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È cosa eccellente possedere la forza di un gigante, ma usarla da gigante è tirannia! (William Shakespeare)
Il gigante è il decimo ed ultimo tema di questa quarta edizione di UniVersi. C'è tempo fino al 15 Settembre 2013 (compreso) per postare i propri elaborati. Ricordo che è ammesso un solo racconto per autore. Se al 15 Settembre non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine ultimo sarà prorogato al 30 Settembre. Se al 30 Settembre non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine definitivo e improrogabile sarà portato al 15 Ottobre. I racconti vanno postati in forma anonima (gli autori saranno svelati a fine concorso, dopo le votazioni) effettuando il login con l'account "Titivillus", password "universi". Ricordatevi di controllare il numero di caratteri prima di postare. I racconti che supereranno i 12000 caratteri (spazi compresi) saranno considerati fuori concorso (il titolo non conta). NB: per ragioni ancora da chiarire, probabilmente dovuti alla formattazione di caratteri speciali e di punteggiatura, il conteggio dei caratteri differisce di poco a seconda di dove viene effettuato. A tale scopo fa fede il conteggio effettuato sui racconti una volta postati in questo thread. NON dalla schermata di scrittura in "crea/modifica messaggio" e NON direttamente da Word prima di averlo copiato qui. Ricordatevi anche di postare un sottotitolo per la vostra opera. Siamo finalmente arrivati alla fine di questa quarta edizione di UniVersi! È giunta l'ora di sfoderare il vostro meglio! Da voi chiediamo nulla di meno che un racconto da... giganti! REGOLAMENTO COMPLETO RACCONTI IN GARA
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"Le Poète est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l'archer; Exilé sur le sol au milieu des huées, Ses ailes de géant l'empêchent de marcher."
Ultima modifica: 01/10/2013 14:06 Da Tavajigen.
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La piccola storia di un uomo qualunque
La pioggia si precipitava a terra con un’intensità che Gulver non ricordava più possibile. Dalla sua poltrona davanti al caminetto all’uomo sembrava di percepire il crepitio della terra in giardino, quasi l’aria lacerarsi sibilando sotto la forza del temporale. La villetta era isolata dal mondo, smarrita nel buio serale che la pioggia rendeva del tutto impenetrabile. Gulver riposava allungato sulla poltrona, gli occhi stancamente fissi sulla finestra a godere del tepore mentre fuori la tempesta infuriava. Una serie di rumori lo fece riscuotere bruscamente. Era come se qualcuno avesse bussato ripetutamente, ma non poteva esserne certo nell’ululato della tempesta. Si alzò e guardò fuori dallo spioncino: nessuno. Stava già tornando a sedere quando sentì, questa volta distintamente, una scarica di colpi; tornò stizzito alla porta, chiedendosi chi fosse l’imbecille che con una pioggia del genere si divertisse a fare scherzi così stupidi. Ancora nessuno dallo spioncino, ma questa volta aprì la porta, deciso a dirne quattro a quei ragazzini. Mai nella sua vita aveva provato uno stupore del genere; mai, è certo, l’avrebbe più provato. Sette piccole figure irruppero vociando nella casa: per l’esattezza i sette nanetti di coccio che erano nel suo giardino. Entrarono camminando ciascuno sulle proprie gambe, tozze e troppo corte, orfane del piedistallo, borbottando e si lamentandosi. La visione era ridicola e insieme terrificante; l’ultimo chiuse la porta, e tutti assieme si avviarono verso il salotto. “Beh, che non usa più portare un asciugamano e qualcosa di caldo a chi sia stato giusto qualche ora sotto il diluvio universale?”. Gulver si diresse rapidamente verso il bagno a cercare degli asciugamani. Generalmente non si sarebbe lasciato dare degli ordini in casa propria, ma quando a parlare è il Brontolo che fino a pochi istanti prima si credeva relegato nell’angolo del cortile è difficile opporsi. Tornò dopo pochi minuti con qualche asciugamano, una teiera colma d’acqua bollente con dentro un filtro e sette tappi di vecchie bottiglie di plastica da usare come tazze. Durante quel breve lasso di tempo aveva riflettuto, per quanto la sua mente glielo aveva permesso; era stato tutto parecchio vivido per essere un sogno, e del resto quando sognava e se ne rendeva conto era capace di decidere di svegliarsi. In questa situazione aveva provato un paio di volte senza successo, decidendo infine che la cosa giusta da fare fosse assecondare il sogno, o delirio, o qualunque cosa fosse. Uscendo dalla cucina notò con sollievo che il tratto dalla porta al salotto era pulito dal fango e non c’era traccia dei nanetti; andò davvero vicino a rovesciare il tè quando vide Cucciolo in piedi sulle spalle di Mammolo, il moccio in mano a pulire allegramente per terra. “Deve scusare Brontolo, è sempre così scortese!” chiosò Dotto corrucciato, lo sguardo verso il suo compagno. “La prego, si sieda. Dobbiamo parlarle” riprese, indicando all’ormai pallido Gulver la sua poltrona; questi vi si afflosciò sopra. “Ma… Ma è un sogno, vero?” disse, scorrendo lo sguardo stralunato sui sette nanetti che si asciugavano e bevevano a sorsi lunghi e rumorosi il tè bollente sul tappeto ai suoi piedi; Eolo starnutì rovinosamente, ribaltando il ficus distante una buona manciata di metri da lui. “Temo di no, amico mio” fece Dotto. Tutti i nani alzarono gli occhietti neri su Gulver, e lui poté ammirare i loro visi, il coccio deformato da un infantile interesse in maschere grottesche, i cappelli colorati buttati sulla trequarti, le mani callose nei grembi abbondanti. Quelle figure grezze e sgraziate erano i suoi nanetti da giardino, erano appena piombati a casa sua e stavano seduti a gambe incrociate o inginocchiati sul tappeto buono del salotto, giusto davanti al camino, sorseggiando il loro tè e asciugandosi dalla pioggia. “Posso… posso chiedere cosa ci fate voi qui? E anche… beh, chi siete? O che cosa siete?” “E’ una storia lunga”. Sembrava Dotto fosse la sua guida. “Vedi, la vicenda si perde nella notte dei tempi. Storia vuole che una manciata di millenni fa alcuni villaggi abbiano fatto infuriare una strega –evidentemente piuttosto lunatica-, e che questa abbia lanciato una maledizione su tutti i loro abitanti. Pare che questa strega fosse particolarmente fantasiosa, e li trasformò tutti in piccole figure di argilla dalle fattezze umane, uguali a gruppi di sette. Fatto ciò li disperse nel mondo, condannati a vivere in quella forma per sette volte settantasette anni”. “E ad allietare i cortili dei buzzurri” intervenne Brontolo, sarcastico. “Ma scusate… Io credevo che se li fossero inventati i fratelli Grinn…” “Non nominarli!” tuonò Brontolo. “Infami traditori dei loro stessi fratelli, subdoli allucinati, mentecatti…” “Buono, Brontolo! Vedi, erano dei nostri. Non del nostro gruppo, ma ci sono passati anche loro. E il loro modo per salutarci è stato includerci in una fiaba…” “Una stupidissima storiella per bambini imbecilli, dove fa passare la più nobile delle razze per una manica di sbevazzatori, taciturni, meschini e rivoltanti, arrapati…” “E potrebbero essersi ispirati a te, non fosse per il taciturni!” sbottò Dotto. “Ma scusate, e Biancaneve…?” chiese Gulver dopo una breve esitazione, questa volta con un brillio di speranza negli occhi “Ma non puoi essere così stupido, per la miseria! Biancaneve non è che un’invenzione!” esclamò Brontolo. Vedendo il volto stizzito dei suoi compagni si affrettò a continuare: “Coraggio, chi potrebbe credere che la statuetta di Biancaneve sia in realtà una splendida donna intrappolata da chissà quale diavoleria?” concluse, causando un mormorio di approvazione nel convitto. “Vedi –riprese Dotto-, ogni settantasette anni è dato ai nani di prendere vita per qualche minuto, poco più del tempo necessario per raccontare la storia. Per il resto non possiamo che aspettare di essere liberati dall’incantesimo; solo il tempo può permetterlo. Ci vogliono sette volte settantasette anni perchè l’incantesimo ci abbandoni, permettendoci di riprendere sembianze umane. “I sette nani esistono da millenni. Si narra che nei giardini pensili babilonesi già trovassero il loro posto i nostri antenati, e reperti simili sono stati trovati nelle Americhe e persino in Cina. Ogni popolo dava loro le proprie fattezze, quindi quelli che erano buon auspicio per i cinesi