"IL GRANDE CUORE DI PHILADELPHIA" di marcoslug
Te le ricordi le luci del Wachovia Center, Nick? Quelle che viaggiavano impazzite sul parquet, quando lo speaker annunciava uno a uno i giocatori di quelli che sarebbero passati alla storia come i “leggendari sixers”. Compreso te ovviamente. From Maroussi Athens, Greece... number forty-five... Nicolaos Siiiradakis. E via una corsa liberatoria, apparentemente disinvolta, intimamente sempre emozionante, a prenderti gli high-five dei compagni e i flash dei fotografi disposti a bordocampo nelle posizioni più strane. Che poi il tuo cognome, a partire da quella “i” prolungata per due o tre secondi buoni, venisse storpiato in un ululato informe e sguaiato, quello era un dettaglio secondario.
E te li ricordi, Nick, i colori – quelli cangianti del maxischermo cubico e il rosso acceso degli spalti – e gli odori e i suoni del Wachovia Center? Quei suoni e quelle voci, di giubilo ed eccitazione, impazienza e poi ancora acclamazione, che erano anche per te. Soprattutto per te, a volte. A vederti ora, Nick, accasciato sotto il portico di una casa in stile Queen Anne lasciata abbandonata, le palbebre cadenti e l’aria in generale poco raccomandabile, si direbbe che la grandezza di quei gloriosi tempi ti sia un tantinello sfuggita.
Chad Brockman, detto America, scende a velocità più che doppia dal sovrappasso della stazione della trentesima strada e, zigzagando sui marciapiedi scalcinati e tra persone troppo lente per lui, si immette in più solitari e rassicuranti vicoli, direzione Powelton Village. Dio quanto odia prendere i treni metropolitani e ritrovarsi, o anche solo transitare, per quei caotici e maleodoranti luoghi che sono le stazioni di tutta Philadelphia! A Chad piace molto camminare, anche per chilometri, ma oggi un affare nella downtown è andato per le lunghe, e se c’è una cosa che odia di più di treni e stazioni, quella è fare tardi a un appuntamento di lavoro: quindi stavolta, per accorciare i tempi del tragitto, gli è toccato l’oleazzo della trentesima. Non che i clienti di Chad – perlopiù spacciatori di medio calibro, papponi e incalliti tossicodipendenti – siano persone così attente all’etichetta, ma per lui la professionalità è tutto.
Quell’ometto sulla cinquantina che risponde al nome di Chad Brockman lo puoi trovare spesso a sgattaiolare tra le vie a ovest del fiume Schuylkill. Tutti sanno chi è America. Tutti sanno che quell’uomo dall’aspetto tanto innocuo – la corporatura gracile, gli occhiali a lenti spesse come fondi di bottiglia, i capelli impomatati all'indietro con cura – gestisce buona parte del traffico di stupefacenti di West Philadelphia; e lo fa da solo. E se nessuno in tempi recenti ha mai dato noia o ha mai osato mancare di rispetto a Chad il bianco, in un distretto dove il settanta per cento della popolazione è di colore, è perché tutti sanno che quell’uomo dai modi tanto gentili e il viso sempre fresco di rasatura ci mette poco a piazzarti tre pallottole in mezzo alla fronte.
Chad dà un’occhiata inquisitoria all’orologio, scostando quanto basta il polsino della camicia: fra cinque minuti ha un appuntamento con Cuoregrande e arriverà in tempo.
L’ascesa e la caduta di Nicolaos Siradakis. Nick, come ormai un po’ tutti lo chiamano da vent’anni a questa parte, tenta di ricordare. Bolso com’è ora, fa fatica a immaginarsi ancora nei panni del giovane rookie che tra lo scetticismo generale venne chiamato come scelta numero sette dai Philadelphia 76ers: un autentico colosso di sette piedi dalla mano educatissima, come si dice in gergo cestistico. E come la sapeva usare quella mano fatata! Appoggi delicati al tabellone, tiri in sospensione, ganci con entrambe le mani... Il repertorio era di quelli succulenti. E ben presto i tifosi dei sixers se ne accorsero, e presero ad acclamarlo come salvatore della patria; che salvatore, non dell’ellenica patria ma se non altro della loro franchigia, lo era davvero, se era riuscito a portare già al secondo anno fino a playoff inoltrati una sbalestrata squadra da lottery. E più i tifosi lo acclamavano, più Nick ci dava dentro. E più ci dava dentro, più fioccavano soldi da sponsorizzazioni e aumenti di contratto. E più i verdoni fioccavano, più Nick ci metteva anima in stoppate e rimbalzi, oltre che nella fase d’attacco che già gli riusciva divinamente. E questo i tifosi lo notavano; e allora lo acclamavano ancora ancora di più. Era la ruota magica.
