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"Non so dove mi porterà questa marea,
a largo o a riva non ne ho idea, se con qualcuno o se con te, non so domani neanche se sarò con me..." Domani - Articolo 31 Domani è il tema della settima tornata di UniVersi, c'è tempo fino al 15 settembre compreso per postare il proprio racconto in gara. REGOLE - Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 12000 (spazi compresi, titolo escluso). Potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito; utilizzate Firefox dato che con altri browser il conteggio non risulterà esatto. - I racconti devono avere un proprio titolo e devono essere postati in forma anonima, effettuando il login con nome utente Titivillus e password universi. - Qui potete trovare il regolamento completo. RACCONTI IN GARA - 02/12/2012 "A mio nonno" (11245) - Domani è un giorno come un altro. (8573) - Oggi-Domani (9445) - FC-43 (6481) |
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Ehi dol! Bel dol! Suona un dong dillo! Suona un dong! Salta ancor! Salice bal billo! Tom Bom, bel Tom, Tom Bombadillo!
Ultima modifica: 17/09/2014 19:03 Da Tavajigen.
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02/12/2012
"A mio nonno" Sono quasi passati due anni. Due lunghi anni. E’ difficile accettare che tu non ci sia più, che il mondo abbia perso quei grandi occhi color nocciola, che si sono spenti in maniera inderogabile quella notte di Dicembre, tra il primo ed il secondo giorno del mese finale di quel maledetto anno. Ricordo ancora il giorno della mia laurea, due anni prima, quando non potesti presenziare perché un forte mal di schiena ti avrebbe impedito di affrontare quei due viaggi da quattro ore, andata e ritorno, verso Bologna. Ricordo per filo e per segno ogni attimo da lì in avanti. Ricordo quando per una tosse persistente andasti all’ospedale per farti visitare. Ricordo che ti dissero saresti tornato nel giro di qualche giorno, che poi divenne settimana ed infine mese. Nessuno pensava, in maniera conscia, forse più con il cuore che con la testa, che il dilungarsi della degenza ospedaliera fosse dovuto a qualcosa di più che una broncopolmonite. Però i dottori dicevano questo, ovvero che di broncopolmonite si trattava e che, quindi, potevamo stare tranquilli perché gli antibiotici avrebbero fatto effetto nel giro di qualche settimana e saresti pure potuto tornare a lavorare. Eppure non fu così. Non so, e non voglio nemmeno sapere, se la verità mi sia stata nascosta, negata, fin troppo a lungo, se fosse stata a conoscenza di tua moglie, dei tuoi figli e delle loro rispettive mogli, prima che venisse rivelata anche a me. Non lo so e non lo voglio sapere perché mi causerebbe dell’inutile rabbia. Le numerose, che col senno di poi diventano scarse, visite che ti feci in ospedale le ricordo tutte, per filo e per segno. Anche io ero caduto nella trappola dei dottori. Avevo abboccato ingoiando l’amo e la lenza. D’altronde, avevo altra possibilità? La combinazione creata dal vederti sorridere ogni qualvolta entrassi dalla porta e le nostre conversazioni non potevano farmi pensare ad altro che ad una cura, si un po’ più lunga del solito, ma che avrebbe comunque abbattuto quell’infiammazione polmonare. A pensarci bene la fiducia non fu malriposta, tutt’altro. La bronchite sparì nel giro di qualche settimana, però ti tennero lì, non ti rimandarono a casa. Io lo seppi sentendo confabulare mia zia e mia mare, tra una sigaretta sul terrazzo e l’altra. Aprii il portone di casa e sentii bisbigliare al piano di sotto. Mi fermai come un ladro per paura di essere localizzato e riuscii a carpire qualche parola sconnessa. Ovviamente non potevo ricollegare tutto, lì su due piedi, però un parassita depositò nel mio cuore un suo uovo: l’uovo del dubbio. Mano a mano che il tempo passava, che il letto di casa tua ti reclamava a gran voce, mano a mano che i pranzi domenicali, grande tradizione ventennale di famiglia, andavano a scemare, l’uovo cresceva dentro di me e con lui le paure. Nessuno poi me lo disse in faccia, no. Un giorno sentii nonna dire che soffrivi di “un male” senza meglio precisare. Ricordo che disse: “il male del nonno”. Fu proprio in quel momento che l’uovo si schiuse ed il parassita iniziò ad avvelenare il mio sangue, le mie notti, a togliermi il sonno. Allora le visite si intensificarono. Ogni volta che potevo – e se mi riguardo indietro posso incolparmi dicendomi che non ho voluto potere abbastanza – ti venivo a trovare. E quando riuscivo ti portavo anche l’Irene, te lo ricordi nonno? Ed eri visibilmente felice perché, probabilmente, vedevi in noi qualcosa di grande. E allora tutto andava in