ad esempio avevano tratti somatici e divise militari tipicamente orientali. La gloriosa razza dei nani è stata introdotta nei racconti di fantasia da qualcuno che probabilmente nano era stato, cosicché il mondo ha iniziato a provare per noi una certa simpatia. Da qualche anno poi la moda è diventata di farci in formato cartoon, la forma in cui il tuo nipotino -se non vado errato- ha ritenuto di donarci a te”. Un tonfo: Cucciolo, a quanto pareva, era caduto dal moccio su cui aveva provato a fare il giocoliere, provocandosi un’occhiata feroce dagli altri sei nani. “Noi maledetti assumiamo le caratteristiche che ha il nostro personaggio; ecco ad esempio perchè Cucciolo è un pasticcione, e Brontolo così scortese” (“E tu saccente”, sillabò Brontolo con gli occhi al cielo). “Ma scusatemi, una cosa non mi è chiara. Si rimane intrappolati per sette volte settantasette anni, avete detto? Ma allora come è possibile che esistano ancora i nani? Intendo, dopo circa 500 anni dovrebbero tornare tutti umani”. “Oh, è che non ci trasformiamo tutti contemporaneamente, ci sono dei turni: ogni settantasette anni uno di noi viene liberato”, spiegò Dotto con un cenno vago della mano, guardandosi le punte delle scarpe e quasi parlando a se stesso. Un pendolo iniziò, nella stanza vicina, a rintoccare la mezzanotte “Comunque l’incantesimo dovrebbe esaurirsi dopo un po’ di tempo”, riprese l’uomo. “Non hai ancora capito?” fece Brontolo guardando Gulver da sotto in su, enigmatico. “Pisolo?” aggiunse perfido poco dopo, facendo cadere questa singola parola –così ridicola- con un peso che schiacciò l’intera villetta, facendo mancare al cuore di Gulver un battito. Un lampo verde -persino banale, un effetto speciale di seconda categoria- e nessuno avrebbe potuto dire che qualcosa fosse cambiato. La sola cosa che avrebbe colpito un osservatore sarebbero stati un nanetto di coccio poggiato sulla poltrona, e gli altri sei disposti a semicerchio sul tappeto, i volti buffi irrigiditi nelle smorfie che il loro creatore aveva per sempre impresso loro; in mezzo a questi Gulver, accosciato, intento a rimirare le sue stesse mani e con un tappo di plastica vuoto poggiato sulle ginocchia. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Solo
La grande luce bianca del ciclo del sonno si staglia alta sulla montagna, illuminando le rocce e i canaloni. Tu-fik del popolo dei Piymik, i Cantori, la osserva. Sul grande volto nessun uomo potrebbe mai leggere nulla, un viso pietroso, allungato, i lineamenti duri, una cresta ossea che domina la fronte, o quella che noi chiameremmo tale. In realtà Tu-fik è attraversato da emozioni roventi, da un'energia lenta eppure fortissima. Tu-fik è braccato. Sente l'odore degli inseguitori sempre più forte, segno che si stanno avvicinando. Ha capito dove lo stanno spingendo, verso un luogo dal quale non potrà continuare a scappare, un luogo dove, per lui, esisterà solo la fine. Tu-fik ha dentro di sé la storia del suo popolo, i Piymik, la conosce tutta perché freddo dopo freddo, caldo dopo caldo, ha imparato tutti i Canti, il modo che ha la sua gente per comunicare e raccontare. Ricorda la prima volta in cui hanno incontrato gli Ym, gli Altri. Ak-fik, il primo Cantore del suo tempo, moltissime dita di freddi fa, fu il primo a imbattersi in quello strano popolo privo di un vello proprio, ma sempre coperto con le pelli staccate degli altri esseri. Rimase impressionato dalla loro fragilità, dalle dimensioni ridotte dei loro corpi, ancora più minuti di un Piccolo dei Piymik quando viene alla luce. Eppure non si poteva non vedere una parentela tra i due popoli, poiché anche gli Ym, seppure con una voce sgraziata, avevano dei Canti anche se tra di loro comunicavano anche in altri modi. Un Canto può avere lunghezze diverse, ma per poter raccontare tutta la storia che racchiude, deve avere una lunghezza adeguata. Ci sono Canti che durano da quando la luce gialla del ciclo della veglia esce nel mondo fino a quando raggiunge il punto più alto in cielo, ce ne sono altri che durano fino a una mano intera di alternanze tra luce gialla e luce bianca. Cantare la vita di un Piymik, può durare anche tre alternanze, la vita di un Ym forse non più di quattro battiti di mano. Gli Ym hanno cominciato a cacciare e a uccidere i Piymik pochi freddi dopo il loro primo incontro. Come tutti gli esseri della montagna i grandi Cantori rallentano il loro essere durante l'inverno, alcuni nelle Grotte, altri sulla montagna. Spesso è proprio durante i freddi che nei loro cuori nascono i Canti, quelli che verranno portati di Grotta in Grotta e fatti ascoltare durante i caldi. Tu-fik è un grande Cantore, il più grande del suo ciclo. Ha camminato su tutte le montagne, ha raggiunto tutte le Grotte e ha condiviso i suoi Canti, ricevendone di nuovi e imparandoli per poi Cantarli in ogni angolo di Vyr, il mondo. Fin dal tempo in cui era ancora nella Grotta in cui è stato Piccolo, assieme alle Madri della sua gente, ha fatto capire che la sua voce era adatta per diventare quello che è diventato, mutata già in una fase del ciclo vitale in cui, normalmente, nessun Piymik è in grado di esprimersi. Ha ricevuto il suo vero nome molto prima degli altri. Solo un altro Piccolo, un Piccolo Madre per l'esattezza, è stato così precoce. Y-fir, sua compagna di Grotta, e Madre di bellezza sconvolgente. Tu-fik ha vagato a lungo, Grotta dopo Grotta, cacciando e portando essere bruni ed esseri grigi al suo popolo ovunque si sia recato. I Cantori sono tutti Cacciatori, mentre le Madri difendono le Grotte dagli altri esseri e strappano alla terra i frutti migliori per nutrire i Piccoli. Col tempo, a causa degli Ym, le Madri hanno dovute scegliere Grotte sempre più in alto, addirittura oltre gli ultimi esseri albero, in terre dove non cresceva nulla per nutrire nessuno. I Piymik sono diventati sempre di meno, già popolo poco numeroso poiché ogni Madre non può generare più di due Piccoli lungo il proprio ciclo vitale, e alcuni, imperfetti, muoiono in pochi freddi. Più in alto sono le Grotte, più è facile che i Piccoli si ammalino del calore del corpo, che quasi sempre li uccide. Le Grotte adatte sono poche, solo quelle dove dalla terra arrivano le acque calde, quelle con l'odore intenso che punge i buchi del viso che ascoltano gli odori. Quando una Madre è pronta per generare, circa tre freddi dopo il Congiungimento con un Cantore, si immerge in solitudine nell'acqua calda e dopo tre alternanze luce gialla, luce bianca, il Piccolo nasce. Tu-fik ricorda di quando ha assistito all'evento, della gioia condivisa da tutta la Grotta, dai Canti di gioia e benvenuto intrecciati dalle Madri, eseguiti con le loro voci appena più squillanti di quelle dei grandi Cantori. Uno dei Canti che ha composto lui stesso, narra di una nascita avvenuta in presenza di due Cantori, uno dei quali lui stesso, e di come le loro voci siano andate a intrecciarsi con quelle delle Madri, creando il più grande e bel Canto degli ultimi cicli. E' una storia che ha cantato in lungo e in largo, destando meraviglia e stupore in ogni Grotta, in ogni Cantore e in ogni Madre. L'altro Canto che ha portato ovunque è invece un avvertimento che ha destato l'orrore in ogni Piymik, è quello che racconta come gli Ym uccidano i Piccoli. I Piymik non uccidono mai i Piccoli, ritenendoli sacri alle due luci del cielo, i loro Dei, e nemmeno uccidono i Piccoli degli altri esseri, anche quelli che cacciano. Non sanno come sia possibile che un popolo che Canta, seppure con voci sgradevoli e poco musicali come quelle degli Ym, possa compiere un'azione simile. Un Piymik non uccide un altro Piymik, Piccolo, Madre o Cantore che sia. A volte ci sono dei combattimenti tra di loro, ma solo perché talvolta qualcuno del loro popolo viene colto dal riscaldamento del corpo e non riesce più a ricordare nessun Canto, diventando perciò aggressivo. I Piymik ritengono preziosa la vita, e quando uccidono un essere per nutrirsi, lo ringraziano, e ne seppelliscono i resti immangiabili sotto la luce del sole, cantando per esso. Tu-fik pensa ora a Y-fir, al loro Congiungimento. Normalmente tra quelli che sono stati Piccoli nella stessa Grotta questo non accade, ma quando è giunto il loro momento non c'erano altri Piymik raggiungibili, e loro non desideravano altro che Congiungersi. Ricorda ancora come abbiano intrecciato i loro Canti, per due alternanze, di