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"Ecco da cosa si vede il buon commerciante. Ti fa comprare quello che lui vuol vendere."
Ulisse, James Joyce “Gli farò un’offerta che non potrà rifiutare.” Don Vito Corleone, Il Padrino Il venditore è il tema della nona ed ultima tornata di UniVersi, c'è tempo fino al 30 novembre compreso per postare il proprio racconto in gara. REGOLE - Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 12000 (spazi compresi, titolo escluso). Potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito; utilizzate Firefox dato che con altri browser il conteggio non risulterà esatto. - I racconti devono avere un proprio titolo e devono essere postati in forma anonima, effettuando il login con nome utente Titivillus e password universi. - Qui potete trovare il regolamento completo. RACCONTI IN GARA - Il venditore - Il compratore (11864); - Vincenzo 3.0 (11111); - Sweet Dreams (8132); - Scatoline (9279); - Bob (8291); |
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Ehi dol! Bel dol! Suona un dong dillo! Suona un dong! Salta ancor! Salice bal billo! Tom Bom, bel Tom, Tom Bombadillo!
Ultima modifica: 02/12/2014 22:35 Da gensi.
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Il venditore
Nel preciso istante in cui misi il punto, nello stesso preciso istante in cui ebbi finito di scrivere il racconto, una sensazione di sconforto iniziò a prendersi possesso di me. Erano circa le quattro del mattino di una di quelle notti invernali dove la luce di fuori era ancora ben lontana dal rischiarare l’appiccicoso cielo nero che avvolgeva l’intera città, proprio come avrebbe fatto un prestigiatore con il proprio trucco davanti ad un pubblico ignaro di quello che si sarebbe trovato innanzi. Spingendo con entrambi i palmi sulla scrivania scostai la sedia facendola grattare sul pavimento sottostante: l’inquilino del piano di sotto avrebbe sicuramente avuto da ridire il mattino seguente. Quando fui in piedi ci impiegai poco a raggiungere la finestra. Una volta lì scostai la tendina e mi fermai a guardare il mondo dormiente, riportato nel micro agglomerato urbano della mia città. Per un attimo immaginai che in tutto l’emisfero dove in quel momento era buio la realtà si sarebbe presentata ad un ipotetico scrutatore nascosto tra le mura calde della propria casa, dalla propria stanza, proprio come lo ero io, nella stessa identica forma e negli stessi identici suoni che plasmavano la realtà al di là di quel vetro. L’oggetto della mia attenzione in quel momento fu una lontana fabbrica di laterizi che svettava tra gli altri palazzi. Il comignolo, punto più alto della struttura, produceva svogliato ma regolare qualche cerchio di fumo. Mano a mano che i pensieri si accumulavano iniziai a capire di non avere un particolare motivo per stare a quella finestra, per spiare il mondo. Gli occhi si spostarono mentre abbassai la testa iniziando a mettere a fuoco qualche gocciolina di condensa che s’era attaccata al vetro, rendendo la strada di sotto e tutte le macchina parcheggiate un vero e proprio collage sfocato. Mi accesi una sigaretta imitando il comignolo della fabbrica, piccole nuvole regolari di tabacco, sospiri, il tutto inseguendo non so bene cosa al di fuori di quel rettangolo vetrato. Non appena ebbi esalato l’ultimo tiro dalle mie dita feci il percorso inverso. Tornato alla scrivania prestai attenzione nello spostare la sedia senza che questa gracchiasse per la seconda volta. Una volta seduto sollevai il monitor del laptop che si ravvivò in una esplosione di colori illuminandomi il volto di una luce simil-alogena. In pochi click aprii il documento che tanto mi stava tormentando, selezionai una pagina a caso nella metà centrale del racconto ed aggrottai le sopracciglia iniziando a leggere. “Mia si stese sul letto lasciando che le pesanti membra ancora coperte dai vestiti gravassero sul materasso. Chiuse per un momento gli occhi abbandonandosi al buio e al silenzio che sognava da ore. Iniziò a pensare. A nulla in particolare. Il silenzio si ruppe qualche istante dopo quando una notifica di whatsapp le fece aprire l’occhio sinistro, quello dalla parte della testa non appoggiata sul cuscino. «Lo leggerò dopo» pensò. Nel buio del bulbo, ora che l’occhio s’era chiuso nuovamente, rimase però accesa una traccia luminosa che morì di lì a poco. Fu un attimo: un pensiero le attraversò la testa facendola sollevare dal materasso, elettrizzata. I lunghi capelli la seguirono in una danza profumata, leggiadra. Dovette scostare una ciocca dalla faccia per liberarsi il campo visivo. Dopo qualche attimo di indugio che mal si sposava con il precedente stato d'animo, scattò in posizione semieretta e si avviò definitivamente verso la finestra che dava su di un palazzo lontano circa un centinaio di metri. In mezzo, un cortiletto di cemento s’alternava a qualche spazio verde dove sorgevano alcuni alberi.” Staccai gli occhi dal monitor. Dapprima osservando il muro davanti a me, poi ruotando il capo di quarantacinque gradi verso destra guardai la finestra alla quale ero affacciato poco prima. Tornai a leggere deglutendo piano. “Mia concentrò la propria attenzione su di una finestra illuminata nel palazzo di fronte. Era l’unica anche questa volta. Scrivo “anche questa volta” perché tornando a casa, di sera, Mia usava osservare quello squarcio di luce nel buio del nulla indefinito. Non si limitava però ad osservare, faceva di più, qualcosa di audace: Mia immaginava la vita degli altri, di quelle persone che abitavano dall’altra parte. Una notte immaginò che l’abitante della casa della luce – l’aveva così ribattezzata – fosse un dottore costretto a dormire tutte le notti con la luce accesa, «per via della reperibilità, sì, dev’essere senz’altro questo» pensò ridacchiando. Un’altra volta invece immaginò uno scrittore, un imbrattacarte, un cantastorie. Le notti d’inverno passavano e Mia iniziava a trovare quel gioco un po’ stucchevole. Aveva voglia di uscire, di conoscere chi ci fosse realmente dall’altra parte. «Chissà se anche lui guardando nella mia direzione ha fatto gli stessi pensieri» si ritrovò sorpresa a domandarsi.” Ridussi ad icona il racconto che stavo rileggendo ed aprii una mail, quella del mio committente. Non era la prima volta che vendevo un breve scritto ad un’altra persona. I miei clienti erano composti per lo più da persone che volevano sorprendere qualcuno beandosi di un’abilità che non avevano e non avrebbero mai avuto: quella di poter dipingere un’idea, cambiarne i colori, comporre pezzi musicali con delle variazioni di nota da far rabbrividire Thelonious