secondo piano e si parlava di qualsiasi cosa. Si parlava del calcio, della politica che tanto ti faceva arrabbiare. Si parlava del lavoro, che per me era difficile, sottopagato e che non sembrava darmi sicurezze per il futuro. E parlavi come se domani potessi tornare a casa. Non “un domani”, proprio domani. Ogni giorno era come se potessi tornare quello successivo. Poi arrivò la notizia dell’inoperabilità del tumore al rene. Ricordo che non ci abbattemmo, lo ricordo distintamente. O meglio, nell’immediato una grande sensazione di impotenza colpì tutti ma se poi, riguardandomi indietro, soppeso i vari momenti di quel lungo calvario, allora posso dire con certezza che quei momenti furono quasi momenti di grande forza. I medici di Torrette di Ancona risero della sentenza di quelli di Fano: “Inoperabile? Ma stiamo scherzando!? Di questi interventi ne facciamo uno al giorno ed il tasso di riuscita è altissimo”. Non ricordo, no, questo no, se fui più arrabbiato con chi ti stava di fatto consigliando di fare testamento oppure felice per la notizia di una possibile risoluzione positiva di quella “via crucis”. Le sensazioni si mixavano in un cocktail dal sapore di schizofrenia. Ma che importava alla fine? L’operazione fu fissata, venni a trovarti, a salutarti dicendoti che ci saremmo senz’altro rivisti. E’ vivo il ricordo di quella notte, forse più insonne per me che non per te, e della mattina nella quale mi comunicarono che l’intervento non si sarebbe più potuto fare, che ti avrebbero riportato a Fano. Dopo un attimo di agitazione iniziale mi spiegarano che era arrivato in eliambulanza un caso di incidentato grave che necessitava della stessa equipe di chirurghi che era stata in precedenza assegnata a te. Fu come un macigno, questa volta più pesante per te che non per me. Allora presi subito la macchina e corsi a Fano. Ricordo, ancora una volta distintamente, che mi dissi che una infermiera a tuo giudizio alle prime armi, ti aveva “stagliuzzato” tutto nel tentativo di raderti completamente per prepararti all’operazione. Non riuscii a sorridere alla parola stagliuzzato; fu come se fossi andato in un’altra dimensione per poi tornare e doverti salutare di nuovo. Mi svegliai alle otto di mattina, in casa tua, in attesa del verdetto dell’operazione che mia madre confermava essere iniziata. Lo fece con un sms sterile. Ero già sveglio da qualche tempo quando il telefono squillo: “Stanno operando nonno”. Chiusi il telefono, presi il portatile ed aspettai in casa. Ricordo anche la musica che era solita accopagnarmi in quei giorni: “The Temple Of The King” dei “Rainbow” la spuntava sulle altre; una canzone malinconica dopotutto, ma che paradossalmente mi aiutava tanto a non pensare. Molte ore dopo, non ricordo se fossero le quattro o le cinque di pomeriggio ma non dovrei sbagliarmi di tanto, squillò il telefono. Sul display potevo leggere chiaramente il nome di mia madre e, tanto per non avere alibi, sullo sfondo apparve anche la sua foto. Ricordo che temporeggiai un attimo prima di far scorrere il dito sul vetro gelido dello smartphone. Inghiottendo un po’ di saliva risposi. Dall’altro capo riuscii a sentire mia madre con la voce stanca, spossata ma ferma. Mi disse che l’operazione era …. e si interruppe a singhiozzare. “L’operazione è … cosa? Mamma?” E fu come se tutto avesse preso a muoversi lentamente. Ma l’operazione era riuscita e mia madre stava “semplicemente” piangendo avendo visto passare nonno sulla barella, tutto intubato. Ricordo l’euforia del momento. Effimera speranza dal gusto di gomma americana alla fragola: dopo qualche minuto è anche peggio di quando l’hai assaporata. In questo caso non possiamo parlare di minuti, ovviamente. La riabilitazione fu lunga e dura. Però avevi ripreso a frequentare il bar, avevi ripreso a guidare e addirittura, dopo svariati mesi, anche a fare quello che possiamo definire lavoro. Che bello nonno, che bello essere riusciti a fregare la morte, che bello avere dell’altro tempo da spendere insieme, intensamente. Poi, una mattina, sentii lamentarti per i dolori alla schiena. E qualcuno tornò a chiederci il conto. I valori delle analisi tornarono ad essere sballati, la schiena e le ossa sempre più fragili, la chemio sempre più prepotente fintanto che non giungemmo a due, anzi tre, verità imprescindibili: la prima, forse la minore se tutto poi si fosse messo a posto, fu che non avresti più potuto fare quella terapia antitumorale perché le tue ossa si stavano cristallizando diventando molto deboli. La seconda, che il male s’era diffuso a livello di sangue ed ossa. La terza, ovvero che lasciata di nuovo casa tua, questa volta non saresti tornato. A proposito