come abbiano stretto i loro corpi nell'abbraccio, e il piacere che hanno tratto dal corpo dell'altro, durato cinque alternanze. Ricorda il vello simile al colore della luce gialla di Y-fir, così diverso dal suo, più simile a quello degli esseri bruni della montagna, i più grandi dopo i Piymik. Canta della nascita del loro Piccolo, di come abbiano vissuto nella stessa Grotta a differenza delle usanze del loro popolo, non potendo condividere i Canti se non tra di loro. Uno strano calore lo invade quando Canta la sua spedizione in cerca di cibo, quella che l'ha portato lontano dalla Grotta per due mani piene di alternanze e di come, tornato, abbia prima odorato e poi visto come Y-fir e il Piccolo fossero stati uccisi. La testa del Piccolo, con l'abbozzo della cresta ossea e quella di Y-fir lasciate impalate, mentre i loro corpi fatti a pezzi e mezzo mangiati dagli Ym. Sì perché quel popolo minuto ha iniziato a uccidere i Piymik per mangiarli, particolarmente interessati all'organo del petto che spinge nel corpo il liquido vitale, e a quello del fianco destro. Tu-fik non sa come sia possibile che un popolo che Canta possa mangiare altri Cantori, non lo concepisce. I Piymik non uccidono mai i popoli che Cantano, nemmeno gli esseri volanti, perchè sanno che essi hanno una forma di Canto. Sa solo che quando è tornato alla Grotta, ha trovato il corpo della Madre e del Piccolo profanati. Ha sentito l'odore di sangue di almeno quattro mani piene di Ym, Y-fir è sempre stata forte, un'ottima combattente e pur difendendo il Piccolo, ha saputo uccidere molti nemici, ma alla fine il numero deve essere stato troppo grande per lei. Gli Ym cacciano in gruppo, come gli esseri grigi dal corpo allungato, ma sono molto più crudeli, sebbene deboli. Hanno però delle lunghe aste con dei pezzi di roccia in cima che aprono ferite persino nella dura pelle di un Piymik, che lacerano le braccia e i fili dietro le gambe. Un Cantore combatte sempre e solo col suo corpo e solo i bruni, talvolta, riescono a ferirli seriamente, mai ad ucciderli. Tu-fik sente che la luce gialla sta per arrivare in cielo, sente che tra non molto gli Ym arriveranno e forse il suo ciclo vitale finirà. Ha deciso di portarli in un posto dove sarà leggermente in vantaggio anche se non potrà fuggire. Gli Ym hanno insegnato il concetto di vendetta ai Piymik, popolo che non ne aveva mai avuto bisogno, essendo gli esseri più grandi della montagna e forse dell'intero Vyr, il Mondo. Pensa ancora a Y-fir, al loro Piccolo, alle loro teste piantate sulle lunghe aste. Ricorda di come dopo la loro morte e averli seppelliti Cantando per loro, abbia cercato altre Grotte del suo popolo, senza trovarle. Gli Ym hanno cancellato i Piymik dal mondo, li hanno uccisi mangiando parti del loro corpo, senza nemmeno dedicare loro un Canto di ringraziamento. Tu-fik è sceso in basso, sotto il livello dei grandi boschi, rallentato dal calore, ma ha avuto modo di vedere dove vivono gli Ym, anche loro in Grotte, molto ridotte nelle dimensioni, Grotte puzzolenti di cadavere, visto che loro non mangiano le pelli degli animali ma le usano per coprire i corpi minuti e sgraziati. Ha visto i loro Piccoli, esseri poco più grandi o a volte ancora meno grandi dell'essere con le orecchie lunghe, quello con le gambe dietro più forti di quelle davanti. Li ha cercati per ucciderli ma ha provato pena per quel popolo di mezzi Cantori. E poi i Piccoli non si uccidono, nemmeno come vendetta. Ricorda e Canta che quando gli Ym lo hanno avvistato sono fuggiti poiché le loro Madri sono deboli e non combattono e in quel momento i loro Cantori erano tutti a caccia, probabilmente di Piymik. Ha deciso di tornare in alto verso il suo ambiente naturale, ben presto notato dai cacciatori e inseguito. E' così che è arrivato alla luce gialla che ora sta nascendo, l'ultima ora ne è certo, del suo ciclo vitale. Oggi morirà, portandosi dietro un po' di quegli esseri minuti. Nella sua cultura non esiste il concetto di ultimo, i Piymik sono un popolo che condivide tutto, dal cibo ai Canti, alla cura dei Piccoli, ma esiste una parola terribile e orribile, cantata solo nei Canti più oscuri e disperati, quelli che raccontano della malattia del calore del corpo quando colpisce un'intera Grotta, o delle valanghe peggiori. Il termine è ghuk, solo, termine che indica i sopravvissuti alle disgrazie. Tu-fik sente arrivare gli Ym dall'odore, e si prepara a combatterli, iniziando a cantare l'ultimo Canto, quello che racconta la sua vita. Quando li vede non sa se siano in numero sufficiente per ucciderlo: sono tanti quanti una piccola foresta, ma lui è il più forte di tutti i Piymik, perché è quello che ne conosce tutti i Canti e quindi tutto il suo popolo è con lui. Gli esseri lo attaccano in gruppo, lo colpiscono da lontano con delle aste corte e da vicino con quelle lunghe, cercando di posizionarsi nei punti più alti della conca in cui li ha attesi. Tu-fik potrebbe forse sconfiggerli e infatti li uccide quasi tutti. Loro urlano senza Cantare, con le loro pessime voci e Tu-fik prova tristezza nei loro confronti. Ma sa anche una cosa: non vuole essere ghuk. Alla fine dell'ultimo Canto, eseguito più velocemente del normale per poterlo Cantare tutto, si lascia colpire alla gola, appoggiandosi con tutto il peso sull'asta del nemico e il buio s'abbatte su di lui. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
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"Neanche gli Dei possono nulla contro la stupidità umana." Friedrich Schiller (1759-1805)
Nel tardo pomeriggio di quel giorno di inizio settembre, Paul si fermò davanti al Gigante. Mentre lo osservava in tutta la sua imponenza, gli passarono per la mente come un film le scalate e arrampicate che, per hobby o per lavoro, aveva affrontato e superato nei suoi trentadue anni di vita. Questa volta sarebbe stato diverso, questa volta aveva il Gigante di fronte a sé. Si avvicinò alla base del fusto e guardò in alto, cercando il bersaglio giusto; con la sua balestra sparò quindi il sacchetto da 300 grammi, legato all'estremità di una cordicella, sperando di aver mirato bene. Il peso passò sopra il robusto ramo scelto a circa dieci metri di altezza e ricadde dall'altra parte, tornando a terra e fornendo così a Paul il punto di passaggio per la corda vera e propria che avrebbe usato per arrampicarsi. Dopo aver legato la fune alla cordicella tirò quest'ultima per qualche istante, in modo da far passare la corda sopra il ramo e da farne ridiscendere una parte dall'altro lato; ne fissò poi un'estremità ad una grossa radice che spuntava dal terreno e cominciò ad arrampicarsi usando l'altra cima. Ancora non credeva a quello che era successo nei giorni precedenti: con una delibera approvata in gran silenzio, il consiglio comunale della sua piccola città a ridosso della Sierra Nevada aveva approvato la costruzione di un nuovo centro commerciale, per "aumentare il flusso di visitatori provenienti dalle città vicine", come recitava esattamente il testo della delibera. In un mondo sempre più globalizzato, un grande centro commerciale avrebbe dato un'enorme spinta all'economia cittadina e il sindaco non avrebbe mai potuto perdere questa occasione, soprattutto dopo essere stato unto al punto giusto dai costruttori del mega-store con una corposa mazzetta. Il problema era nato quando avevano stabilito il sito di costruzione: un vecchio e dismesso parco alla periferia della città, proprio il luogo dove il Gigante vegliava da sempre. Giunto sul ramo, Paul cercò con lo sguardo una nuova destinazione e con pazienza ripeté l'intero procedimento fatto poco prima; approfittando della pausa per riposare i muscoli delle braccia, tormentati dall'arrampicata sulla corda. Paul era nato e cresciuto in quella zona e il Gigante, per lui e per tutti, era sempre stato una sorta di istituzione, un padre che li controllava dall'alto: una Sequoiadendron Giganteum, o volgarmente una sequoia gigante, di età indefinita (esisteva già ai tempi degli indiani Maidu), che aveva costituito per quasi un secolo una delle principali attrazioni turistiche della città; per poi essere presto abbandonata dopo che un fulmine ne aveva disgraziatamente spezzato la cima, riducendone l'altezza da ottantatré metri a circa sessanta e rendendola perfino più bassa di alcuni edifici vicini. A quasi venti metri di altezza la chioma della sequoia