Monk, poi trasportare il tutto su pezzo di carta o un file virtuale. Rilessi brevemente: “Salve, lei non mi conosce ed io non la conosco. La sua fama, però, la precede. Ho bisogno che lei scriva per me un racconto, ne ho urgente bisogno. Vorrei che il racconto non superasse i dodicimila caratteri. Il compenso sarà adeguato. L’unica cosa che le chiedo è che la storia racconti di una ragazza di nome Mia e del suo omicidio. Non c’è altro. La data di consegna è tassativamente fissata per il 30 Novembre. Mi faccia sapere. Cordialmente.” In un primo istante mi ero detto «Lo faccio» ed avevo risposto affermativamente. Ora però la coscienza mi stava suggerendo di non inviare quel racconto. Perché? Tornai a leggere fissando l’angolo in basso a destra dello schermo del pc: Domenica 29 Novembre, cinque del mattino. Non c’era più tempo. “Mia attraversò il cortile di cemento sottostante e si voltò con il naso all’insù ad osservare la finestra della propria stanza. Aveva lasciato la luce appositamente accesa in modo da poterla mostrare alla persona o alle persone della “casa della luce” nel momento in cui avrebbe raccontato la storia. Si sentiva stranamente elettrizzata ed il cuore le batteva a ritmo sincopato. Accelerò dunque il passo facendo risuonare nella tromba del cortile un rumore sordo prodotto dal contatto dei piccoli tacchi degli stivaletti neri con il cemento. Aveva contato dal basso il numero dei piani che separavano la “casa della luce” dal terreno sottostante: quattro. Arrivata davanti ai campanelli del condominio, tentando di spegnere l’incendio che le si era formato nei polmoni, iniziò a cercare quelli del quarto piano; poté farlo grazie all’aiuto di alcune targhe color dell’oro recanti la scritta del piano al quale gli appartamenti collegati a quei precisi campanelli erano situati. Si era preparata anche una scusa. Non indugiò oltre e suonò ad uno dei tre. Non si udì altro rumore se non quello del vento che le faceva svolazzare i capelli fin dentro la bocca leggermente aperta nel tentativo di stabilizzare il respiro reso affannoso non più dalla corsa quanto dall’eccitazione. Suonò di nuovo ottenendo lo stesso verdetto: nessuno in casa. Si torse le mani mordicchiando nervosamente un mix di capelli e labbra. Poi si risollevò pensando che in fondo il margine d’errore s’era appena ridotto del trentatré percento. Suonò dunque al secondo e dopo qualche attimo una voce maschile le rispose. «Pizza» balbettò lei. «Ma io non ho ordinato alcuna pizza». «Mi apra la prego, probabilmente ho sbagliato campanello.» Il click del portone fu come una miccia per il cuore sopito.” Guardai nuovamente l’orologio: era tardi e sapevo che il mio committente avrebbe voluto il racconto nella sua casella mail entro le otto della mattina. Lo sapevo perché avemmo altri scambi dopo quella prima mail. Decisi di saltare e leggere il finale, giusto per capire se potessi intervenire in qualche modo. “Mia tornò nell’appartamento di quell’uomo che ormai frequentava da qualche tempo. Arrivò al campanello e suonò a colpo sicuro: non aveva più bisogno di orientarsi con lo sguardo, tanto conosceva quella fila di pulsanti dorati. Aspettò qualche secondo e premette nuovamente, in maniera prolungata. Nulla. Frugò dunque nella borsa estraendo il cellulare, sbloccò il display e compose il numero di Pablo. Il telefono squillò un paio di volte e poi rispose una voce femminile. Mia balbettò qualcosa, non sappiamo bene cosa, poco prima di udire la donna rivolgersi ad una persona, probabilmente Pablo, in maniera seccata. «Pablo, è ancora questa? Ma non le hai ancora detto la verità?» Sul momento Mia non capì cosa stesse succedendo. «No, non ho avuto il coraggio» rispose l’uomo. La chiamata si chiuse. Proprio in quel momento ricollegò la luce stranamente spenta nell’appartamento di fronte, la voce di donna, la frase pronunciata e tutto il resto. Amava Pablo ma Pablo aveva un’altra. Povera Mia, il cuore sembrò aprirsi, la luce della “casa della luce” da quel momento in poi l’avrebbe fatta piombare nelle tenebre più scure, profonde. Corse disperata verso casa, gli occhi gonfi di lacrime, il singhiozzo le toglieva il fiato ripetutamente. A casa non ci arrivò mai. Dietro l’angolo un malvivente provò a rapinarla ma lei dentro quella borsa non aveva altro che un cellulare. Il ladro lo prese con la forza ma evidentemente non bastava a soddisfarlo; scattò su tutte le furie. L’accoltellò ripetutamente. Mia sentì il suo stesso cellulare squillare in tasca al malvivente. «Forse è Pablo, forse c’è ancora possibilità» pensò mentre la vita le sgorgava fuori dal ventre, bagnando il selciato di un viscoso rosso amaranto. La carne divenne burro, le vene si allargarono collassando le une sulle altre mentre il viso del malfattore veniva colpito dagli ultimi schizzi di sangue prodotti dall’ennesima coltellata, quella che spense la luce negli occhi di Mia, definitivamente.” Provai molta empatia per Mia. Lei amava Pablo ma io credetti per qualche istante di amare lei. Poi pensai che fosse tutto paradossale. Poi nuovamente di amarla. Avrei voluto cambiare il finale ma avrei dovuto venire meno alla consegna. Allora pensai di modificare completamente la storia, di non consegnare mai quelle pagine al mio committente in modo da poter rendere giustizia alla donna. Decisi istantaneamente di eliminare dalla storia quel maledetto di Pablo e di rendere la sua finestra la mia finestra. Di fare diventare il suo campanello il mio campanello. Di accoglierla nella “casa della luce”, la mia casa. Sognai di fare l’amore con Mia, di farle vivere la vita felice che si sarebbe meritata e che forse avrei voluto anche io per entrambi. Dopo tutta questa serie di pensieri dovetti tornare a fare i conti con la realtà: i soldi mi servivano, non ne avevo più tanti ed i committenti scarseggiavano. In un attimo mi trovai a passare da una tipologia di venditore all’altra, senza scrupoli, senza lacrime. Vendetti il mio amore, la mia umanità, la mia empatia: inviai il racconto a chi me lo aveva commissionato condannando Mia a morte certa. Perdonami Mia. Il compratore Finalmente arrivò la mail. La aprii e lessi il racconto. Era ciò che avevo in mente. Digitai sul computer l’indirizzo del sito di concorsi letterari ai quali partecipavo e sul quale non avevo mai scritto un racconto che fosse frutto del mio lavoro. Iniziai a copiare pedissequamente dalla mail: “Il venditore Nel preciso istante in cui misi il punto, nello stesso preciso istante in cui ebbi finito di scrivere il racconto […]” |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 27/11/2014 00:59 Da Titivillus.