della prima, resta in me indelebile il ricordo che torna a tormentarmi la notte: tu eri sul terrazzo con il girello per aiutarti a camminare, avevi appena acquistato una di quelle “motorette” per le persone che non hanno grande mobilità, e stavi parlando con un fabbro per poter tagliare la ringhiera e creare uno scivolo che ti agevolasse la discesa in strada. Ricordo che non ti eri arreso e che spingevi affinché lo scivolo fosse pronto prima dell’inverno perché “dopo che senso avrebbe avuto? Avrebbe fatto troppo freddo”. Allora ritrovai un po’ di speranza anche io. Ma subito dovetti cedere all’orrore che mi causai io stesso quando, toccandoti sulla schiena con una piccola pacca di incoraggiamento, ti sentii urlare di dolore: non eri più tu, non era più il tuo corpo, forte, da muratore, che non si sarebbe mai arreso. Le ultime visite a Fossombrone furono le più terribili che ti abbia mai fatto. Una volta, mentre ero seduto in stanza con te e nonna, entrò un tuo amico di vecchia data con il cappello tra le mani ed un giubbotto di pelle nera dall’odore un po’ sgradevole. Ricordo che ti disse che sareste dovuti andare a ballare e disse – testuali ed indelebili parorele – “cosa è successo alla roccia?” e tu risposi “la roccia s’è spezzata”. Dovetti uscire, rifugiarmi vilmente nel bagno a versare tutte le lacrime che avevo in corpo. Rientrato ti salutai così, distrattamente, perché da vigliacco non volevo vedessi il mio essere, dopotutto, umano. Ma forse non volevo che tu soffrissi anche del mio dolore. Ricordo che mia madre mi disse “il nonno soffre di fame d’aria”. E la frase suscitò in me grandissima tenerezza. Non penso che esistano parole più brutte di “fame d’aria”. E mi disse di come facevi fatica a respirare e di come avessi bisogno di una macchina che ti aiutasse a farlo. Allora mi documentai affinché il mio ricordo di quel momento non potesse mai più essere rappresentato dalle parole “fame d’aria” quanto dal termine scientifico: disaspnea. Era Mercoledì ed io sarei venuto a trovarti di Venerdì. Giovedì mamma fece pressione affinché venissi ma, in fondo, volevo propiziare quel rito del Venerdì, quel rito che mi aiutava a demonizzare la morte. Ci vado domani, mamma, dai… Venerdì mattina, mentre stavo ancora combattendo con i miei demoni tu non c’eri già più. Mamma mi sveglio presto, scossi la testa, mi disse “E’ morto nonno”. Che strano, girai la testa dall’altra parte e caddi in un sonno profondo, profondissimo. Mi svegliai in tarda mattinata per chiamare in ufficio e per dire che non sarei stato al lavoro, poi inviai un sms all’Irene “Iri, E’ morto nonno”. Mi addormentai di nuovo. Dopo diversi mesi ti sognai. Ricordo il rimorso nell’aver rimandato il nostro incontro, nell’impossibilità di un ultimo saluto. Ricordo che tu mi dissi “Ognuno è in pace con sé stesso” e mi svegliai di soprassalto con gli occhi a bagnare il cuscino. A distanza di due anni, quando mi guardo allo specchio, non posso fare a meno di vedere i tuoi occhi grandi, sinceri, speranzosi, nei miei che in quel momento diventano appannati. Ed una lacrima gelida, scorrendomi sul viso, mi brucia la pelle. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 12/09/2014 23:14 Da Titivillus.
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Domani è un giorno come un altro.
"Domani è un giorno come un altro". Mi ero chiesto se anche quel giorno avrei sentito quella frase, come ogni giorno. Mi ero chiesto se anche questo domani fosse un giorno come un altro. A quanto pareva, sì. "Domani è un giorno come un altro". La particolarità di questo domani è che sarebbe stato l'ultimo. Dopo lunghi mesi in quella cella, mesi in cui aveva ripetuto senza sosta questo mantra, la sentenza era arrivata e con lei la condanna a morte. Ciononostante, a quanto pareva, per il Vecchio domani sarebbe stato un giorno come un altro. Lo chiamavamo il Vecchio nonostante avesse meno di cinquant'anni. Di lui sapevamo quello che c'era scritto nel suo fascicolo, ovvero ben poco: genitori russi, il nome e la ragione per cui era lì. Era pazzo, ma a quanto pare non abbastanza per salvarsi dalla pena capitale. "Domani è un giorno come un altro". Mi avvicinai alla cella. Era come sempre seduto nell'angolo più lontano dalla porta, le spalle curvate in avanti a cingere le ginocchia. "Senti una cosa, Vecchio. Come fai a dire che domani è un giorno come un altro?" Alzò la testa di scatto, rimanendo in silenzio. Poi corse vicino al cancello, si mise a sedere e mi fece cenno di imitarlo. "Domani... Domani è un giorno come un altro!". Ricordo che in quel periodo mi divertivo a iniziare discussioni strampalate con le persone che si trovavano lì