Il momento in cui la ruota panoramica raggiunse l’apice fu una serata di aprile di dieci e passa anni fa, ad Atlanta: gara sette di una finale di conference contro gli Hawks. Nick, sempre più affossato sui gradini della casa in stile Queen Anne, ha un brivido di euforia regressa al solo ricordare quegli attimi. La ruvidità del pallone che gli viene passato, o per meglio dire letteralmente scaraventato tra le mani, a pochi secondi dalla sirena. La voce a trombetta di un qualche telecronista vestito di tutto punto. Nick... with the jumper... at the buzzer... and it goes! Ciaff, solo retina. Solo il fondo del secchiello. Un nanosecondo di vuoto, di paralisi totale, e poi l’esplosione: nel cuore di Nick, e in quello di centinaia di migliaia di tifosi. Siamo in finale, siamo in finale! Voliamo a Los Angeles: perderemo, ma chissenefrega! Tante reazioni scatenate da un unico, perfetto, tiro. La Philips Arena che si trasforma in una bolgia, nonostante tutto. Nick che si guarda le mani con un’espressione basita, come se fossero corpi a lui estranei. Gli schiaffi benevoli dei compagni, i caroselli, le interviste sconclusionate, i titoloni dei giornali. Atlanta swept by the Greek colossus. Nick, the big heart of Philly. Nick, il grande cuore di Philadelphia. Non importa cosa sarebbe successo dopo: Nick “Cuoregrande” Siradakis era già asceso all’Olimpo delle leggende del basket.
– Sai perché mi chiamano America, Nick?
Chad pronuncia la domanda con tono pacato, leggermente reclinato verso il greco, ma bada bene a non avvicinarsi troppo perché il corpo di quell’omaccione emana rancidi effluvi.
Nick bofonchia qualcosa che dovrebbe assomigliare a un no: non riesce proprio ad apparire lucido, sebbene si sforzi di sedere compostamente.
– Qui a West Philadelphia mi chiamano America perché...
Chad si aggiusta il colletto della camicia; in realtà vuole dare del tempo a Nick per prepararsi all’ascolto. In tutta risposta, Nick offre un’espressione vagamente intelligente, gli occhi tenuti aperti a forza.
– ... perché come il nostro beneamato Paese, offro a chi ne ha bisogno, diciamo a voi sprovveduti o disperati, un’occasione per sognare, per volare alto. E vi do i mezzi per arrivare in posti che avete sempre desiderato o che credete di aver perso, vi ci conduco per mano. Ma non vi accorgete, Nick, che nel frattempo vi sto spremendo dal di dentro. E quando non c’è più niente da spremere... boom – Chad getta un sasso che teneva da qualche minuto in mano – vi lascio cadere.
Nick ha l’aria di chi si è perso nel discorso; o forse il fatto è che lo conosce già troppo bene. È in astinenza e solo i ricordi in questo caso possono fare da anestetico. Chad gesticola con le mani, in maniera controllata bisogna ammettere, ma agli occhi di Nick sembra un samurai che agita vorticosamente la sua katana. E lui ha solo voglia di ricordare.
Il giorno che Nick comunicò in una quasi funerea conferenza stampa il suo ritiro dall’attività agonistica, Pat Croce gli disse più o meno così: la vita di un ex sportivo è un vortice, tu puoi solo provare a ruotare in senso orario. Il significato di quelle parole si manifestò a Nick in tutta la sua crudezza solo qualche mese più tardi.