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Vincenzo 3.0
Vincenzo è un figlio della strada. Pur provenendo da una famiglia contadina abbastanza benestante, la sua incontrollabile voglia di libertà lo aveva portato alla ricerca dell’indipendenza sin da subito. Tant’è che già a vent’anni, il giogo del padre, era divenuto così stretto e serrato che aveva deciso di mettersi alla prova non appena raggiunta la maggiore età. Ma Vincenzo è anche una persona decisamente razionale e mai si sarebbe buttato in un’avventura incognita senza ponderare con una certa dose di maestria gli eventuali rischi ed effetti collaterali. Aveva deciso di diventare agente di commercio solo a giochi fatti ovvero solo dopo aver ottenuto già un accordo di massima con una società anche grazie alla sua rete di conoscenze locali. Conoscenze frutto della passione amatoriale per quello sport che lo aveva portato a competere fino a livello nazionale. E per lui, a quell’età, riuscire a coniugare quella passione con il nuovo lavoro e con la prospettiva di liberarsi da ogni legame parentale era, per davvero, l’inizio di un piccolo successo. Le capacità principali dell’agente di commercio non sono mai mancate a Vincenzo. Oltre alla curiosità, al senso pratico ed alla razionalità marcata era in possesso di una parlantina brillante e mai snervante. I suoi erano sempre discorsi strutturati e non squallidi copioni recitati a tavolino. Prima di gettarsi in patetiche sceneggiate cercava di comprendere per quanto possibile cosa vendesse e perché lo vendesse. Tutto questo lo aveva reso non solo competente già a prima vista ma anche decisamente affidabile e sicuro di se. Se proprio dovessi riscontrare un difetto è che, questo suo eccesso di zelo, finiva inevitabilmente per essere riversato anche su tutti coloro che lo aiutavano e collaboravano con lui. Questa sua curiosità, a volte al limite del maniacale, finiva per sovraccaricare di pressione anche chi lo circondava, come il sottoscritto, con la necessità di eccellere agli occhi dei suoi clienti e per i quali bisognava sempre avere la risposta pronta o l’argomento adatto. Insomma, per un novizio dell’ufficio, Vincenzo era il vero e proprio banco di prova. Se stavi bene a lui, andavi sicuramente bene per tutti gli altri. Ma questa sua pressione era comunque giustificata da un comportamento encomiabile. Pretendeva, è vero, ma dava tutta la sua vita per quel lavoro nonostante passassero gli anni. Faceva orari improponibili e se non rispondeva al primo squillo di telefono era solo perché impegnato a scrivere qualche ordine. E, non appena posata la penna, si prendeva la briga di richiamare, anche in orari serali se uno finiva per dar lui la disponibilità di un numero personale. Insomma, con il passare degli anni, Vincenzo aveva finito per coinvolgermi così tanto all’interno della sua vita da agente da esserne anche io allo stesso tempo affascinato e stimolato. Pur non facendo mai visite de visu con lui, avevo imparato a conoscere i suoi clienti e percepivo ogni volta di più il rispetto assoluto che essi nutrivano nei confronti della professionalità ma anche della schiettezza di quell’omaccione alto più di un metro e novanta dalle spalle larghe. Mai avevo sentito clienti con una confidenza così profonda al punto da scherzare anche pesantemente con quell’offese, che soprattutto da quelle parti d’Italia, ci si può permettere solo quando si è davvero più che conoscenti. Ma soprattutto impressionava come riusciva a cambiare registro non appena ritornava nel suo binario commerciale. Lì non si scherzava. Lui era il migliore e riusciva a far fare alla persona di fronte esattamente quello che voleva. Ed era così bravo che spesso e volentieri finiva per limitare questa sua capacità proprio per un amor proprio nei confronti del cliente a dir poco assoluto. Non avrebbe mai messo nei guai un amico spingendolo a comprare più del dovuto. La sua idea era semplice. Se il negozio voleva investire una cifra divisa tra cinque aziende, lui spingeva affinché quella stessa cifra la spendesse solo e soltanto su di lui e le aziende che rappresentava. Quando un giorno, dopo più di cinque anni, mi confidò d’essere stanco, io ci scherzai su come eravamo soliti fare. È vero, l’azienda stava cominciando a scricchiolare ed i cambiamenti erano imminenti. Il fatto di prendere i soldi sempre più in ritardo sia da noi che dalle altre società di certo non lo aiutava ma c’era qualcos’altro che turbava i pensieri dell’amico Vincenzo. La sua espressione: «vorrei correre nudo in mezzo ad un prato», aveva ben reso la necessità di scappare verso una vita diversa. Aveva cominciato a guardarsi intorno, aveva messo giù un discreto progetto che sarebbe poi culminato nella realizzazione di un suo piccolo nuovo sogno nel cassetto. Da venditore voleva diventare imprenditore ed aveva già individuato il luogo dove realizzare il tutto, cominciato a contattare più di un professionista e fatto più di un conto per capire se poteva rientrarci dentro. Poi, una mattina, dopo quasi otto anni, non si fece sentire. E fu strano. Perché di solito avvisava sempre qualora non fosse stato disponibile. Lo risentii dopo altri due giorni e cominciò a raccontarmi di un episodio che lo aveva fortemente turbato. Stava rientrando da una trasferta delle sue, con oltre quattrocento chilometri sulle spalle tra andata e ritorno. Appena finito di fare benzina, cadde in terra. E non era la prima volta che capitava ma, quella volta, rimase molto più turbato perché cadde letteralmente da fermo e senza un motivo plausibile. Archiviò il tutto con una semplice debolezza ma sapeva anche lui che non poteva essere solo quello. Così cominciò quello che è il calvario delle visite e dei pareri di specialisti vari ed eventuali. Ci vollero mesi per arrivare al verdetto. Vincenzo, a meno di cinquant’anni di vita, aveva la SLA. E questa è una di quelle malattie che, a quanto pare, viene diagnosticata solo per esclusione dopo aver fatto decine di altre visite neurologiche. E, pur essendo una forma piuttosto particolare e lenta nella sua degenerazione, non c’era niente da fare. Quella caduta, così come le altre precedenti e tutte quelle successive erano figlie di