Sophia di arturobandini
Io Guglielmo Ludovisi, mi accingo a vergare le mie ultime parole, chiuso in questa cella fredda e umida, certo ormai di avere pochi giorni da vivere se non addirittura poche ore. Nacqui figlio cadetto in una delle più importanti famiglie di Bologna e per me venne scelta la carriera ecclesiastica, anche se non nutrivo alcuna vocazione e mai il Signore me la concesse nel corso degli anni, più avvezzo a tirare di spada, a gozzovigliare con gli amici e ad insidiare la virtù delle donne, senza timore di perdere la mia anima immortale.
Un profondo affetto e una grande fiducia reciproca mi legavano al mio primo cugino, Alessandro, cardinale arcivescovo della nostra gloriosa città e fu così che venni inviato come legato alla Corte di Sua Santità Paolo V, sul finire del 1612. Amai fin da subito Roma, lo splendore dei palazzi, il panorama che si apriva salendo i Colli, l'opulenza e il potere della Chiesa. E amai anche i bassifondi, le bettole e le servette, le prostitute, i duelli all'arma bianca. Evidentemente la sete di avventura non si era ancora spenta nel mio sangue nonostante l'Altissimo mi avesse già concesso trentacinque anni su questa Terra.
Nella notte del 13 marzo del 1613 accadde però la catastrofe destinata a mutare l'Italia e il Mondo tutto: una serie di comete si abbatté al suolo, distruggendo le regioni centrali, spazzando via le città di Bologna, Firenze e Napoli, lasciando Roma gravemente ferita, se non agonizzante. La sede pontificia, il Palazzo del Quirinale e Castel Gandolfo rimasero in piedi senza aver subito le ingiurie di quelle palle infuocate provenienti dal cielo ma i terremoti che seguirono la terribile caduta fecero sì che la Città Eterna venisse abbandonata, ormai insicura. Tutte le ricchezze del papato, tutta la saggezza e il potere della Chiesa finirono per risultare inutili, superflue, se confrontate con l'ira di Dio. Trascorso più di un anno, mi piace pensare che tra le stelle che caddero sopra di noi vi fosse anche la Cometa che aveva annunciato la venuta di Nostro Signore Gesù Cristo e che la punizione sia stata comminata per punire i molti peccati mondani e la sporcizia connaturata al genere umano.
Eppure in me il desiderio di vivere era ancora forte. Scappai assieme al seguito dello stesso Pontefice, ma essendo egli un uomo non più giovane e piuttosto cagionevole di salute lo perdemmo presto, in seguito a problemi polmonari causati da una terribile pioggia.
Deceduto Sua Santità il seguito si disperse ed io cominciai a vagare assieme ad altri uomini giovani e forti, cercando di sopravvivere cacciando e vivendo di espedienti. Non fu semplice resistere agli attacchi dei briganti o alle insidie della natura, così mutata dopo la terribile catastrofe che ci aveva colto. La primavera e l'estate ci aiutarono grazie a un clima dolce e alla fine di agosto riuscimmo a riparare sulle montagne dell'Irpinia, nascosti in un rifugio sicuro.
Ma un autunno straordinariamente freddo, la prima neve cadde già a metà settembre, ci colse, fiaccando la nostra speranza di sopravvivenza. Fu allora che sentimmo parlare da un viaggiatore morente che ospitammo e soccorremmo nella nostra caverna, di Sophia, l'ultima Città intatta rimasta sull'amato suolo italico, l'ultimo luogo di pace e sapienza, l'ultimo angolo in cui avremmo potuto sopravvivere senza diventare lupi per gli altri uomini.
In quattro partimmo per cercarla, anche se non sapevamo esattamente dove fosse, il nostro ospite morto prima di poterlo rivelare, se non che si trovava da qualche parte tra le montagne della Lucania. Il rigore dell'inverno era però terribile e i miei compagni di sventura resero l'anima a Dio uno dopo l'altro già solo durante la prima parte del nuovo viaggio.
