutto. Gli indizi, la profezia, la lunga marcia. Invece no, quando sembrava esser accaduto per davvero, quando stavamo per entrare, quando il sogno stava per tramutarsi in realtà sono spuntati dal nulla quei due uomini armati di tuoni. Il pericolo è cessato eppure non riesco a smettere di correre. C'è un ruscello, lo riconosco, l'abbiamo attraversato stamattina. Sono già così distante? Adesso c'è una collina, la ricordo bene. Proseguo lungo la salita. È breve, per fortuna, perché in cima ogni fibra del mio corpo grida basta. Mi fermo per rifiatare. E non ci riesco. Non posso fare a meno di muovermi, in cerchio. Devo calmarmi. Duroch, dannato Duroch. Eri intesta al gruppo, come sempre. Sei stato il primo a cadere. Ti è esplosa la testa e solo dopo è giunto il rumore del tuono. La città promessa, il paradiso perduto, il luogo dove il cibo è talmente abbondante che spunta dai muri, dove potremo abbandonare l'affanno della caccia, la lotta per il territorio, dove potremo vivere in pace come facevano i nostri antenati. La profezia. Gli abbiamo creduto tutti. Ne avevamo bisogno. Fruscio d'erba. Lalla. Trema come una foglia. Ha gli occhi fuori dalle orbite. Era dietro di me, a due passi, ma sono sempre stato molto più veloce di lei perciò quando gli altri hanno cominciato a morire e io ho pensato solo a fuggire l'ho distaccata in fretta. Eppure ce l'ha fatta. Seguendomi si è salvata. Seguendo me. Sempre me. Le sagome dei palazzi brillano bianche sotto il sole. Questa non è la città della profezia. Dove sono le montagne innevate? Dov'è il fiume a una sola sponda? No. No. Ci siamo lasciati ingannare dall'emozione, dalla fretta, dalla stanchezza, tutti, Duroch per primo, pagando un tributo troppo alto. Lalla mi sta fissando. Mi siedo. L'erba è morbida. Lalla si siede accanto a me. I nostri fianchi si toccano. A fine pomeriggio siamo in sei. Ronald ha uno squarcio nel torace da cui zampilla troppo sangue. Non riuscirà a tenere il nostro ritmo. Peccato, era uno dei nostri migliori cacciatori. Domattina partiremo, in cinque, tre femmine e due maschi. Ho deciso che Lalla sarà la mia compagna. Credo ancora alla profezia, così come ci credono gli altri. Posso leggerglielo negli occhi. La città paradiso esiste, lo sento dentro di me, è il luogo ove uomini e cani vivono insieme, in amicizia. Ora io, Satori, sono il nuovo capobranco. |
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