quel male incurabile. La cosa che subito mi colpì fu la sua reazione immediata. Da quell’omaccione polemico e cagacazzi mi sarei aspettato un crollo ed invece il suo atteggiamento nei confronti della vita stessa cambiò a tal punto da trasformarlo quasi in uno di quei vecchi saggi che riescono sempre a trovare la scappatoia mentale utile per continuare a vivere. Soprattutto, mutò il nostro rapporto divenendo ancora più personale. Qui non si trattava più di due conoscenti o due semplici amici costretti a sentirsi per ore durante le giornate lavorative. Qui non si miscelava più il lavoro ad alcuni aneddoti personali. Il nostro rapporto s’era così serrato che la vita personale era più importante del lavoro stesso, divenuto più un contorno necessario per tirare avanti finché ci si riusciva. Insieme. Dalla sua, Vincenzo, aveva la fortuna dei numeri. Era una macchina da fatturato. Doppiava gli altri paragonabili per zone con la differenza che, da mesi, se ne stava al telefono, in casa, senza più poter neanche visitarli i suoi clienti. Aveva anche venduto l’automobile onde evitare di vederla svalutare ancora. Tanto nessuno avrebbe più guidato quella sua BMW, men che meno sua moglie, abituata com’era a quella macchinina da paese che aveva. Passò più tempo del previsto prima che la società che condividevamo cominciò a porsi alcune domande. La svolta furono le assenze, consecutive, alle riunioni semestrali. Una poteva essere giustificata ma alla terza, ogni scusa divenne poco credibile anche e soprattutto perché avevano cominciato a serpeggiare alcune voci nell’ambiente che avevano insinuato il tarlo del dubbio a chi prendeva le decisioni. Ma il circolo era così vizioso che anche chi decideva, preferiva non sapere pur di continuare ad avere la certezza di quei fatturati, in quella zona depressa, con la crisi economica che aveva affossato un po’ tutto e tutti. Insomma, quell’omaccione debilitato continuava ad essere una certezza sulla quale fare affidamento. E fu proprio in quell’estate (che già ipotizzavo correttamente essere l’ultima anche per me in quell’azienda ormai trasformata e rigirata da capo a piedi) che decisi di andare a trovarlo. Anche se era a due ore di macchina da dove villeggiavo, mi convinsi che l’occasione era troppo unica da non poterne approfittare. Certo, rivederlo dopo più di due anni, in chissà che condizioni fisiche, un po’ mi preoccupava. Anche perché, su queste cose, io sono sempre stato un vigliacco che odia scontrarsi con la dura verità degli eventi reali e che preferisce illudersi che tutto e tutti siano sempre felici, contenti e sorridenti. Ma quando arrivammo sotto casa sua, proprio quel suo sorriso solare e caloroso, cancellò ogni infantile rimostranza. Anzi, volle a tutti i costi accompagnarci per le vie della parte più antica del paese e farci da cicerone. Guidai quella Fiat Uno mezza scassata della moglie che aveva ancora in garage e riuscii a cogliere dal vivo tutte quelle qualità che avevo avuto modo di apprezzare già al telefono. Ma dal vivo erano ancora più accentuate. Il coinvolgimento e la passione dei suoi discorsi, sempre lucidi e senza fronzoli, erano entusiasmanti. Lui stesso era così gasato che in più d’una occasione quasi si dimenticò di dover camminare con delle stampelle. Si vedeva proprio che voleva correre. Voleva farci ammirare tutto quello che amava di quel borgo. Fu un turbinio di sensazioni positive e di energia rivitalizzante. Quella giornata che temevo mi lasciasse con l’amaro in bocca e con il cuore lacerato invece mi ricaricò di stimoli facendomi riscoprire nuovo. Vincenzo aveva appena compiuto l’ennesimo miracolo e me ne accorsi meglio lungo il tragitto della strada del ritorno. Mi aveva trasformato. Io che venivo da due anni di depressione latente che mi aveva imbruttito (e non solo nel senso estetico del termine) al punto da vivere quell’unica vita che avevo come un’ameba, riscoprii un’energia nuova. Decisi che era ora di muoversi e di godermi la vita, decisi di smetterla di lamentarmi sterilmente e decisi di uscire dal guscio di quel mondo artificiale che mi stavo creando giorno dopo giorno. E fu la prima cosa che sentii di dirgli alla nostra prima telefonata al ritorno al lavoro. Quella sera mi iscrissi anche ad un corso di nuoto affrontando così, di petto, una delle mie paure ataviche. Persi venti chili superflui e tutta la vita mi sembrò trasformata in meglio. Se prima una sciocchezza mi faceva incazzare fino a deprimermi, oggi, ogni problema, lo affronto con uno spirito diverso pensando a quanto la vita sia in verità molto più complessa dell’effimera necessità personale figlia del momento. Insomma, quel polemico e rompipalle di Vincenzo era riuscito a convincere anche me vendendomi la gioia di vivere. Lo aveva fatto gratis, senza guadagnarci nulla. E non sarebbe stato più Vincenzo l’agente e neanche Vincenzo il conoscente o Vincenzo l’amico. Da quel giorno, nell’intimo del mio spirito, era diventato Vincenzo il Maestro di vita. |
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SWEET DREAMS
SWEET REALITY - NON VENDIAMO SOGNI, MA REALTÀ Il motto della società era stato scelto da Runciter i cui ruoli aziendali erano ben definiti: era presidente, co-fondatore e metà del personale della ditta. L’altra metà era il suo migliore amico, Joe. L’investimento iniziale era stato tutto di Runciter per cui Joe non poteva lamentarsi dell’organigramma. E poi lui non voleva starsene dietro una scrivania a fare il Presidente, voleva vendere, voleva stare a contatto con la gente. D’altra parte era lui che doveva creare i loro mondi dei sogni e poteva farlo bene solo avendo un rapporto diretto con la clientela. Da tutti i punti di vista era l’organizzazione migliore. Avevano chiuso la loro prima contabilità semestrale. Dieci clienti in sei mesi non se li sarebbero mai aspettati. Ma la gente che odiava la realtà era sempre esistita e avevano sottovalutato la spinta dettata dalla crisi economica. Normale che prima o poi valutassero alternative al suicidio. E quale alternativa migliore di un mondo da sogno? Ci aveva visto lungo Joe quando aveva proposto a Runciter la sua rivoluzionaria idea. Sfruttando la SognoOSonDesto che permetteva di