Cercai ricetto nella Città di Potenza ma ben presto scoprii che era stata ulteriormente devastata da truppe mercenarie svizzere di fede calvinista, in cerca di bottino e donne. Non potei avvicinarmi, ma incontrai diversi dispersi, uno più terrorizzato dell'altro, al punto che dovetti combattere diverse volte per salvarmi la vita. Nessuno di quelli con cui riuscii a parlare conosceva la Città di Sophia, nessuno l'aveva nemmeno mai sentita nominare. Eppure non mi persi d'animo e continuai a percorrere tutti i sentieri ancora aperti nonostante la neve e il ghiaccio. I ricordi ora si fanno fumosi e indistinti, siccome venni allora colto da una febbre che ha finito per intaccare la mia memoria e la mia capacità di giudizio. Vagavo e vagavo, nutrendomi con poco e niente, qualche bacca, un paio di lepri cacciate quasi per caso, qualche strano e contorto tubero celato sotto la neve.
Ricordo di essermi lasciato andare, di non aver più combattuto per la vita, un giorno in cui riprese a nevicare: ormai non ero più in grado di proseguire in nessuna direzione, ormai non avrei saputo trovare neppure me stesso, la mia anima e il mio cuore arresi di fronte all'inevitabile.
Fu allora che sebbene incapace di trovare l'ultima città, fu Sophia a trovare me: dei soldati, incaricati di proteggere quell'isolata sede del sapere, s'imbatterono nel mio corpo ormai quasi del tutto assiderato e mi portarono con loro, salvandomi la vita.
Lottai contro la Falce per più di tre settimane o almeno così mi riferirono. Ricordo di essermi svegliato un giorno solo per pochi istanti ma finalmente lucido e sfebbrato: mi trovavo in una piccola ma accogliente stanza, le pareti imbiancate a calce, con un caminetto che spandeva il proprio calore in tutto l'ambiente. Una donna non più giovane stava al mio capezzale e non appena riuscii a produrre un gemito soffocato, mi guardò sorridendo, e dopo essersi alzata si avvicinò facendomi ingurgitare un po' di minestra calda. Passò un lungo periodo in cui cadevo addormentato per alcune ore, svegliandomi poi con una fame da lupo e ogni volta venendo nutrito con cibi caldi e nutrienti.
La donna venne sostituita da una fanciulla sui diciotto anni, dotata di un sorriso dolce e di occhi bruni e luminosi manifestanti una vivace ed impetuosa intelligenza. Grazie alle cure della giovane ritornai sufficientemente in buona salute per poter essere visitato da un uomo anziano e dall'aspetto autorevole, di nome Alessio.
“Ben arrivato a Sophia, mio signore. Questa è l'ultima Città in cui si possa vivere in tutta l'Italia, senza temere briganti e violenza, senza dover subire sopraffazione e minaccia”.
“Vi ringrazio, Altezza”, risposi, con la voce ancora rauca a causa della mia gola infiammata.
La giovane e il mio interlocutore si misero a ridere.
“Non chiamatemi, 'altezza', sono solo uno dei tanti e non un capo. Qui a Sophia non abbiamo sovrani, ma ognuno vale per uno e tutti hanno la possibilità di realizzarsi. Sono stato incaricato di incontrarvi per capire se potrete fare parte della nostra comunità: come immaginerete non possiamo accogliere tutti, le nostre risorse e scorte sono limitate, ma una possibilità viene concessa a ogni nuovo ospite”.
Venne a visitarmi in diverse occasioni e sebbene non riuscissi a capire quale fosse la sua posizione nei confronti di un sacerdote, quale in fin dei conti io ero, si comportò sempre in modo urbano, passando parecchio tempo a parlare con me e affermando che avrei potuto diventare facilmente uno di loro.
La ragazza, Francesca, trascorreva tutto il suo tempo con me. All'inizio mi imboccava, poi semplicemente mi serviva i pasti e non essendo io ancora in grado di alzarmi mi aiutava ad espletare perfino le funzioni corporali. Mi passava sul corpo delle pezze inumidite, permettendomi di rimanere pulito e fresco. Le sue mani erano morbide e dolcissime eppure allo stesso tempo seppero risvegliare la mia virilità e il mio desiderio, essendo io non certo portato per la continenza. Diventammo amanti e giacemmo assieme ogni notte, spesso senza parlare, beandoci semplicemente della reciproca compagnia. Alla fine cominciai a potermi muovere, anche se i miei piedi rimasero goffi e intorpiditi per lungo tempo, avendo perso diverse dita. Quando finalmente potei andare alla finestra, vidi che Sophia si trovava in una valle tra i monti e che era una solida città murata. Noi ci trovavamo in uno stabile che sormontava un profondo e rapido burrone.