in giro, specie con i matti. Perchè una cosa di cui si può essere certi è che a discutere con un matto non ci si annoia; così tirai fuori un argomento adatto a fare da esca. "Senti, l'altro giorno stavo pensando una cosa" iniziai. "A volte ho la sensazione che tutto ciò che mi circonda sia solo frutto della mia mente... Che io sia l'unico che realmente esiste, e che tutto il resto esista solo come mia immaginazione. Capisci cosa intendo?" "Sei al livello uno, bravo!" Rimasi incuriosito: avevo toccato un tema che lo interessava. Il suo viso era aperto nel sorriso sprezzante di chi si trovi all’improvviso e finalmente in una discussione che lo vede esperto. "Cosa vuol dire livello uno?" "Livello zero: mi bevo tutto quello che mi sta attorno come realtà". Si fermò, annuendo con forza; i suoi occhi scavati luccicavano nell'ammirarmi, per capire quanto la sua spiegazione mi avesse convinto. Ne rimasi un po' deluso. "Tutto qui? Non esiste un livello due?" "Oh, sì sì, esiste!" Fissò ancora i suoi occhietti su di me, per godere della mia curiosità. Ci volle un bel po' per convincerlo ad andare oltre. "Una volta ho fatto un sogno. Ero su un treno con tanti amici. Stavamo parlando. A un certo punto abbiamo parlato di quel posto, del posto dove ci trovavamo." Pausa: una mosca lo aveva distratto. "Io ero su un treno, lui su una nave, lui sul suo letto, lui sopra un albero. E ognuno cercava di mostrare agli altri i suoni e i rumori che lo provavano. Alla fine abbiamo capito: avevamo tutti ragione". Aveva fatto un discorso piuttosto lungo per i suoi standard, ma non capivo dove andasse a parare. I suoi occhi gialli, solitamente sfuggenti e spenti, si fissavano su di me con una frequenza maggiore del solito. "Se tu sei in una stanza con una persona, e lei dice che c'è una tigre proprio davanti a voi ma tu non la vedi, cosa rispondi?" "Beh, le dirò che non c'è nessuna tigre e che mi sta prendendo in giro o che è pazza". "Pazza! Attento a usare parole che non conosci" mi fece lui ammiccando. "Ma tu vuoi bene a questa persona, e leggi nei suoi occhi il terrore. Ora?" "Cercherò di tranquillizzarla e di spiegarle che non c'è nessuna tigre". "E lei cercherà di farti capire che c'è la tigre e di mostrartela. Vuoi sapere perchè nessuno dei due cede?" Tacque, come per fare crescere la suspence. "Perchè entrambi avete ragione. Come io e i miei amici". "Ma scusami, come possono essere vere due cose opposte? O la tigre c'è o non c'è!" "Hai studiato troppa matematica! Nel caso mio e dei miei amici la cosa importante non era dove eravamo, ma era che fossimo insieme. Nel caso della tigre la cosa importante non era se ci fosse o no, ma che l'altro la vedesse”. Pausa. “E la risposta giusta era <Non vedo la tigre qui, ma posso vederla riflessa nei tuoi occhi, nella tua paura!>". Altra pausa. "Dare del pazzo a qualcuno, sostenere che ciò che sai tu è giusto e ciò che vede lui sbagliato può portarti alla gran brutta consapevolezza..." Si interruppe e mi si fece vicino, sussurrandomi ora all'orecchio "... che quello pazzo sei in realtà tu!" Sarà stato il fatto che quel posto era buio, sarà il fatto che dalle celle venivano rumori sinistri e persino l'aria aveva una consistenza strana nei polmoni, o non so che altro; so solo che mi alzai in piedi e iniziai ad andarmene affettando la più totale indifferenza, ma allungando il passo un po' alla volta e mettendomi poi proprio a correre, con la sensazione di essere inseguito dalle parole di quel folle. Quella notte fu la peggiore della mia vita. E non penso nemmeno ci fosse una ragione particolare per la quale un dialogo tanto strampalato mi avesse colpito in quel modo. In qualche modo ad urtarmi era stato il fatto che era stato un dialogo. Non uno sproloquio, non un suo discorso senza capo né coda; e per poter dialogare con una persona è necessaria una certa vicinanza tra le menti. Quel pazzo si era complimentato per una mia riflessione e l'aveva approfondita. Man mano che parlavamo avevo fatto sempre meno caso ai suoi tic, alla sua incapacità di rimanere focalizzato su qualcosa, ai suoi periodi sconnessi. Erano diventati meno importanti. Mi alzai più volte, per andare a prendermi un bicchier d'acqua o per andare in bagno. Il buio faceva più paura del solito, a farci caso; sobbalzai per due indumenti che stesi ad asciugare appesi a un rubinetto sembravano una bambina, e poi per la sedia a cui avevo appoggiato il cappotto. Realizzai come avessi la tendenza a verificare troppe volte se il gas era spento, la porta chiusa. Realizzai anche come avessi la tendenza a parlare tra me e me a mezza voce, come mi chiedessi consigli per darmi suggerimenti. Presi coscienza