programmare sogni il passo successivo, pur se lungo e azzardato, era inevitabile: programmare un sogno perpetuo. Il primo avventore del nuovo semestre aveva sentito parlare della Sweet Reality da parenti poco entusiasti di tenere i loro cari in coma farmacologico piuttosto che al cimitero. Joe lo inquadrò presto. Non sembrava avere problemi economici né di salute. Probabilmente aveva una brutta famiglia a cui lasciare in eredità un ultimo sgarbo. Per vendere il suo prodotto doveva essere un po’ psicologo, anche se lui preferiva definirsi semplicemente onesto artigiano. Notò anche che l’uomo, sulla settantina più che sulla sessantina, appariva raffinato e con un gusto vagamente classico nel vestirsi e nella maschera portata con gli estranei. Antipatico e altezzoso l’avrebbe definito Runciter. Come tutti gli uomini di buon senso si informò accuratamente su varie questioni leggendo ogni minimo rigo del contratto vincolante a vita. Aiutato da Joe riuscì a carpire il senso di tutte quelle macchine a cui erano collegate le dieci persone che vide nella Sala delle Realtà. La gente infelice si recava alla Sweet Reality per avere un sogno su misura che durasse finchè un infarto miocardico, un ictus, un tumore non avessero stroncato la vita del cliente. O meglio, finchè il cliente non si destasse da quel lungo sogno catapultato direttamente nell’aldilà o nel nulla cosmico. Ma, cosa importantissima, il soggetto non avrebbe mai saputo di star sognando perché “tutto sommato lei quando sogna si rende conto di rado di non essere sveglio e se si rende conto è solo perché sta per svegliarsi mentre qui, grazie al simil-coma, è come se si trovasse perennemente in uno stato di sonno così profondo che le parrà sempre di essere immerso nella realtà.” Grande cosa per un venditore la convinzione. La convinzione di ciò che si offre al cliente. Joe offrendo quella scappatoia dalla distopia personale in cui vivevano i suoi clienti era serenamente felice. Dei soldi non gli importava granchè, i pagamenti mensili di ogni ospite della Sala delle Realtà che aveva un cuore ancora pulsante arrivavano a Runciter e il presidente decideva quanto dargli. Per Joe non era un problema e nemmeno per la sua famiglia; imprescindibile era il supporto costante della moglie che mai avrebbe chiesto al marito di chiedere quanto in fondo si meritava: un aumento consistente di stipendio. Tuttavia il denaro non sarebbe mai stato un problema perché fondamentalmente Joe amava il suo lavoro. Era un sogno poter regalare i loro mondi perfetti a quelle persone che si rivolgevano a lui per fuggire definitivamente dalla realtà. Inoltre era un lavoro dalle mille sfaccettature. Vendeva arte. Basti pensare a quel primo cliente del semestre a cui vendette una realtà artistica intrisa dei colori di van Eyck e popolata dalle figure di Caravaggio, una realtà in cui rimirare i cieli stellati di van Gogh e rimanere incastrati nelle geometrie di Escher. Il suo piccolo capolavoro: l’arte dell’arte. Era un medico perché tutto sommato rinviava la morte dei suoi pazienti o ne alleviava pene non più sopportabili. Come quelle del quinto cliente costretto alla quasi completa paralisi dalla SLA. Aveva convissuto con quella brutta bestia per quasi quarant’anni, ma vedere suo figlio morire era stato troppo. Poteva perfino vendere storie come uno scrittore o uno sceneggiatore. Una signora di mezza età, che fino a pochi anni prima era stata una famigerata pornostar, si era convertita al cattolicesimo. Nonostante le promesse di perdono ai redenti, la sua fede cristiana vacillava ricordandosi dei peccati commessi. Era stata la sua ottava acquirente. Voleva una realtà del tutto simile a quella che viveva tranne che per i ricordi. Voleva un nuovo background religiosamente pulito. Joe era riuscito a darle una gioia immensa rendendola immacolata. Le aveva venduto la salvezza eterna. Ma chi gli aveva fatto capire quanto amasse questo lavoro era stato l’ex mercante di liquori, suo secondo cliente. Un anziano senza nessuno al mondo cui regalare un sorriso. Un giorno un suonatore, riferendosi al liquore, gli chiese “tu che lo vendi cosa ti compri di migliore?” scatenandogli una reazione idiosincrasica. Di lì a breve il mercante era sprofondato nell’alcolismo. Perso tutto si era rivolto all’allora neonata Sweet Reality. Accettando un compenso minimo per quella vendita Joe si era reso conto di quanto vendere sogni o realtà, a seconda dei punti vista, riempisse la sua vita. - Ok, ricordi le storie di tutti i comatosi…o forse no? L’undicesimo posto della Sala delle Realtà era ormai occupato dal signore distinto che avrebbe sognato e vissuto gli ultimi anni della sua vita negli anni pre-computerizzati. - Il primo lo ricordi? Odiava Runciter quando faceva così. Ogni tanto lo stuzzicava, lo prendeva in giro. Ma quella volta andò giù pesante. - Ti sei mai chiesto se non siamo noi stessi parte del sogno di qualcun altro? L’arte di insinuare il dubbio anche per cose assurde. - Potremmo anche essere uno il sognatore e l’altro il sogno. Sai, penso che se dovessi cercare una realtà alternativa desidererei che il mio subconscio avesse le sembianze del mio migliore amico. Il sorriso obliquo e gli occhi penetranti di Runciter, che pur manteneva un volto giocoso, non avevano presa su Joe che aveva ben piantati i piedi a terra. - Certo non sarebbe facile per te convincermi di star vivendo un sogno. Dovresti instillare il dubbio con solide basi e, oh oh, caro Joe, dubito ne saresti capace. Cercando di trattenere il nervosismo che quei discorsi gli procuravano, Joe continuava a far vorticare il caffè con il cucchiaino mentre provava a dare al suo volto una maschera di compatimento per l’ironia trita e ritrita dell’amico. - Ah Joe, mi hai fatto riflettere con quella storia del mercante. Ma tu che le vendi, cosa compri di migliore delle realtà? A meno che tu non ti sia già venduto una realtà personalizzata e non la stia vivendo. E sai quale sarebbe la cosa buffa? Che nel sogno ti renda conto di non essere nella realtà primaria e decida quindi di venderti nuovamente un’altra realtà cercando di mettere dei meccanismi di difesa dal dubbio sempre più complessi! Che spasso sarebbe, vorrei vederti! Ti potresti trovare nel sogno del sogno del sogno all’infinito! Il caffè non vorticava più da un po’. Il cuore di Joe accelerò il ritmo. Gli si tapparono le orecchie. La testa pulsava. E si alzò, diretto verso il primo posto che era stato occupato nella Sala delle realtà. Runciter lo bloccò continuando a guardarlo con fare sornione. - Potrei anche essere il nuovo meccanismo di difesa della realtà che hai installato piuttosto che il tuo subconscio! O entrambi. In ogni caso non devi guardare chi c’è lì, mai. Devi aver fede nella realtà che vivi. Lascia che quel volto resti celato, lascia che sia il tuo simbolo di fede. Perché potrebbe essere sbagliata la frase di Dick che ti piace tanto. La realtà potrebbe non essere quella cosa che, anche se smetti di crederci, non svanisce. |