cominciava a dare fastidio: i rami e il fogliame erano numerosi e salire con il metodo adottato fino a quel momento diventò impossibile. Paul decise quindi di armarsi di una bella dose di coraggio e cominciò ad inerpicarsi di fronda in fronda, usando mani e piedi. Ogni volta che poteva si ancorava con dei chiodi da scalata, legandoli con una corda alla cintura che aveva in vita, ma se avesse perso l'appiglio probabilmente nessuno di quei rami avrebbe potuto sorreggere il suo peso. Fin da bambino Paul era sempre stato un ambientalista convinto ed era riuscito a trasformare con gioia questa sua passione in un vero e proprio lavoro; un lavoro che lo portava spesso in giro per il mondo e che raramente gli permetteva di rivedere casa. Questa volta però era tornato di corsa appena gli avevano comunicato la notizia, dato che l'aveva presa subito come una sfida personale: non potevano abbattere il Gigante, non potevano farlo proprio a quell'albero e a cosa rappresentava per lui e per molti altri suoi concittadini. L'indomani sarebbe arrivata la squadra di boscaioli specializzati nel taglio di grandi alberi, ma avrebbero trovato una sorpresa: Paul accampato su un ramo, fermamente convinto a non scendere finché il consiglio comunale non avrebbe accettato di valutare un altro sito di costruzione per il centro commerciale. Dopo aver scostato una fronda di foglie particolarmente folta, Paul vide finalmente la sua possibile destinazione: circa cinque metri più in alto si originava, pressoché orizzontalmente dal tronco, un grosso ramo di un metro di diametro. Valutò che avrebbe sia sostenuto il suo peso sia fornito un valido giaciglio per la notte. Paul arrancò per gli ultimi metri di scalata, fermandosi sempre più spesso per riprendere fiato e per asciugarsi con la manica il sudore dalla fronte e dagli occhi. Finalmente sentì la dura corteccia del ramo sotto le sue dita; con fatica si tirò sempre più su, fino a rotolarcisi sopra ansante. Restò dieci minuti così disteso, a rallentare la respirazione e il battito cardiaco. Quando si mise a sedere rimase estasiato da ciò che vide di fronte a sé e si fermò ad immaginare come doveva essere stato il panorama ai tempi degli indiani, con tutta la valle che si apriva per chilometri e chilometri, senza la fastidiosa presenza della città e degli alti edifici. E non sono neanche a metà del Gigante! pensò affascinato. La vista del sole al tramonto lo spinse a scuotersi da quella visione; aprì lo zaino e si apprestò a preparare il suo giaciglio per la notte. Prima di tutto piantò sei paletti sui bordi del ramo, tre per lato a circa mezzo metro di distanza l'uno dall'altro, unendoli fra loro con alcuni nastri di stoffa ben tirati; pensava o meglio sperava che fossero sufficienti a bloccarlo se si fosse mosso nel sonno, evitandogli un volo di quasi trenta metri. Dopo una breve cena a base di panini, distese il sacco a pelo e ci si infilò dentro, usando lo zaino come cuscino. Si crogiolò nel tepore del sacco, mentre cresceva il fresco della sera. Era stanco morto, non credeva che la scalata potesse essere così faticosa, molto più dura di tante sue esperienze passate; o forse più semplicemente non era più l'aitante avventuriero di una volta, si ritrovò a pensare con amarezza. La mente di Paul viaggiava tra queste riflessioni, cullandosi con il fruscio delle foglie nella brezza, scivolando sempre più nella dolce fase di dormiveglia che precede il sonno... Ad un tratto giunse però qualcosa di diverso, di straniero. Un tarlo mentale nato dal nulla, che si insinuò sempre più a fondo, che pretese spazio. Paul aprì gli occhi, aggrottando la fronte. "Ma cosa diavolo..." CHI SEI? La voce risuonò profonda e violenta, ma la cosa terribile fu la sua origine: veniva da dentro di lui. Era categorica, senza via d'uscita, con una specie di eco che rimbombò in tutto il suo cervello. CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI? Paul saltò in aria dal dolore, con le mani sulle orecchie, gridando a squarciagola e rischiando di finire fuori dal ramo: i paletti sul lato destro ressero a fatica. La domanda era incessante, ripetuta ogni secondo; capì che sarebbe impazzito se non avesse fatto qualcosa. "Basta! Ti prego, smettila! Mi stai uccidendo!" esclamò nel silenzio intorno a lui e nel frastuono dentro la sua testa. CHI SEI? "S-sono Paul Johnson, nato in questa città, la mia casa è a circa duecento metri da qui." rispose a fatica e con la sensazione che sarebbe bastato solo pensare le parole, senza pronunciarle ad alta voce. Silenzio, fuori e dentro. La risposta sembrava aver calmato quella voce incessante. Paul trattenne il respiro. COSA FAI IN QUESTO LUOGO? La nuova domanda fu in qualche strano modo meno violenta: non trasmetteva più feroce rabbia come la prima, si rese conto Paul, ma portava con sé curiosità; era come se solleticasse il suo cervello, invece di trafiggerlo con una lama incandescente come aveva fatto in precedenza. Paul si chiese se stesse sognando, ma il dolore che aveva sentito era troppo reale; decise quindi di assecondare la situazione. "Sono salito su questa sequoia per evitare che venga abbattuta. Ma...tu chi sei? Cosa fai dentro la mia testa?" si rese subito conto di avere rivolto le stesse identiche domande a cui, volente o nolente, aveva appena risposto. IL MIO NOME NON PUO' ESSERE PRONUNCIATO NELLE LINGUE CHE HO TROVATO NELLA TUA MENTE. QUESTO E' IL LUOGO DOVE RISIEDO DA QUANDO IO E I MIEI FRATELLI ABBIAMO LASCIATO LA NOSTRA CREAZIONE AI SUOI ESSERI VIVENTI, DA QUANDO TUTTI NOI CI SIAMO RITIRATI NELL'ETERNA VIA DELLA CONOSCENZA. Paul rimuginò qualche secondo su quelle parole, poi fece la domanda che gli sembrava più urgente: "Come fai a parlare nella mia testa? Sei uno spirito?" NOI POSSIAMO ENTRARE NELLA MENTE DI OGNI ESSERE VIVENTE, PERCHE' SIETE TUTTI FIGLI DELLA NOSTRA CREAZIONE. Un dubbio assalì Paul: "Sei dentro l'albero? Sei l'albero?" HAI GIA' POSTO QUESTA DOMANDA, QUESTO VIVENTE E' IL LUOGO DOVE RISIEDO IN FORMA FISICA. LA MIA ESSENZA VITALE VAGA NELLO SPAZIO E NEL TEMPO, SONO TORNATO IN QUESTO LUOGO PERCHE' HO AVVERTITO LA TUA PRESENZA, PAUL JOHNSON. "Mi...mi dispiace di averti disturbato, però domani la tua forma fisica verrà abbattuta; sto cercando di impedirlo, ma non so se ci riuscirò." continuò Paul ancora incredulo, ma con l'impellente bisogno di giustificare in qualche modo la propria presenza in quel posto e in quel momento. HO VISTO TUTTO NEI TUOI PENSIERI. E' TEMPO CHE VADA A RIUNIRMI CON I MIEI FRATELLI PER DECIDERE IL FUTURO DELLA NOSTRA CREAZIONE, ORA CHE TU E I TUOI SIMILI NE AVETE PRESO POSSESSO. Paul non ebbe neanche tempo di pensare a come replicare, sentì che quella "cosa" lo aveva lasciato; la sua mente era tornata sgombra. Dopo qualche minuto si distese, continuando a riflettere sulla surreale conversazione appena avuta. Piano piano sopraggiunse il sonno... Il sole era ancora basso nel cielo quando arrivarono i boscaioli specializzati. Si avvicinarono al Gigante con le loro motoseghe professionali e con due particolari autogru, che servivano a tenere in posizione la sequoia mentre veniva sezionata in pezzi più piccoli partendo dall'alto. Il lavoro fu lungo e laborioso, giunse il tramonto mentre gli uomini erano impegnati a tagliare l'ultima parte dell'albero: la base. Paul era rimasto tutto il giorno a seguire i lavori, pensando e ripensando al brutto sogno che aveva avuto la notte precedente. Era sicuro che fosse stato un incubo, non poteva essere stato altrimenti, ma all'alba aveva comunque preso la decisione di scendere dalla sequoia e di lasciare che l'abbattessero; era rimasto troppo scosso dall'esperienza per fare diversamente. Udì stramazzare il tronco dell'albero con uno schianto e osservò i boscaioli festeggiare la fine del duro lavoro, ma il suo pensiero era altrove: ricordava ancora la lama incandescente nella sua mente, l'impossibilità di controllare il dolore, ma soprattutto la sensazione che la sua vita sarebbe potuta terminare da un momento all'altro, se solo quella "cosa" l'avesse voluto. Ora però il Gigante era stato abbattuto, ucciso, e forse in questo modo quell'entità non sarebbe più tornata, sia che fosse esistita veramente, sia che fosse stato solo un terribile parto della sua mente. Non poteva proprio immaginarsi che da quel momento in poi la stupidità non avrebbe più vinto. |
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La parabola del gigante