di come non ci fosse una sola persona al mondo che conoscessi, men che meno me stesso. E alla fine, all'improvviso, in un istante poderoso e brutale, venni schiacciato dall'infinita complessità della vita, dalle sue leggi scritte e implicite, le ragnatele di conoscenze e di affetti. Mi osservai, come in terza persona. Vidi quanto avessi fatto un lavoro incredibile fino a quel momento nel districarmi tra quella inimmaginabile mole di problemi. Realizzai che la mia vita, che avevo appena finito di smontare pezzo per pezzo nell’inconscio tentativo di analizzarla, era troppo articolata per poterla rimontare. Il giorno dopo l'esecuzione era fissata alle dieci di mattina. Avevo deciso di non andarci, di non vedere più quell'individuo, ma c'era qualcosa che dovevo sapere. Alle nove e mezza ero davanti alla sua cella. Lui aveva gli occhi persi nel vuoto. "Ehi... EHI! Vieni qui!" Si riscosse e mi si avvicinò. "Dimmi un po', pazzo. Cosa c'è dopo il livello due?" Lui mi guardò con ammirazione, come sorpreso da me. "Oh, c'è il livello tre!". Anche qui dovetti insistere non poco per farlo parlare, e la sua riposta fu anche meno chiara di prima. "Il livello tre è quello dove vita e morte si mischiano, la loro distinzione è superflua. È una cosa che la gente chiama pazzia, credo. In pratica… In pratica succede qualcosa per cui realizzi come l'unica cosa importante è il preciso momento in cui stai vivendo, senza che ciò che viene prima o dopo abbia senso." La sua voce era contratta e grave, mentre per spiegarsi meglio gesticolava convulsamente, in un modo che aveva del grottesco. "Impari a vivere solo nell'esatto istante in cui ti trovi; il tuo cervello saetta a destra e a sinistra" e mimò il cervello che saettava. "Così non stai mai mangiando, ma vivi separatamente ogni istante del tragitto dal piatto alla bocca. Non dormi mai né sei mai sveglio, tranne nell'istante in cui ti poni la domanda e ti dai una risposta per quell'istante. Ti capita di morire e di vivere più volte, fino al punto in cui non senti più l'esigenza di chiederti se sei vivo o morto, fino al punto in cui vita e morte sono solo due nomi diversi per due cose uguali". Fece una pausa; poi aggiunse più piano, come se stesse parlando con sé stesso: "È per questo che do-" "Domani è un giorno come un altro". L'avevo interrotto. Fissò gli occhi su di me, fu come se ci guardassimo per la prima volta. E dai suoi occhi era sparita ogni traccia della follia, ora mi guardava compiaciuto di sé -o forse di me. |
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Oggi
C’è chi è di tendenza, segue le mode, si adegua al flusso e lo fa sicuramente con un fine preciso o, alla peggio, per un naturale senso di insicurezza. C’è chi è in controtendenza invece, detesta le mode, il flusso lo affronta controcorrente e lo fa sicuramente con un fine preciso e, talvolta, per una naturale predisposizione all’opposizione del tutto. E poi c’è chi è contro-controtendenza e chi è contro-contro-controtendenza. Questi, pur viaggiando su flussi opposti, ignorano le mode e si ritrovano in uno dei due canali ma per precisa scelta personale. E anche se pensate che si possa cambiare direzione da un momento all’altro, beh, vi assicuro che non è così. Non pensate alle cose effimere. Quando parlo di “mode” non intendo certo solo il colore del vestito piuttosto che l’automobile del momento. Intendo il senso più generale del decidere come vivere la propria vita. Se rispettare o meno le regole, se rispettare o meno le gerarchie, se rispettare o meno i contratti, i patti, le promesse, ecc… Ecco, tutte le scelte che fate dipendono da che flusso decidete di prendere. Lungi da me giudicare ovviamente. Per come la vedo io, che sono attualmente un contro-controtendente, non esistono scelte migliori e peggiori. Il contro-controtendente non è altro che una persona che la società definirebbe “normale”. Ovvero ho un lavoro, ho una moglie, non ho attualmente figli e non mi vedrete mai fare cose stravaganti tipo tingermi i capelli di viola piuttosto che lanciarmi con una corda giù da un ponte. Ed a questo punto, come dicevo all’inizio, ci sono arrivato per precisa scelta. Sono nato tendente ma in piena adolescenza, quando non potevo permettermi il motorino e tutto ciò che circonda un sedicenne, sono diventato controtendente perché era più facile avercela con il mondo e fare la vita dell'alternativo sfigato. Tanto quello ero per la società, in quel momento. Poi, con l'aumentare dell'autostima, con l'arrivo degli studi importanti, dei primi lavori e della prima autonomia, sono ritornato dall'altra parte ma nei panni del contro-controtendente. Mi sono adattato al mondo pur non