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Scatoline
Richard Gray entrò al pronto soccorso del General Hospital e corse verso il bancone. “Dove vengono portati quelli che arrivano con l’ambulanza?” La donna alzò gli occhi dal computer, diede uno sguardo al camice bianco addosso a Richard e rispose: “Buonasera, chi è lei?” “Sono qui per il signor Bourke, è arrivato da poco con l’ambulanza, dove posso trovarlo?” “Può aspettare in sala d’attesa, verrà chiamato da un’infermiera appena possibile.” Richard non aveva tempo da perdere e disse la prima cosa che gli venne in mente: “Mi ascolti bene, quello che sta rischiando di morire è mio fratello, lo deve vedere subito.” La donna lo fissò per qualche istante, poi fece cenno di seguirla. Richard entrò nella stanza in silenzio. Il signor Derek Bourke era disteso su un letto con gli occhi chiusi, flebo al braccio e respiro affannoso. Aveva la pelle del volto e delle braccia piena di bolle e di colorazione rossastra. Il dottore che lo assisteva si voltò ed esclamò: “E lei chi è?” “Sono Richard Bourke, come sta mio fratello?” Il dottore ci pensò un attimo, poi disse: “Signor Bourke, suo fratello è in condizioni molto gravi, spero che inizi a rispondere al trattamento, dato che finora non siamo riusciti in nessun modo a fermare l’attacco allergico.” “Oh no...senta, posso stare da solo con lui per un momento?” “Beh, solo un paio di minuti, ma per favore non lo faccia parlare, ha già una grossa difficoltà a respirare.” Il dottore uscì dalla stanza e Richard restò da solo con Derek. Si avvicinò al letto, si chinò e sussurrò all’orecchio: “Signor Bourke, può sentirmi? Sono Richard Gray, non so se si ricorda di me, ci siamo visti qualche ora fa in farmacia.” Gli occhi di Derek ebbero un sussulto, poi si aprirono a fatica. L’uomo gorgogliò qualcosa. “Non si agiti, la prego, è in ospedale e la stanno curando. Purtroppo oggi ho commesso un terribile errore: le ho dato il farmaco sbagliato. Appena me ne sono accorto sono venuto di corsa a casa sua, ma sono arrivato tardi: ho visto l’ambulanza che la stava portando via. Mi dispiace, mi dispiace un sacco.” Derek tentò ancora una volta di parlare, ma inutilmente. “No, la prego…stia fermo, stia calmo…oh Dio no, ti prego, non farmi succedere questo.” Richard si mise le mani sul volto e non trattenne le lacrime. In quel momento la porta si aprì ed entrò una donna, seguita dal dottore e da due poliziotti. “Richard, sei qui allora. George mi ha raccontato tutto, sei un mostro!” L’uomo guardò sua moglie. “Meredith, mi dispiace tanto.” Un suono alto e continuo irruppe nella stanza, era il bip proveniente dallo strumento accanto al letto, che annunciava l’arresto cardiaco. Derek Bourke stava morendo. Il dottore si avventò sul suo paziente, tentando un disperato massaggio cardiaco, mentre i due poliziotti si avvicinarono a Richard. Uno dei due gli disse: “Venga con noi signor Gray, dobbiamo farle qualche domanda.” Richard si rivolse a sua moglie: “Avevi ragione, hai sempre avuto ragione. Sul mio lavoro, su di me, su tutto. Spero di tornare presto ad essere quello di un tempo, quello di cui ti sei innamorata.” Seguì i poliziotti fuori dalla stanza, ma prima lanciò un ultimo sguardo al letto, dove il dottore stava chiudendo gli occhi al signor Bourke, ormai morto. Derek Bourke era un gracile uomo sulla cinquantina, quasi del tutto pelato. Chiuse l’ombrello, in quella piovosa serata di dicembre, ed entrò nella farmacia con fare discreto, evitando di guardare gli altri clienti negli occhi; gli aveva sempre dato fastidio notare le altre persone fissarlo, o meglio fissare la sua gobba, una malformazione che si portava avanti da quando era nato. In realtà, per dirla tutta, gli avevano sempre dato fastidio le altre persone, a prescindere. Quando venne il suo turno si avvicinò al bancone ed osservò il farmacista che era venuto a servirlo. Era un uomo di circa quarant’anni, forse anche più giovane, ben messo fisicamente; sembrava molto sicuro di sé. “Buonasera, posso servirla?” Derek aprì bocca solo per pronunciare il nome del farmaco di cui necessitava, una delle tante medicine che era costretto a prendere da molti anni, per tutti gli acciacchi che si portava dietro a causa del suo lavoro. Il farmacista non lo degnò di una risposta e si diresse nel retro del locale. “Eccone un altro che arriva, gli dici buonasera e neanche ti risponde, vuole la sua cazzo di scatolina e fine.” “Richard, abbassa la voce, potrebbero sentirti i clienti.” “Che si fottano i clienti. E che si fotta questo lavoro! Sai quanto prende un mio amico che lavora come cassiere al supermercato? Eh, lo sai? Prende 1200 euro al mese, poco meno di quanto prendo io che sono laureato. E ho un’amica che lavora in un negozio di vestiti, lei prende 1500! Ti rendi conto? Prende più di me!” Richard Gray era furioso, come quasi ogni sera, ed apriva e chiudeva sbattendo le cassettiere mentre cercava la medicina richiesta. George, suo collega, incrociò le braccia e provò a farlo ragionare, per l’ennesima volta. “Per favore, calmati! Ogni stramaledetta volta è la stessa storia. Sì, hai ragione, come ti ho sempre detto anche io: veniamo pagati da cani. Vuoi capire però che il nostro lavoro è totalmente diverso da quello di uno che fa il cassiere in un supermercato o in un negozio di vestiti? Noi vendiamo farmaci, non noccioline o borse. Vendiamo roba che salva la vita, te lo vuoi mettere