Philippe lavorava ormai da anni al Campo di sangue. Aveva rinvenuto una traccia in uno dei testi antichi ritrovati in Francia che raccontavano di uno scritto inedito di Gesù seppellito proprio nel luogo dell'impiccagione di Giuda. Nessuno poteva immaginare cosa potesse contenere quel testo ed era proprio per questo che Philippe finii per incuriosirsi al punto da dedicare tutta la propria vita a questa vera e propria missione. Poteva permetterselo. Per i primi 55 anni della propria vita aveva conseguito i propri titoli accademici in prestigiose università, aveva condotto al meglio le aziende di famiglia racimolando una discreta ricchezza. Il colpo l'aveva fatto vendendo tutta ad una multinazionale ritrovandosi così con poco più di 400 milioni di dollari da gestire. L'unica donna che aveva amato era scomparsa proprio durante le fasi di trattativa. Con lei non aveva potuto avere figli in virtù della sua sterilità. Fu anche questo episodio che lo convinse a svoltare del tutto. Tornò a suoi studi storici e si concentrò sempre di più sull'ambigua figura di Giuda Iscariota. Finché non rinvenne appunto quella traccia in un testo antico. Senza esitare partii per Gerusalemme. Non fu certo facile affrontare la burocrazia. Il luogo è uno di quelli più delicati della città ma, i soldi, riescono a convincere gli scettici a qualunque latitudine. A 68 anni, dopo 13 anni dalla prima pratica, Philippe riuscì finalmente ad esaudire il proprio sogno. Perse parecchio tempo in virtù di indicazioni molto approssimative ma sapeva che da qualche parte, in quel luogo, doveva esserci traccia di quel testo. Così, quel giorno, all'interno di una specie d'ampolla di ceramica era custodito un piccolo cofanetto di legno d'ebano che, a sua volta, aveva mantenuto pressoché intatto il papiro su cui era contenuto tale scritto. Era greco antico e non ci volle poi moltissimo tempo per tradurre in maniera acconcia il contenuto. Io, Gesù il Nazareno, ho incaricato Giuda di prelevare dalle casse alcuni denari per l'acquisto di quanto necessario a scrivere e poi l'ho incaricato di conservare questo scritto. A lui ho chiesto di mantenere il segreto così come a lui ho chiesto di nascondere il tutto in un luogo sicuro affinché venisse scoperto a tempo debito, quando l'umanità intera avrebbe potuto comprenderne il messaggio. Affinché si compisse quanto chiesto ho lui raccontato la parabola del gigante: c'era un tale che in cuor suo amava veramente tanto il Signore al punto che la voglia di raggiungerlo quanto prima prese il sopravvento su ogni cosa. Così cominciò a pregarlo giornalmente affinché lo facesse crescere. Il tale era convinto che aumentando la propria altezza, avrebbe potuto facilmente raggiungere il cielo ed incontrare così il Padre per adorarlo per il resto della vita. Il Signore, commosso di tanto Amore, cominciò ad esaudire le sue richieste. Il tale cresceva di giorno in giorno, diventando sempre più grande. Nel paese tutti pensarono ad uno strano maleficio e cominciarono a dubitare di lui. Qualcuno cominciò addirittura a dire che fosse figlio del Male e che avrebbe portato alla rovina l'intero paese. Quando raggiunse proporzioni inimmaginabili per un uomo, l'intero paese intimò di cacciarlo. Il tale era un uomo buono e decise di andarsene di sua spontanea volontà, senza creare ulteriori polemiche. Sapeva perfettamente che non avrebbe mai più potuto entrare da nessuna parte e che le sue dimensioni sarebbero state un ostacolo nei confronti degli altri. Nonostante ciò, l'amore per il Signore era così forte che non smise mai di pregarlo e continuò per tanti altri lunghissimi anni a crescere, sempre di più. Giunto al limite, il Padre gli apparve in sogno e gli chiese di smetterla di pregare per crescere. Comprendeva il suo desiderio figlio dell'assoluta dedizione ma tentò di far capire al tale che la fede era altro. L'amore incondizionato era necessario così come era altrettanto necessario che comprendesse che gli uomini hanno dei limiti e che non c'è devozione sufficiente a superarli. L'uomo rimase interdetto sul da farsi. Era davvero il Signore o era soltanto Satana che tentava di ostacolare il suo percorso? Combattuto e addolorato pregò lo stesso. Il Padre non poté far nulla, fece crescere ancora l'uomo che divenne però così grande e così alto da non avere più ossigeno da respirare a quell'altezza. Così, spirò. Lo stesso Giuda rimase interdetto e mi domandò: cosa vuoi dirmi con questo, Maestro? Giuda, in verità ti dico: accetta la proposta dei denari che t'hanno fatto i sacerdoti affinché si compino le scritture. Questa sera dirò davanti a tutti gli altri apostoli che c'è un traditore e imboccherò te. Quel boccone sarà la tua chiave per la salvezza eterna. Ma non pensare che sarà facile. Sarai perseguitato e addirittura odiato da intere generazioni. Per molti diventerai il simbolo del male assoluto. In verità ti dico, in nome del Padre, che loro sono soltanto tutti i giganti della mia parabola. Anche i più devoti non crederanno in te. Ma un giorno ritroveranno ciò che tu hai comprato per me. E quel giorno, quel boccone, farà di te il mio discepolo più fedele. Non solo. Farà di te colui che ha sacrificato non solo la propria vita ma la propria figura affinché il Figlio di Dio compisse il proprio destino. Quel giorno, queste parole, sono certo che vi cambieranno la vita. In attesa che la salvezza eterna raggiunga ognuno di voi. Così scrissi. Gesù il Nazareno. Si scatenarono dibattiti infiniti. Philippe venne accusato d'essersi inventato tutto nonostante le analisi fatte sul papiro dimostrassero che quella carta fosse davvero appartenuta al tempo di Gesù. S'era già ritirato in una sorta di vita monastica all'interno della sua tenuta francese. Troppe le richieste pervenutegli. Preferì non reagire limitandosi a raccontare come erano andati gli scavi e senza giudicare il ritrovamento. S'interrogò molto. Poco prima di morire tentò anche di rispondersi: forse, l'umanità, non era ancora pronta a cambiare il proprio punto di vista. |
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Solo tanto rumore
- "Papà, mi lacconti una stolia?" – La solita voce squillante di Leone, copriva il brusio provocato dalle voci degli altri genitori e bambini, all'uscita della scuola. La giornata era assolata e calda, di quelle che ti fanno star bene solamente quando stai fermo, mentre ti fanno imprecare per il sudore che provocano, non appena ti muovi. - "Sì, amore, che storia vuoi?" – La risposta doveva sempre iniziare con "sì"; poi, forse, si poteva negoziare. - "Quella dei cavalieli" – Sempre la stessa storia. In tutti i sensi. - "Amore, te ne racconto una un po' diversa oggi, ma ci sono comunque dei cavalieri, va bene?" – Il tono usato da Andrea era convincente, sapeva che Leone avrebbe risposto "sì", ma comunque restò in attesa della risposta, dando al figlio il tempo necessario per riflettere e capire se gli andava bene "una storia un pò diversa". Ancor prima di rispondere Leone prese la mano del suo papà, sempre disponibile mentre camminavamo fianco a fianco e poi, con voce un po' incerta, rispose affermativamente - "Sì, papà" -. Erano quelli i momenti che Andrea sentiva di più: le loro mani strette l'una nell'altra, la voce di suo figlio che lo chiama papà, la certezza di essere l'unico per lui e nello stesso tempo la ferma convinzione che era grazie al suo piccolo se lui riusciva a stare dove stava, a camminare come faceva ed a tenere la testa alta mentre affrontava la vita, sempre sul punto di cedere ma senza cedere mai. "Grazie, amore, per tutto questo"; pensò Andrea, non senza trattenere una lacrima. - "Allora, c'era una volta, tanto tempo fa, in una regno lontano, un cavaliere fortissimo, che si chiamava Anastasio. Era talmente forte che riusciva a vincere contro tutti gli altri cavalieri e, nel caso in cui ce ne fosse stato bisogno, anche contro i draghi" -. - "Ma c'elano i dlaghi, papà?" – - "Beh, sì, qualche volta sì" – - "E poi?" – Soffocando una risata, Andrea rispose "Faccia di merluzzo, se mi fai raccontare ti spiego tutto. Allora, dicevo, Anastasio era proprio fortissimo ed infatti, ad ogni torneo indetto dal Re, riusciva a sbaragliare tutti gli avversari, vincendo sempre il primo premio" - "E come faceva? C'aveva una spada?" - "Certo amore, era un cavaliere, ma andiamo avanti. Mentre Anastasio vinceva i tornei, il