perdendo, nel mio interiore, il reflusso per un mondo d'apparenze che non ho mai digerito nel migliore dei modi. Fino ad oggi. Perché cinque giorni fa ho deciso. Domani sarà il mio ultimo giorno di lavoro (ho fatto i conti e dato il preavviso tempo fa) faccio l’ultimo prelievo sul mio conto personale di ciò che è rimasto e che non ho già accantonato in questi mesi e, non so ancora se mi spenderò tutto al gioco, in un bordello o in alcool. Forse farò un po’ in tutti e tre. Ovviamente non farò tutto domani. Il programma delle prossime 24 ore è studiato nei minimi dettagli e culminerà con il mio ultimo giorno di lavoro. Il volo l’ho già prenotato da qualche settimana. Per ora non andrò troppo lontano, mi dirigerò in Germania. E non farò certo una fuga imprevista. Con mia moglie Giulia ho trovato una scusa. Le ho detto che vado in Germania per una settimana per lavoro. Un incarico presso un fornitore, bla, bla, bla. Non s’è neanche preoccupata più di tanto abituata com’è a ritrovarsi da sola in casa almeno una settimana al mese. Quando comincerà a preoccuparsi mi auguro d’aver già bruciato tutto e, nel mentre, d’essermi allontanato quanto più possibile per non essere rintracciato. Ecco, il programma finisce qui. Mi sono prefissato di organizzare quanto meglio possibile la fuga, senza destare troppe preoccupazioni e, soprattutto, far sì che nessuno tenti di contattarmi nei primi giorni successivi alla stessa. Ma non il dopo. Il domani ho deciso di viverlo da contro-contro-controtendente. E vaffanculo a tutto e tutti. Domani La festicciola a sorpresa per il mio ultimo giorno non me la sarei davvero aspettata. Nonostante quelle lunghe giornate silenziose passate in quel fottutissimo open-space, forse, a qualcuno dei miei colleghi stavo simpatico davvero. O forse, ed è molto più probabile, ogni cazzo di scusa era e sarà buona per lavorare anche solo un minuto in meno. Poco importa. Il mio viso rilassato s’è goduto la bottiglia di spumante e le innumerevoli pacche sulle spalle: «Vedrai che ti troverai meglio!» «Beato te» Ecc… A tutti ho risposto con un «ne sono più che sicuro» e con un bel sorriso stampato in faccia come da foto della Prima Comunione. Finita l’ultima mezza giornata di lavoro di sempre in quell’azienda ed aggiunti gli ultimi mille euro contanti a quanto già in possesso mi sono diretto verso l’aeroporto di Treviso con largo anticipo. Perdere proprio l’aereo della vita, no, direi che non era il caso. Arrivato in terra teutonica, mi sono fatto scaricare dal taxi al mio solito hotel, quello dove alloggio normalmente durante le mie trasferte di lavoro tedesche. Ho cominciato a riempire la vasca da bagno e mi sono lavato, specchiandomi nel soffitto fatto di listarelle dorate a specchio. Sarebbe stato il mio ultimo bagno da persona civile pensai mentre le palpebre cominciavano ad offuscare la luce. Quando mi risvegliai erano già le prime ore del mattino. Avevo dormito per parecchie ore nella vasca e solo la temperatura ormai gelida dell'acqua mi aveva fatto risvegliare. Una buona colazione internazionale era proprio quello che ci voleva. Salmone, poi wurstel e per finire una bella fetta d'anguria. Il tutto accompagnato da un bel boccale di birra. Roba da storpiarsi le budella per il resto della giornata ma chi se ne importava. Conoscevo piuttosto bene questa porzione di terra tedesca. Ma, soprattutto, conoscevo ancora meglio tutta quella serie di locali meta di parecchi turisti in cerca di ore ed ore di compagnia. Ma non mi andava di buttarmi così, di primo mattino. Scivolai lungo l'argine del fiume e cominciai a passeggiare osservando di tanto in tanto cosa ci fosse sotto le trasparenze dell'acqua che scorreva. Poi, giunto nel centro, cominciai a leggere un po' di annunci di un'agenzia di viaggi. Mi colpì particolarmente un viaggio nella città di Cayenne, nella Guyana Francese. Fino a quel momento, sono onesto, ignoravo addirittura l'esistenza di una porzione di stato francese in terra sudamericana. La cifra rientrava tranquillamente nel mio budget ed ero più che sicuro che dopo la prima settimana avrei trovato anche una sistemazione tale per cui campare abbastanza a lungo prima di finire a fare il barbone chissà dove e chissà perché. Avrei fatto il camallo in porto per un tozzo di pane piuttosto ma indietro non ci sarei più tornato. La signorina dell'agenzia rimase piuttosto perplessa dalla mia decisione. Non era certo una meta usuale ed io non ero certo un cliente conosciuto. Poco importava però. Quando estrassi i contanti il suo viso mutò e si affrettò a preparare le pratiche. Entro tre giorni sarebbe stato tutto pronto e sarei potuto partire già in settimana. Non sognavo