in testa? Abbiamo una responsabilità enorme rispetto agli altri, non puoi ragionare sempre e unicamente sullo stipendio.” Richard sbatté l’ultimo cassetto e guardò George con ira. “Sembri mia moglie, falla finita.” Poi tornò al bancone. “Ecco qua, sono 11 euro. Mi dia anche la tessera sanitaria per favore.” Derek tirò fuori il suo vecchio portafoglio, porse la tessera sanitaria, attese che il farmacista la passasse al computer, pagò e mise in tasca la scatolina. Poi si voltò ed uscì in silenzio dalla farmacia. George vide Richard tornare nel retro e lo affrontò subito: “La devi fare finita, così non puoi andare avanti. Non ti piace questo lavoro? Mollalo! E smetti di rompere le palle una volta per tutte. Che poi la cosa più importante di tutto questo discorso è che sei sempre arrabbiato, nervoso…e secondo me alla fine rischi di sbagliare, di fare un errore che ti costerà caro. E che soprattutto costerà caro a quel povero sfortunato a cui darai il farmaco sbagliato.” Richard spalancò gli occhi. “Cosa?” “Come cosa? Mi stai ascoltando o no?” “Oh Dio.” “Richard, che succede? Ti è partito il cervello alla fine?” “Ho sbagliato George, ho sbagliato scatola. Ho dato a quell’uomo un altro farmaco.” Richard corse al computer sul bancone. George lo raggiunse poco dopo. “Eccolo qua, si chiama Derek Bourke…dunque, questo tipo prende un sacco di medicine. Oh no, è allergico George! Gli ho dato un farmaco per cui è allergico!” “C’è l’indirizzo, dobbiamo rintracciarlo.” “Vado. Se chiama Meredith dille che uscirò più tardi stasera, ma tieni la bocca chiusa su questa storia, altrimenti chi la sente poi.” Derek Bourke chiuse la porta di casa, lasciò ombrello e cappotto nell’ingresso e si diresse verso il bagno. Aprire la scatola senza neanche guardarla fu per lui un gesto meccanico, come lo fu anche ingoiare la compressa. Era concentrato sul suo lavoro e su quello che avrebbe dovuto fare nei prossimi giorni. Tutto cominciò con un fastidioso prurito alle mani e ai piedi. Non ci fece neanche caso lì per lì, poi vide le bolle. Il prurito si diffuse a braccia e gambe, mentre sentiva gonfiarsi le labbra e la gola. Aveva avuto altri attacchi allergici in passato, ma non avevano mai avuto un decorso così veloce e violento, quindi si decise ben presto a chiamare l’ambulanza.” La pioggia incessante picchiettava sul parabrezza dell’auto; due persone sedevano sui sedili anteriori. La donna ruppe il silenzio: “Io, io…non ce la faccio più. Non lo sopporto più, sta sempre a lamentarsi del suo lavoro, di quel maledetto lavoro per il quale non guadagna neanche tanto. Vorrei lasciarlo, ma so che lui mi perseguiterebbe; non oso dirgli che lo sto tradendo da mesi ormai, perché potrebbe addirittura uccidermi, ha degli scatti d’ira paurosi.” L’uomo accanto a lei non alzò lo sguardo dalle proprie mani, restando in silenzio. “Per questo l’ho contattata, signor Bourke, ho davvero bisogno di lei…potrà fare quello che le sto chiedendo, vero? Una mia amica, sua cliente in passato, mi ha parlato tanto delle sue incredibili capacità. Riuscirà a farlo senza pericolo? Senza che si sappia mai niente? Io non voglio rischiare di essere scoperta e…e non voglio neanche che lui soffra, se fosse possibile. Potrà ucciderlo senza che senta dolore?” Derek Bourke alzò lentamente gli occhi e li fissò intensamente quelli di lei. “Signora Gray, si calmi. Suo marito si trova dall’altra parte della strada, in farmacia. Ho giusto finito le mie medicine, entrerò a comprarle e ne approfitterò per farmi servire da lui, così da conoscerlo di persona. Poi stasera le telefonerò e le dirò solamente sì o no. Se rifiuterò il lavoro non ci vedremo o sentiremo mai più, se invece accetterò le comunicherò il mio prezzo. Ognuno di noi ha il suo ruolo in questo mondo, ognuno vuole qualcosa, ognuno dà qualcosa. Ognuno compra, ognuno vende. Lei compra la libertà da suo marito, io vendo morte. Ci sentiamo stasera, le auguro una buona serata.” |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Bob
Piazza Verdi, l’una e mezza di notte. L’apice della baldoria. Strade intasate da gente ubriaca, grida e risate, musica dai locali. Ogni tanto un’auto tenta l’attraversata e allora son dolori, hai voglia a suonare e sfanalare, ti ridono in faccia quando va bene. A volte m’immagino come deve essere la scena osservata dall’alto, probabilmente molto simile all’attività di un vivace formicaio…forse siamo davvero come loro, tante piccole formiche operose sempre in movimento, sempre attivi, a correre chissà dove. Con la differenza che loro lavorano per il bene comune, noi ci distruggiamo per il benessere personale. Ma che cazzo sto pensando? Meglio che vada a letto. Fa abbastanza freddo a fine Ottobre e son due giorni che mi arrovello a trovare materiale per il giornale, uno straccio d’idea per il nuovo articolo. Niente, nisba, zero. Non che sia un gran lavoro, i miei pezzi rendono quei due soldi che bastano giusto per la birra, un po’ di cibo e stop. Per fortuna che sto da un amico, chissà per quanto tempo mi sopporta ancora, vabbe che dormo nello sgabuzzino. Bah non ci pensiamo. Osservo con distacco ciò che mi circonda, in cerca di un’ispirazione, ma sento solo il sapore della birra, quella portata da casa. Proseguo oltre, passando a stento nella folla mista di studenti ingrifati, quarantenni attempati in cerca degli ultimi momenti di gloria, ragazzine svestite, coppiette, c’è di tutto. Il clima non è ancora così rigido da evitare quello strano assembramento di anime perdute. La birra mi fa proprio un brutto effetto, dovrei smetterla di bere. Incrocio il classico gruppetto di snob benestanti, si stanno burlando di un venditore ambulante che tenta di rifilare loro ogni sorta di aggeggi: accendini, collanine luminose, piccoli megafoni, occhiali assurdi. Per un attimo mi faccio due risate a distanza, poi mi rendo conto che c’è qualcosa di estremamente sbagliato. Ragazzini che sperperano i soldi del paparino per far colpo su donnette anch’esse firmate da cima a fondo si prendono gioco di un uomo adulto, che alle due di notte vende ogni genere di alambicchi per campare, o mandare i soldi alla famiglia che vive chissà dove. Non mi viene più da ridere, ma solo da sputare in