Re invecchiò e si ammalò gravemente, finendo per morire. Nel regno erano tutti tristi e si discuteva su chi avrebbe regnato ore che il sovrano se n'era andato senza avere figli." - "Ma papà è come la stolia di le Altù!" – La voce ora era decisa oltre che squillante; Leone sapeva di aver detto la cosa giusta. - "E' vero, amore, bravo, è molto simile, però in questa storia non c'è nessun Re Artù, senti senti. Poiché non si sapeva come decidere chi dovesse andare al trono, i saggi del regno, ossia le persone che erano più esperte e mature..." - "Come i nonni?" Leone non stava mai zitto, mai. - "Sì, un po' come i nonni. Allora, i saggi decisero che era il caso di abolire la monarchia e non avere più un Re, ma di prendere le decisioni in gruppo, senza far decidere ad una persona sola." - "Ma il Le poteva essele Nast...come si chiamava quello fotte fotte, papà?" – - "Anastasio; sì, poteva essere il Re, ma non era il figlio del Re di prima, come faceva a diventare il capo e a farsi rispettare?" – - "Ela i' più fotte di tutti, plendeva la spada e za, za, za, ammazzava tutti i nemici e diventava il Le." In teoria, non faceva una piega. - "E' un'idea, ok, ma poi tutte le persone avrebbero pensato che lui era cattivo, non si può diventare Re uccidendo tutti, è sbagliato. Però, come hai detto tu, lui si sentiva il più meritevole, cioè quello che doveva diventare Re e così, mentre i saggi si affidavano alle decisioni di gruppo, lui cominciò a pensare a come diventare Re, senza comunque uccidere tutti. Tu come avresti fatto, amore?" – - "Non lo so, allola?" Le domande stimolanti durante la storia proprio non gli piacevano. Nel frattempo Andrea e Leone, sempre mano nella mano, avevano percorso il tratto di strada che separava scuola da casa ed erano arrivati davanti alla porta d'ingresso. - "Aspetta, entriamo, ci cambiamo e continuo a raccontartela" – Le regole erano chiare e Leone le conosceva bene: quando si arriva a casa, ci si cambia e ci si lava le mani. Sdraiato sul letto, con Leone seduto al suo fianco, ritto, in attesa, Andrea riprese a raccontare. - "Anastasio voleva diventare Re a tutti i costi, sapeva di essere il migliore di tutti e non sopportava l'idea che dei saggi, che non sapevano nemmeno adoperare una spada, decidessero le questioni del regno. Perciò, cominciò a chiedere ai suoi conoscenti un aiuto. Disse in giro che il regno in questo modo non funzionava, che c'era bisogno di un Re, che se si fosse presentato un nemico ai confini del regno, senza un Re forte, avrebbero perso la guerra. Le persone vicino a lui, conoscendo il suo valore, si fecero convincere e, pian piano, cominciarono a diffondere l'idea che ci fosse bisogno di un Re. Nel frattempo però, Anastasio, sempre più convinto di essere il più forte di tutti, cominciava a diventare superbo.." - "Che vuoddile supelbo, papà?" – - "Vuol dire che ti senti più forte e migliore degli altri." - - "Ma lui ela più fotte degli altli" - - "Sì, amore, ma sono gli altri che ti devono dire che sei il più forte, se lo dici tu, sei superbo e diventi antipatico. Alla lunga rischi di diventare anche cattivo." – - "Pecché, papà?" – - "Perché pensi che gli altri non siano al tuo livello e che quindi, in generale valgano meno di te. Di conseguenza pensi che per i tuoi interessi, loro possano essere sacrificabili." – - "Che vuol dile?" Andrea troppo spesso si dimenticava che suo figlio aveva solo 4 anni e utilizzava termini troppo complicati. - "Vuol dire che possono essere anche uccisi per arrivare al tuo obiettivo" – - "E quindi lui li uccide?" – - "Esatto. Dopo qualche mese, Anastasio, non riuscendo a convincere tutto il popolo del fatto che lui dovesse stare al trono, preso dalla rabbia si presentò davanti al palazzo dei saggi, che una volta era stato il palazzo del Re, e si mise a urlare "IO SONO IL PIU' FORTE DI TUTTI. IO DEVO ESSERE IL RE. VENITE FUORI!! SIETE SOLO DEI PICCOLI UOMINI MENTRE IO SONO UN GIGANTE RISPETTO A VOI"; così facendo attirò l'attenzione delle guardie che si misero in cerchio attorno a lui per evitare che facesse qualche gesto avventato." - "Ma lui ela più fotte, faceva za, za e za e ammazzava tutte le guaddie!" – Leone adorava i momenti in cui si faceva "za, za e za". - "Infatti cominciò a menare fendenti a destra e a sinistra ma preso dalla foga, inciampò su una pietra e cadde, trapassandosi, a morte, con la sua stessa spada." - "Ma ela motto?" – Leone quasi non respirava, nell'attesa di sentire la fine della storia. - "Sì, amore, era inciampato e si era ucciso da solo." – - "Ah, ma ela cattivo?" – Essendo un bambino, Leone, aveva bisogno di distinguere i cattivi dai "buoni", ma soprattutto era importante, che i buoni, alla fine, vincessero. - "Si, era diventato cattivo per via della superbia, si sentiva un gigante mentre era solo un uomo come gli altri. Quando ti senti più grande degli altri, fai solamente tanto rumore quando cadi". - "Ah, e lui aveva fatto lumole?" – Leone non era proprio convinto riguardo al finale. - "Si amore, e lo ha fatto inutilmente visto che non ha ottenuto nulla." – - "Ma se ela i' più fotte pelché è motto?" – - "Perché accecato dall'ira ha smesso di essere forte e ha perso la concentrazione" – Effettivamente la storia era un tantino forzata, Andrea lo sapeva bene, ma in qualche modo bisognava pur concludere. - "Ma lui ela il più fotte, ela un gigante come ha fatto a molile?" – Logica di Leone 1, storia di papà 0. - "Ok, amore, è comunque una storia, non deve essere esattamente lineare. In ogni caso lui si sentiva un gigante perché era il più forte, ma sentirsi un gigante vuol dire essere superbi perché il più forte di tutti è un gigante solamente quando gli altri lo riconoscono come tale, altrimenti è un presuntuoso e probabilmente farà una brutta fine, Hitler docet". Andrea, confidava sugli insegnamenti di Don Abbondio per avere la meglio in una conversazione che cominciava ad essere piuttosto spigolosa. - "Ah...e tu papà che sei i' più fotte di tutti sei un gigante?" – Dicendo ciò Leone si sdraiò sul cuscino e allungò una mano verso la bocca del suo papà; adorava toccargli le labbra da quando era ancora un neonato. - "Amore..." – Andrea per poco non esplose in un singhiozzo commosso. "io non sono il più forte di tutti, io sono come tutti gli altri." – - "No, papà tu sei i' più fotte di tutti per me, meno male che non dici che lo sei pelò pecché sennò diventavi cattivo e molivi". Touché. Leone aveva capito quindi Andrea aveva fatto centro. - "Bravo, amore, hai capito perfettamente, ma secondo me il gigante fra noi due sei tu". – Andrea aveva la voce rotta ma cercava comunque di mantenere il tono fermo, era pur sempre il padre. - "Pecché, papà?" – - "Perché sei forte, sei importante e sei bravo" – Andrea spesso faceva addormentare il suo piccolo cercando di aumentare la sua autostima, sapeva che a 4 anni il mondo può essere complicato e lui voleva aiutare Leone il più possibile ad affrontarlo a testa alta. - "Uh-uh" – Quando Leone cominciava con i "uh-uh" al posto degli "ok", vuol dire che si stava per addormentare. Andrea cominciò a canticchiare qualche strofa a bassa voce per cullarlo verso il sonno e, per l'ennesima volta, si rese conto che, a conti fatti, non era tanto lui ad aiutare il piccolo Leone, quanto quest'ultimo che, grazie al suo modo d'essere, aiutava ogni giorno il suo papà ad affrontare la vita. Era davvero lui il gigante. |
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A Pontrhydyrun