Non ero prigioniero eppure non potevo uscire dal palazzo se non per raggiungere un cortiletto interno, dove Francesca mi conduceva ogni pomeriggio, essendo ormai arrivata la primavera. Suonava e cantava per me con la sua voce d'angelo e ben presto potei comporre delle poesie per offrirgliele, passatempo in cui avevo eccelso durante i burrascosi anni della mia gioventù.
Non sapevo ancora se potevo considerarmi accolto nella città ma tutte le persone che incontravo si manifestavano intelligenti ed istruite, capaci di conversare e di pensare, persino le guardie che mi sorvegliavano.
Ormai ero tornato in forze e nonostante le cure della mia meravigliosa infermiera, cominciavo a diventare irrequieto, non avendo certo ricevuto il dono della vita per rimanere imprigionato dentro poche stanze.
Una notte mi svegliai e scoprii che Francesca non giaceva più al mio fianco. Da qualche parte vi era un pulsare ritmico, remoto eppure pressante, che non sapevo come identificare. Fu così che mi alzai dal letto e che mi diressi verso quel rumore. Non incontrai nessuna guardia e finalmente potei uscire dal palazzo. Vidi una sorta di tempio greco al centro di una grande piazza, che dalla mia stanza e dai quartieri in cui ero recluso non avevo potuto notare e capii che era quello lo stabile da cui proveniva ciò che mi aveva portato al risveglio. Entrai e ben presto mi avvidi che erano presenti molte persone. Mi avvicinai e l'orrore mi colse: alcuni di loro, donne e uomini completamente nudi, danzavano attorno a un fuoco, sopra al quale stavano arrostendo quelle che erano senza alcun dubbio membra umane, almeno di cinque persone. A cucinare l'osceno pasto, vi era proprio la mia Musa, la mia salvatrice, la bella Francesca, nuda anch'ella, con uno sguardo terribile colmo allo stesso tempo di brama e dominio.
Inizialmente rimasi paralizzato dall'orrore, poi mi avvicinai all'innominabile falò con l'intenzione di spegnerlo. Prima di potere intervenire venni scoperto facilmente e condotto proprio nella prigione nella quale ora risiedo da qualche tempo.
Alessio venne a parlarmi.
“Guglielmo, avete scoperto troppo presto le nostre pratiche ma io spero che voi possiate comprendere che sono necessarie. Gli uomini che avete visto sacrificare sono stati immolati alla nostra unica dea, Sophia. Non possiamo sostenere il mantenimento di stranieri, per cui siamo costretti a sbarazzarcene: se li liberassimo, entro pochi giorni verremmo attaccati da chissà quale terribile nemico. E siccome seguiamo la via della saggezza, abbiamo deciso di non sprecare la loro carne, quindi ce ne cibiamo. Il mondo è diventato poverissimo, non possiamo permetterci alcuno spreco”.
“Ma perché non mi avete sacrificato subito? Voi mi avete nutrito e guarito, io ho giaciuto con la vostra sacerdotessa o almeno credo che lei lo possa essere”.
“Lo è, Francesca è la nostra Custode del Fuoco della Sapienza. Vi abbiamo salvato? No, voi avete salvato noi: siamo rimasti in pochi e abbiamo bisogno di sangue che provenga da fuori Città per evitare che i nostri difetti si esasperino con unioni tra parenti. Francesca è rimasta ingravidata dal vostro seme, in questo modo vostro figlio potrà essere per noi fonte di speranza. Ora vi lascerò un diario sul quale potrete annotare la vostra storia, così da poterla tramandare ai posteri”.
Da codesta conversazione sono passate ormai alcune ore ma sento che presto la mia vita giungerà al termine. Ben presto la mia anima di peccatore sarà cibo per le schiere di Satana, mentre il mio corpo sarà carne per la salvezza dell'ultima Città in cui vive la speranza ma non certo per me. Forse lo sarà per la mia discendenza e ciò mi consola anche se le fiamme dell'Inferno già scottano i miei ultimi pensieri.