Il punto principale nella vita di un ex sportivo all’alba del suo ritiro è che tutto d’un colpo non si sa più cosa cazzo fare durante la giornata. La routine coniugale, i figli, le spese al supermercato, le visite ai parenti – le cose della vita normale insomma – che prima facevano da corollario all’estasi di una vita sportiva condotta ai massimi livelli, improvvisamente vengono elevate a unica fonte di piaceri e dispiaceri. E non bastano. Dio, se non bastano. Nick si ricorda delle prime serate in compagnia di Bobby Green, guardia dei sixers entrata in squadra appena un anno dopo di lui. Giusto un paio di birre e un poker innocente, si erano detti. Poi presero a frequentare l’Oasis, uno strip club verso l’aeroporto, e diventarono amici intimi di un paio di spogliarelliste, che poi diventarono parte integrante del poker innocente. E inutile dire che Alexis, la moglie di Nick, scoprì presto le scappatelle del marito, e non era per nulla d’accordo. Ma tanto le scappatelle presto non bastarono più, e Nick aveva ben altre preoccupazioni di una moglie che ti sbraita addosso appena ti vede: Nick non riusciva a trovare una ragione al perché la sua vita fosse diventata piatta, piatta come un match di regular season dove non ne imbrocchi una e ti limiti al compitino. Almeno finché Bobby non gli presentò un ometto occhialuto che si faceva chiamare America. Bobby, lo sai che io molto raramente tratto con i singoli consumatori... Lo so Chad, ma garantisco io per lui. E poi non lo conosci Cuoregrande? E chi non lo conosceva Nick Cuoregrande Siradakis!
Non appena si abituò a far uso di crack – e ci volle veramente poco – Nick realizzò che solo così riusciva a ritornare con la mente e con il corpo a quella serata di Atlanta: ogni volta era un nuovo pallone da buttare dentro. Ed ogni volta era un’esplosione di gioia che si rinnovava, quando il canestro si concretizzava nella maniera più spettacolare. Nick consumava crack a dosi sempre più massicce, ma aveva la lucidità per realizzare che il vortice di cui l’aveva avvertito Pat lo stava travolgendo in pieno, e lui, non solo non si stava aggrappando a niente, ma lo stava anche assecondando, in un moto solidale verso il collasso. Tutto, in men che non si dica, andò in malora: il matrimonio con Alexis, il conto in banca, i rapporti con i più cari... Nick, hai visto che ti faccio toccare la felicità con un dito? Sì Chad, ma la mia vita è un vortice, avrebbe voluto dirgli. La vita è un vortice e io sto finendo dritto dritto nel tubo di scarico. Ma non riusciva a smettere.
– E lo sai per quale altro motivo mi chiamano America, Nick?
Nick è esausto, vuole che Chad gli venda una dose, se trova sufficienti i pochi spiccioli che ha, o che si tolga dai piedi, lasciandolo marcire sotto quel dannato portico. Ma Chad, in fondo, gli sta simpatico, e non vuole certo dargli proprio ora, dopo anni di pacifico rapporto, motivo di irritamento. Fa uno sforzo e si stringe in una smorfia colma di contegno.
– Uhm...
– Perché proprio come il nostro beneamato Paese, quando i miei figli sono nel più tetro baratro, non esito a tender loro una mano. La mano della misericordia.
Chad si lascia andare in un ghigno soddisfatto. Nick lo nota e non sa come interpretarlo: è segno che mi vuole aiutare oppure mi sta per fare fuori? Non fa in tempo a completare il ragionamento che sente un ago traffigergli l’avambraccio. Tempo pochi secondi e crolla riverso al suolo.
Nick apre gli occhi, che stranamente sono meno pesanti del solito. Anzi, si sente proprio benone. Perlustra sommariamente l’area circostante con lo sguardo: è già notte ed è nel solito posto. Ma Chad dov’è? Rialzandosi, nota sui gradini una scatola di medicine già aperta: bromocriptina in fialette. Non sa che diavoleria sia, ma se è la cosa che Chad gli ha iniettato in corpo, deve decisamente procurarsene un po’, si ripromette. Fa due passi e accenna un turnaround come ai bei tempi, e nel fare ciò da una tasca della felpa bisunta gli cadono due cose: una banconota da cento e un biglietto scritto a mano. Dall’alto riesce solo a scorgere la firma, in un corsivo un po’ infantile: America. Afferra e legge il biglietto: un’espressione di incredulità mista a inopinato ottimismo si dipinge sul suo volto.