– Preacher Evan... io... Hank attacca con tono quasi supplichevole, gli occhi socchiusi in una fessura quasi filiforme, e, senza la dovuta discontinuità cromatica, l’alta fronte lentigginosa e le scarne gote sembrano un cielo noioso con tante piccole stelle. Le parole non escono, eppure il cuore divampa. Hank si slancia verso l’anziano Pastore, ma le gambe, le lunghe gambe, inciampano nel tavolo che li divide. Difficile controllarle sempre. Poi finalmente i maldestri sussulti trovano sbocco in uno sbilenco e liberatorio abbraccio. Bagnato da liberatorie lacrime. – Io... io vorrei solo passare inosservato... Inondato di liberatorie lacrime. – Oh mio Hank, oh mio piccolo Hank... Il Signore ti ha dato questa natura. Devi accettarla, perché il Signore opera sempre a ragione. Devi... devi solo trovare il modo di assecondarla. Preacher Evan si prodiga in rassicuranti e circolari discorsi, ciondolando la sua testa di cartapesta, ed anche le spesse mani, che tengono strette uno strano amuleto a forma di corvo, disegnano traiettorie confortevoli. Ma tutto il resto – le nude pareti del bugigattolo in cui si trovano e il tavolo scomposto e la grigia radura fuori – sembra dire tutt’altra cosa: triste e grama la vita del gigante. A Pontrhydyrun, nella contea di Gwent, in un edificio marrone che sembra una casa, si trova il salone della signora Sheen, parrucchiera da una vita, vedova da tempo immemore. Non ha molto di che riempire la sua esistenza, la signora Sheen, a parte sua figlia Adeline, la sua bella e ossequiosa stella, e il lavoro al salone, che alla fine non va poi malaccio. Certo non si può fare affidamento sulla – come dire – esigua clientela locale, ma per fortuna c’è un buon numero di stranieri di passaggio, che giungono occasionalmente, si fermano, e poi ripartono. Più o meno. Gente – viaggiatori e viandanti – che decide sul momento di darsi una sistematina, attratta dal cartello verde-su-marrone “taglio di capelli per sole otto sterline”, che la signora Sheen ha maliziosamente piazzato accanto all’ingresso. Gente che non aveva detto ad altra gente – familiari e amici – che sarebbero andati a tagliarsi i capelli e che quindi nessuno verrebbe mai a cercare in un parrucchiere a Pontrhydyrun. Se mai dovessero sparire. A Pontrhydyrun, nella contea di Gwent, in una fattoria sulla strada per Cwmbran, la Fattoria Bamford, lavora l’uomo più alto di tutto il Galles: Hank Carew. La Fattoria Bamford in realtà dovrebbe chiamarsi Fattoria Carew, perché Hank ne è il factotum, mentre invece il signor Bamford passa la quasi totalità del suo tempo orizzontale, a struggersi nel letto in preda ai remautismi e ai rimpianti, cercando di alleviare entrambi con fiumi di scotch. Hank si è specializzato come sheep shearer, cioè tosa pecore. Tante pecore che producono tanta resistente lana che va poi a finire nei cassettoni e nei guardaroba di mezzo Earls Court, sotto forma di abiti e coperte di tweed. Hank è bravissimo come tosatore. Con la sua stazza, prendere con la forza una pecora da ripulire gli rimane più o meno facile come per qualsiasi altro raccogliere una banconota per terra. E tenerla poi immobilizzata durante il taglio è altrettanto un gioco da ragazzi. Forse è questo che Preacher Evan intendeva con “devi assecondare la tua natura”, quando da bambino – ma non tanto meno alto di ora – gli parlò. Tosare pecore. E badare ai campi e agli altri animali. E non avere altra compagnia al di fuori di quella di un vecchio ubriacone. Triste e grama la vita del gigante. A Pontrhydyrun, nella contea di Gwent, nei pressi di un bivio stradale, Alex indugia sul da farsi: tornare verso Newport per poi riprendere la strada di casa, oppure continuare ad addentrarsi nel profondo Galles? Alexander Dylan è un agente di commercio sulla trentina: sveglio quanta basta, ironia affilata, fascino british à la Tom Hiddleston – il viso scavato, la pelle quasi totalmente glabra. Per lavoro frequenta i ristoranti più lussuosi intorno a Hyde Park, ma durante la pausa-pranzo lo puoi benissimo trovare a bazzicare i tipici negozietti e pub intimo-vintage di Portobello Road. E nel weekend, quasi a volersi ancora più brutalmente staccare dalla frenetica e aristrocratica realtà quotidiana, ad Alex piace prendere il suo New Beetle bianco e guidare per due o tre ore verso ovest, senza una precisa meta. Alex indugia ancora ed è ora praticamente fermo in mezzo alla strada. Poi nota un cartello verde affisso su una casa marrone, lo legge, e decide che per poche sterline una rassettata ai capelli la si può pure dare. Adeline, grazie a un piccolo specchio rotondo, mostra ad Alex la sfumatura dei capelli sul dietro, dispensando allo stesso tempo un abbondante sorriso. Abbondante come il décolleté che ha ben in mostra e che Alex ha a più riprese sbirciato. A.D.O. Acute Distrazioni Ormonali. La signora Sheen osserva a distanza la scena con un’espressione obliqua di approvazione: la sua stella ha fatto davvero un bel lavoro. Lavoro quasi ultimato: Adeline scarta un rasoio a lama fissa, di quelli per eliminare i residui di peluria. – Non occorre... – pigola timidamente Alex, emergendo dal carosello di tette e sorrisi. – Sì sì, occorre... – ammonisce la signora Sheen, che lentamente si fa avanti. La lama del rasoio lambisce il collo glabro di Alex. – No davvero, non ho peli sul coll... ehi, attenta! La lama del rasoio fa una pressione insistita sul collo glabro di Alex. – E che cazzo, fermati! Alex cerca di divincolarsi, ma la signora Sheen ha riflessi felini e, col bastone di una scopa, gli assesta un colpo secco. Poi, per mano di Adeline, la lama del rasoio va a recidere la vena giugulare esterna. Del collo glabro di Alex. Dicono che i giganti abbiano un udito più sviluppato. O forse è solo che, vedendo e sentendo il mondo da un punto di vista differente, possono vedere meglio e sentire meglio cose che agli altri, ai normotipi, sono inaccessibili. È forse per questo che Hank, passando davanti alla casa marrone della signora Sheeen, durante una commissione per conto del signor Bamford – « un pacchetto di Benson & Hedges rosse e una bottiglia di scotch, ragazzo » –, riesce a sentire, dall’alto dei suoi due metri e ventitre, degli strani rumori filtrare attraverso un’intercapedine formatasi tra il muro della casa e la porta mal registrata. Rumori tipo grida; e calci e grugniti e braccia che si dimenano. Poi, dopo circa quindici secondi, la quiete. E dopo circa altri quindici secondi, il bagliore di un flash che trapela sempre dallo stesso alto pertugio. La determinazione più convinta alle volte nasce da un’insensata scintilla d’irrazionalità. Hank, non sa perché, decide di sfondare la porta. Direttamente sfondare. Come quando il signor Bamford gli chiede di rimuovere un qualche cancello o una qualche staccionata, e allora lui, Hank il possente gigante - per non stare a svitare, smontare e sfilare - butta giù tutto. Basta una carica e la porta del salone crolla come un panetto di burro semi-sciolto. La scena che si presenta davanti agli occhi di Hank è tanto bizzarra quanto facilmente decifrabile. Un giovane è steso al suolo, ai piedi della sedia da taglio, riverso in una pozza di sangue; la signora Sheen e sua figlia parlottano e ridacchiano, scattando foto al cadavere. Hank, per la stessa lucida e irrazionale determinazione di prima, brandisce le cesoie – sue fedeli compagne di lavoro – ma resta immobile. Le due donne, assorte nel trafficare attorno al povero Alex, non sembrano avvertire la sua presenza, né sembrano aver avvertito la sua rumorosa entrata in scena. Poi, dopo qualche secondo di rassicurante stasi, si accorgono di lui. Adeline Sheen, alla vista del gigante, comincia a urlare – un ululato acuto e perforante –, quindi si lancia in una corsa senza senso, dritta verso Hank, come quei finti fantasmi col lenzuolo bianco addosso. Whooo. Hank resta fermo con le cesoie in mano, mentre quella ragazza-fantasma lo sta puntando a una velocità sempre maggiore, e ulula. Whooo. Le affilate lame delle cesoie di Hank, in realtà progettate a tutt’altro scopo, trafiggono l’addome di Aline, all’altezza del fegato. Whooozoc. Fantasma allo spiedo. Hank estrae le cesoie dall’addome di Adeline, che, per il rinculo, fa una piroetta su se stessa. Poi finisce come un sacco di patate sul corpo di Alex, con le grandi tette a toccare l’uccello di Alex, che, se ancora fosse vivo, apprezzerebbe non poco. D.O.P. Distrazioni Ormonali Post-mortem. Stavolta non passano i soliti secondi di silenzio, ma, alla morte della figlia, la signora Sheen caccia subito un urlo poderoso – un vizio di famiglia evidentemente. Un urlo che è più un lamento e che si fa poi ringhiare. La signora Sheen lasciare cadere la macchina fotografica, la rimpiazza con il primo paio di forbici trovate sul bancone, e, aumentando progressivamente l’intensità del ringhio, passa all’attacco di Hank, le forbici agitate di punta come fossero un paletto. Il palo di frassino da conficcare nel cuore del gigante. Zac, prima stilettata. Hank para il colpo, impattando l’arma della signora Sheen dall’alto verso il basso con le sue cesoie, nel tentativo di sradicarla dalle sue mani. Ma la vecchia non molla la presa. – Non... non volevo... Si è suicidata... – Sta’ zitto, mostro! Un’altra stilettata, ancora più veemente; Hank para ancora