altro. I tre giorni letteralmente volarono. Feci varie tappe, parlai più volte con Giulia al telefono fingendomi impegnato tra una cena e l'altra e telefonai anche a casa per sapere come andava. Quando ritirai i biglietti e l'itinerario del viaggio organizzato un brivido mi percorse l'intero sistema nervoso. Ero pronto, finalmente, a cambiare vita. Decisi pertanto di festeggiare come si deve, in un bel bordello a fare e farmi fare le cose più erotiche potesse partorire la mente. I fondi per questa notte di goliardia li avevo messi da parte al di fuori del mio viaggio ed ero pronto a spendere fino all'ultimo centesimo di questo tesoretto pur di soddisfare la più segreta delle mie voglie. Quando scelsi la bionda e la mora che mi accompagnarono in stanza mi sentivo come il padrone della villa di Playboy. Per quanto visibilmente artificiosi, furono comunque momenti intensi. Certo, le due stangone erano chiaramente più interessate alla parcella che non al mio momento idilliaco ma poco importava. Non facemmo a tempo a scendere le scale che si sentì un rumore devastante, come se fosse esplose una bomba. Ed un qualcosa di simile stava effettivamente accadendo. Nella concitazione tentai di nascondermi dietro ad un tavolo ma la banda che stava assaltando quella casa non impiegò più di cinque secondi per trovarmi e farmi mettere in fila assieme agli altri ostaggi. Non capivo cosa dicevano ma era sicuramente una parlata dell'est, probabilmente slava. Quando poi cominciarono a prendere a pugni colui che doveva essere il padrone, il quadro cominciò a chiarirsi. Doveva essere la rivendicazione di qualche altra casa del piacere che non aveva digerito alcuni atteggiamenti di questo proprietario. Insomma, in Italia si chiama mafia, in Germania invece è un normale e violento scambio di idee reciproche. Peccato che la situazione degenerò. Una delle guardie del padrone, ben mimetizzato, sbucò ed esplose un paio di colpi che ferirono uno della banda. Senza battere ciglio questi però risposerò al fuoco e solo per un miracolo nessuno di noi nel mezzo rimase ferito. Poi, senza tanta gentilezza, crivellarono il padrone e le sue guardie. Infine vennero da noi clienti. Gli occhi cerulei tra le fessure del passamontagna non lasciarono spazio a molti dubbi. La decisione di quell'assassino era la stessa del sottoscritto quando aveva comprato quel biglietto. Vidi, in quell'istante, tutte le tappe della mia vita. Feci giusto in tempo ad interrogarmi tra me e me "chissà cosa diranno di me, domani, in quel cesso d'Italia quando mi ritroveranno qui, in un bordello, con un biglietto per la Guyana francese" Poi esplose il colpo e fu immediatamente buio. |
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FC-43
Claudio arrivò al lavoro e, come ogni mattina, controllò la sua mail. Delle cinque e-mail da leggere, lo colpì subito quella mandata dal laboratorio di analisi di Pisa; la aspettava ormai da ben due settimane. La aprì e lesse attentamente il contenuto. Poi si alzò, uscì dalla stanza e si diresse verso l’ufficio del Professore, mantenendo il suo solito passo svelto e deciso, ma non tradendo la minima emozione. Bussò e attese con pazienza l’ “avanti” del Professor Russo, suo capo da quasi venti anni. “Buongiorno Claudio, entra pure.” “Buongiorno Professore, mi scusi per il disturbo, volevo comunicarle che ho appena ricevuto la risposta dei test in vivo da Pisa.” “Bene, finalmente, ci hanno fatto aspettare un sacco. Come sono andati?” “Meglio del previsto: la molecola FC-43 è risultata più attiva di tutte le sue progenitrici, siamo sull’ordine sub-nanomolare. Mi sa che possiamo acquistare il brevetto, per poi proporre la molecola per i test clinici sull’uomo.” “Incredibile, Claudio, sul glioblastoma non è mai stato trovato niente di così attivo…ma come fai ad essere sempre così tranquillo? Dobbiamo festeggiare, questo è il risultato che abbiamo aspettato per anni! E questa è la tua molecola, l’hai progettata tu, porta come sigla le tue iniziali. Vai subito dai ragazzi a dirgli che stasera ce ne andiamo tutti a cena fuori. E pago io!” Claudio uscì dall’ufficio e si diresse con calma nell’ala dei laboratori. Appena entrò nel Lab-1 notò Freddy sobbalzare sulla sedia e chiudere velocemente una pagina internet sul computer, mentre Andrea nascose un giornalino di qualche tipo sotto un libro di chimica lì vicino. Decise di evitare scenate in quel giorno alla fine così speciale per tutti, ma prese l’appunto mentale di chiamare il tecnico dei computer per far mettere un blocco di connessione a siti come Facebook o giochi vari. “Buongiorno, hanno risposto da Pisa: FC-43 è attiva a livello sub-nanomolare.” Freddy