terra. Mi allontano più incazzato di prima. Attraverso la piazza senza una meta precisa, facendo attenzione a non pestare cocci di bottiglia, o qualche impavido che ha ancora il coraggio di sedersi per terra. Fosse primavera sarei intento a fare slalom tra mille gruppi di studenti che, seduti in cerchio, parlano di niente e cantano canzoni di De Andrè accompagnati da una chitarra. Per fortuna che è autunno. Dopo poco un pakistano mi si fa incontro con occhi gentili e interrompe lo strambo flusso dei miei pensieri dicendo semplicemente “birra?” con quella voce pacata e a tratti simpatica. Hanno tutti la stessa voce i “paki”. Avendone incontrati altri tre in precedenza, per l’ennesima volta dico un “no grazie” svogliato, a momenti non lo guardo nemmeno in faccia. Poi mi fermo e comprendo vergognosamente di essere altrettanto snob di quegli stronzetti impomatati. Lo fisso meglio: non so dire quanti anni abbia. Una marea di domande mi sale alla testa, portate al cervello dalla stessa birra che tengo in mano. Chissà cosa ci fa lì, qual è la sua storia, se ha una famiglia…ma soprattutto quanti cazzo sono? Arresto il mio vagabondaggio e mi dirigo verso di lui, l’anonimo venditore di birra. Ecco cosa potrei scrivere, un pezzo su questi poveri cristi. Non mi pare che qualcuno abbia mai fatto una inchiesta in merito, solo considerazioni generiche sul degrado, le proteste dei cittadini, le risse. Ma su di loro niente. Scolai l’ultimo goccio attirando la sua attenzione con gesto, subito ripetè la domanda come se non mi avesse visto venti secondi prima. “Sì, dammi una birra. Come ti chiami?” Lui mi guarda un po’ sospetto, forse mi crede uno della municipale. Poi nota la birra vuota in mano, le nike sportive ai piedi, i jeans, la mia faccia. Fa ridere pensare a un qualche controllo a sorpresa, come se la pattuglia di carabinieri ferma a cinquanta metri dalla piazza fosse del tutto fittizia. Forse era davvero così. “Due euro, fresca” mi risponde, porgendomi una Moretti. “Ok ecco, però non mi hai detto come ti chiami. Vai tranquillo, sono da solo stasera e voglio fare due chiacchiere”. Lui mi sorride e dice qualcosa che non capisco. Poi mi ringrazia, va per la sua strada, riprende la vendita senza fine. Decido di seguirlo. Passa un’ora durante la quale il mio uomo non fa che girare ripetendo all’infinito quella domanda. “birra?”. Ogni tanto incrocia altri “colleghi”, parlottano, riprendono l’eterno vagare. Come fanno questi a girare così tutta la notte? Passa un altro po’ di tempo, poi d’un tratto, come in risposta ad un segnale prestabilito e invisibile, convergono tutti in un punto e iniziano a spostarsi lontano, costeggiando il colonnato sulla piazza dal lato opposto della pattuglia. Continuo l’inseguimento. Sono quasi le tre, il meglio della serata prosegue oramai nei pochi locali del centro ancora aperti, è come se loro, gli abusivi, avessero intuito che non potevano ricavare altro e si sono degnamente ritirati dal campo di battaglia. Il mio uomo è quasi in coda alla fila, sono sei o sette, parlottano tra loro con gli zaini e le buste flosce, indice di una buona nottata. Passando vicino a qualche serranda semichiusa buttano un saluto che puntualmente riceve risposta, pare un cortese commiato tra vicini di casa. “ecco dove le prendono, dai mini market che in teoria son chiusi…ma con il frigo sempre aperto”. Annoto due cose al cellulare, non ho il solito taccuino. Fanculo, odio scrivere al cellulare. Girano un paio d’angoli, poi d’improvviso si dividono. Bob prosegue da solo per una stretta viuzza laterale, non si è accorto di niente. Ho deciso di chiamarlo così, ha sicuramente la faccia da Bob, per quanto sono convinto che un “paki” non possa chiamarsi Bob. Suona un campanello, gli aprono, sparisce in un vecchio portone di legno. Rimango impettito a fissare niente. Ricerca finita, ottenuto poco o niente, me ne torno a casa. Piazza Maggiore, ore 18, aperitivo. Non so nemmeno perché ci stia andando, non sopporto questa mania di incontrarsi al pomeriggio per poi mangiare come porci fino alle nove di sera facendolo passare per uno spuntino. Forse vado perché me l’hanno chiesto e non ho nulla da fare. O meglio, dovrei fare qualcosa ma come dire, è un periodaccio, capita a tutti no? Vabbe. Sono quasi arrivato al dehor quando una coppia davanti a me è fermata da un ambulante che propone le solite cagate: accendini, lucine di vario genere, orecchie da coniglio luminose. Per un po’ osservo ammirato la tenacia di questi venditori anomali. Allo stesso modo di quelli notturni, non si danno mai per vinti all’inevitabile rifiuto ed espongono la merce con una serenità ultraterrena, riuscendo ogni tanto a fare breccia nei poveri cittadini infastiditi. Molto più spesso sono costretti ad allontanarsi ricevendo offese e risate di scherno, ma la tranquillità con cui lo fanno risulta quasi eroica. Sto per andarmene quando guardo meglio la faccia del venditore sotto una bizzarra cuffia e “cazzo ma è Bob!” esclamo. Mi sentono tutti e tre. La coppia approfitta della cosa per declinare l’offerta e allontanarsi, lui fiducioso viene verso di me con l’accendino in mano. Non ha idea di chi io sia. “Ciao, sì dammi un accendino. Senti ti ho visto l’altra sera che vendevi birra in piazza Verdi, non mi hai detto come ti chiami. Sono Andrea, piacere”. Mi stringe la mano con un sorriso, mi chiede due euro. Glieli do aspettando una risposta. “Niente nome, io solo vendo, vendo tutto. Tu cosa vuoi? Birra? Bici? Cosa?”. Lo guardo sorpreso. “come niente nome, tua madre ti avrà pur chiamato in qualche modo. Dai ti ho detto il mio, come ti chiami?” Mi sorride. Lo guardo bene, non è un vero sorriso. È solo il suo modo di apparire simpatico, quella che noi occidentali chiameremmo strategia di marketing. “Vendo, vendo tutto, cosa vuoi amico? Birra? Fazzoletti? Cosa?” Ci rinuncio, addio Bob. Gli lascio cinque euro, per un attimo appare quasi indeciso, poi se li tiene e mi mette alcune cose in mano. Vado all’aperitivo ancora senza idee, con due accendini e una lucina da bici in più. Con affetto, fanculo Bob e i venditori ambulanti. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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