il colpo. Il problema è la distanza dalla quale lo si porta. La signora Sheen decide allora di ridurla questa distanza e si avvinghia al gigante come un koala. Hank, con i suoi settanta centimetri abbondanti di differenza, è il grande e accogliente albero di eucalipto. La vecchia si avvinghia e morde e becchetta con la punta delle sue forbici. Hank, prima che il becchettio si faccia letale e lasci spazio a una stoccata definitiva, decide di prendere le contromisure, di usare i trucchi del mestiere. Afferra allora la signora Sheen per la cintola e la capovolge sottosopra; poi, stringe le sue gambe a immobilizzare il busto di lei. Esattamente come fa con le pecore durante la tosatura. Assecondare la natura, no? La signora Sheen accusa una perdita subitanea delle forze, le forbici le scivolano di mano. Poi ricomincia a ringhiare forte. – Lasciami andare, mostro! Con un colpo di reni sorprendente, la signora Sheen si riprende le forbici da terra e vibra una stoccata all’altezza delle caviglie di Hank. Che stavolta fa male. – Tieni questo, mostro d’un gigante, e ancora quest... Mostro. Gigante. Non c’è bisogno che sia tu a ricordarmi la mia natura, brutta vecchia, pensa Hank. Pensa, e stringe le sue cesoie, e con esse comincia a tagliuzzare la pelle della signora Sheen; prima solamente in superficie, poi affondando le lame. Tagliuzzare. Come fa con le pecore. Assecondando la sua natura. La signora Sheen ora non ringhia più, il suo singolare grido di battaglia si è trasformato in un continuo lamento, accompagnato cromaticamente dai rossi schizzi di sangue misto-polpa. E implora Hank, che però non ha alcun occhio e orecchio per lei. E che probabilmente non sente nemmeno gli ultimi rantoli di vita dell’agonizzante, e affettata, signora Sheen. Ma è felice. Hank, il gigante buono, amico delle pecore e fedele servitore del signor Bamford, che si è fatto cattivo, per seguire la propria natura. Il macabro balletto va avanti per un bel po’, dilatato dalla scoperta da parte di Hank di nuove e inaspettate pratiche di piacere, ospitando infine nuove e inaspettate considerazioni. Tipo: la carne cruda della signora Sheen ha un sapore acidulo ma tutto sommato gradevole. A Pontrhydyrun, nella contea di Gwent, regna una calma piatta. Ma se tendi l’orecchio e provi a bucare il silenzio assordante della grigia radura, puoi sentire la voce gracchiante eppure chiara del corvo Bodbh, che senza sosta ripete la sua estenuante cantilena. Triste e grama la vita del gigante. Da sempre ignaro di come sia forte Ma adesso è tutto più emozionante Sapori vivi. Sapori di morte. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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L'onestà del sonno
Marck era un uomo di valore ed un professionista serio e talentuoso. Avrei messo la firma per avere una carriera simile alla sua, ma sotto sotto... Lo odiavo! In ogni circostanza, con ogni clima, dopo aver fatto una mangiata epocale o una sessione di corsa che nemmeno gli ironman: lui arrivava in stanza, diceva la sua tipica frase "bene ora si fanno le nanne", nemmeno il tempo di spegnere la luce e iniziava a dormire, a russare. L'odio iniziò praticamente subito.. eravamo in ritiro con tutto il gruppo, capito in stanza con lui e iniziano i suoi infernali gorgeggi notturni. Poi quella frase. Non ho ancora capito se la diceva con scherno, sapendo che mi aspettavano parecchie ore di tormento o se davvero era convinto d'esser simpatico. "Si fanno..." ma come "si fanno"?.... ma dici "io faccio le nanne alla faccia tua!". Il motivo maggiore che alimentava il mio odio sotterraneo, però, era per la sua capacità di staccare il cervello, dimenticare ogni ansia per il giorno a seguire e riposare tranquillo. Io invece ho sempre sentito troppo la tensione. Ogni notte prima della partita ero lì, a pensare a tutto: ai consigli del mister, alle caratteristiche degli avversari, alle mie condizioni atletiche, all'arbitro e al suo stile di arbitraggio, al meteo... persino alle caratteristiche del terrreno di gioco nei momenti di delirio più totale! Una delle notti passate completamente in bianco fu quella del 1956 a Leeds. Il giorno successivo avrei dovuto marcare Jonh Charles, il "gigante buono". Sì, "buono" perchè molto corretto e mai sopra le righe nei suoi comportamenti, ma pur sempre "gigante"! Un marcantonio che mi lasciava almeno 20 centrimetri sotto di lui e soprattutto una montagna di muscoli, di reattività, di potenza.. Onestamente era praticamente impossibile fermarlo, almeno per me: onesto professionista dei campi di premier ma nulla di più. Meticoloso, attento, preparato, ma mai stato un campione. In quella notte insonne arrivai a sperare che almeno, se proprio doveva farci gol, ne facesse almeno più d'uno e dalle varie posizioni del campo, così almeno avrei potuto suddividere le responsabilità con i miei compagni difensori e non esser troppo colpevolizzato da mister e tifosi. Ero nel panico più totale. Avevo già afforntato altri campioni, ma lui con quel fisico, quessta stazza e quellas ua tremenda concretezza era il mio incubo. A chiudere gli occhi lo vedevo diventare alto come un grattacelo e ridere, ridere di me con voce sempre più forte e sguaiata. Chissà perchè. Il giorno seguente già all'uscita dagli spogliatoi si poteva capire come sarebbe finita la partita. La mia squadra, una giovane formazione della remota provincia dell'Hampshire al primo anno di Premier, sembrava come un gruppo di bambini in gita scolastica contro quei campioni del Leeds e lui, Charles, svettava sopra tutti carico e determinato. Mi rivolse lo sguardo solo un attimo, poco prima che l'arbitro autorizzasse l'ingresso in campo. Probabilmente nemmeno sapeva che sarei stato io a marcarlo, o meglio a cercare di farlo, per la gran parte del match. Proprio Marck, con una pacca sulla spalla, fece distogliere il mio sguardo dal gigante buono. "Forza Philip, andiamo. Faccio del nostro meglio!" Già al primo affondo il loro laterale fece breccia nella nostra difesa e crossò. Provai a saltare con tutta l'esplosività di cui ero capace, ma quando ero all'appice della mia elevazione il sole sopra di me sparì all'improvviso. Quella repentina eclissi era lui che ero decollato verso altezze a me non concesse. Per fortuna prese il pallone solo di striscio, senza dare al colpo la forza necessaria per superare il nostro portiere. La scena si sarebbe ripetuta più e più volte e, anche quando riuscivo ad anticiparlo sfruttando quel po di velocità in più che la mia stazza più esile mi permetteva, lui con una leggera pressione dell'avanbraccio sulla mia schiena mi faceva volare via soffiandomi il pallone. Verso l'inizio del secondo tempo fu Marck a cercare di contrastarlo dopo un lancio lungo dalla loro difesa. Sembrava in netto anticipo, bastava appoggiare di testa il pallone verso il portiere, ma quando era pronto a colpire Charles fece un balzo incredibile, stoppando di petto il pallone destinato alla testa di Marck con il corpo di quest'ultimo che quasi rimbalzava contro quello del colosso e mentre il poveretto finiva rotolando a terra la nostra porta fu violata da un colpo fulmineo. Poco dopo il loro mister ebbe l'ottima idea di preservare il gigante per la gara di coppa dei campioni che da lì ad un paio di giorni avrebbero disputato e lo sostituì tra gli applausi di tutti gli spettatori presenti. Anche i miei, se avessi potuto. La partità fini 1 a 0 e io, dai giornali, risultai tra i migliori del mio undici: "voto 6, generoso si fa in quattro per contenere Charles che lo sosvrasta fisicamente". Diciamo il più fortunato. Il povero Marck invece fu indicato da tutti come il responsabile maggiore del gol subito. Quella sera, avrebbe comunque dormito tranquillo e per una volta anche a me il suo russare risultò meno fastidioso. Pochi anni fà io e Marck, due arzilli vecchietti ancora vogliosi di fare mille cose e girare il mondo con quel pò di benessere che le scorribande sui campi di calcio inglesi ci hanno regalato, siamo stati nello Yorkshire al Whitbread New Inn, il pub che gestiva Jonh Charles prima di morire. Curvo e affaticato nell'incedere ci servì due ottimi club sandwich sedendosi con noi a ricordare le sue imprese. Sarà stata la salsina alle uova o altro, ma mi sentivo bene, quasi più alto. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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