non riuscì a trattenere un urlo di stupore, Andrea si mise a fischiare. I due dottorandi di ricerca si ricomposero però quasi subito, alla vista del loro capo assegnista di ricerca, in silenzio e austero di fronte a loro. “Sinceramente non comprendo cosa abbiate da festeggiare, dato che la molecola potrebbe risultare tossica in fase clinica, come succede a molti composti. Il Professor Russo però sembra essere d’accordo con voi, visto che ci ha invitato tutti a cena fuori stasera. Ne approfitto per rammentarvi di comportarvi: non eccedete con l’alcool o con atteggiamenti sconsiderati; ricordatevi sempre che siete a cena con un luminare della chimica.” “Sì, certo signore, lo ricorderemo…scusi, ho una domanda: a questo punto possiamo rinviare a domani il primo step della sintesi delle nuove molecole? Mi spiego: la cena potrebbe essere il momento migliore per discutere del futuro del nostro progetto di dottorato con il Professor Russo. Magari oggi ci facciamo venire qualche nuova idea e stasera la proponiamo al Professore; preso dalla felicità potrebbe prolungarci i finanziamenti.” Andrea si voltò verso Freddy con gli occhi spalancati, stupito dall’audacia di quelle parole. Pensò che forse Freddy stava sperando che anche quell’omone serio ed inflessibile che avevano davanti fosse preso da una qualche euforia. Claudio si aggiustò gli occhiali sul naso (l’unico tic che ancora non era riuscito a sconfiggere) e fissò Freddy per una decina di secondi, facendolo arrivare a sudare freddo. Poi parlò, mantenendo il solito tono di voce basso ma duro: “Lei oggi svolgerà il suo compito come indica la tabella di marcia che, come lei sicuramente si ricorda, abbiamo deciso tutti insieme il primo di questo mese. So di averle ripetuto spesso l’aforisma di Benjamin Franklin con il quale il Professor Russo ha costruito il suo successo, ma evidentemente ha bisogno di risentirlo: “non rimandare a domani quello che potresti fare oggi”. Quindi oggi farete il primo step di reazione e nel tardo pomeriggio mi porterete i risultati dell’NMR e della spettrometria di massa in cui posso vedere gli intermedi che avrete sintetizzato. Ci vediamo a pranzo, arrivederci.” Qualche giorno dopo, uscendo dall’ospedale, Claudio si rese conto di provare un turbinio di emozioni, come non gli succedeva da tanti anni. Si fermò davanti alla portiera della macchina, ma non l’aprì. Gli tornò in mente quel giorno di un mese prima, quando aveva letto la mail del laboratorio di Pisa. Strinse il foglio che aveva fra le mani, con una rabbia per lui impensata; poi lo distese sul tetto della macchina e rilesse quella frase, sperando di essersi sbagliato. GBM in zona occipitale destra di circa 7 cm. Poche parole, ma così pesanti e definitive. La tac aveva evidenziato che quel terribile mal di testa non era dovuto solo ad un po’ di stanchezza, ma ad un glioblastoma. Il dottore gli aveva dato sei mesi di vita. Salì in macchina, accese il motore ed iniziò il viaggio di ritorno. Quando giunse nel vialetto di casa aveva già deciso cosa fare; la sua mente incredibilmente logica e analitica non poteva che arrivare a quella conclusione. Freddy e Andrea, accompagnati dal Professor Russo, si decisero infine a buttare giù la porta, sarebbe stato più veloce che aspettare l’arrivo dei vigili del fuoco. La telefonata di Claudio che avevano ricevuto in laboratorio qualche minuto prima, con solo un “addio” sussurrato flebilmente, li aveva indotti a catapultarsi velocemente a cercarlo a casa; oltretutto dopo che Claudio era mancato dal lavoro da qualche giorno, cosa per lui alquanto insolita. Claudio era disteso sul letto, volto giallo e labbra viola. Sul suo petto le mani incrociate erano appoggiate su un foglio. Freddy lo prese e lesse le poche righe ad alta voce: “Una settimana fa mi è stato diagnosticato un glioblastoma terminale e mi hanno dato sei mesi di vita. Ho pertanto deciso di assumere FC-43, ad una dose decisa sulla base delle mie conoscenze, sviluppate in tanti anni di ricerca. Purtroppo ho fallito. La dose era troppo alta e il composto ha manifestato un violento effetto collaterale, distruggendo le mie cellule epatiche e provocandomi un’insufficienza epatica fulminante. Ho resistito qualche giorno in ospedale, ma quando ho capito che non avrei superato la crisi sono scappato e sono tornato qui, a casa, dove ho potuto prendere una dose letale di barbiturici, così da andarmene subito. Non aveva senso soffrire qualche altra ora. Del resto, come ben sapete, è sempre meglio non rimandare a domani quello che potresti fare oggi.” |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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