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"Sarei propenso a dire che è fanatico chi pensa che qualcosa possa essere tanto importante da superare qualsiasi altra."
Bertrand Russell Fanatismo è il tema della prima tornata del nuovo concorso di UniVersi, c'è tempo fino al 15 gennaio compreso per postare il proprio racconto in gara. Ricordatevi che: - Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 12000 (spazi compresi, titolo escluso); potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito. - I racconti devono avere un proprio titolo e devono essere postati in forma anonima, effettuando il login con nome utente Titivillus e password universi. - Qui potete trovare il regolamento completo. RACCONTI IN GARA
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Ehi dol! Bel dol! Suona un dong dillo! Suona un dong! Salta ancor! Salice bal billo! Tom Bom, bel Tom, Tom Bombadillo!
Ultima modifica: 16/01/2014 08:06 Da gensi.
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Io non mi sento abusivo
Era la ventinovesima volta che venivo arrestato e, per la ventinovesima volta, non capivo perché lo dovessero fare. A me sembrava solo d'aver fatto la cosa giusta. Quel gruppo di piloti doveva raggiungere l'aeroporto ed io li avevo accompagnati svolgendo il mio dovere di cittadino. Invece no. A quanto pare venni arrestato per furto. Io dissi loro che quell'autobus era li con le porte aperte e le chiavi infilate nel quadro. Avevo anche provato a spiegare che quei piloti andavano di fretta. Ma non servì. Mi arrestarono e tornai in prigione per furto di mezzo pubblico. Per la ventinovesima volta, come detto all’inizio. In prigione avevo passato un terzo della mia vita per colpa di reati come quello ma, per me, ne era valsa la pena. Non avevo mai fatto del male a nessuno. Quella che veniva condannata era solo e soltanto la mia passione per i mezzi pubblici della NYCTA. La cosa più incredibile che non riuscivo davvero a capire era perché un supporter o un fan sfegatato dei Knicks piuttosto che degli Yankees potesse addirittura rendersi protagonista di risse e non rischiare quasi nulla mentre io venivo regolarmente arrestato solo perché fan della NYCTA. L'appassionato di football poteva girare con cappelli e spille col logo della squadra mentre se lo facevo io, passeggiando tra le gallerie della subway, venivo riconosciuto e fatto arrestare per l'ennesima volta. Misteri umani. Pensare che quei mezzi io li amavo davvero. Già da bambino saltavo la scuola solo per passare qualche ora in più sulle carrozze della metropolitana a godere della mia passione. A otto anni conoscevo a memoria lo schema delle linee della metro di New York. Potevo spiegare a chiunque come andare da una fermata all'altra e tutti i relativi cambi da fare. E quella passione l'avevo coltivata sempre di più e sempre meglio al punto da riuscire a guidare uno di quei treni. Conoscendo ed utilizzando le normali procedure della società riuscii a farmi firmare il permesso per ritirare il treno per le normali manutenzioni generiche. Le feci così come da programma e lo restituii. Solo allora si accorsero che la certificazione l'aveva fatta uno che non era autorizzato a farla. Così venni accusato di furto per la prima volta. E non potevo immaginare che proprio quel primo furto avrebbe segnato su di me, per sempre, un’onta indelebile. Quando i tempi furono maturi feci regolare domanda per essere assunto. Nonostante fossi il più profondo conoscitore delle procedure aziendali ma anche dei treni e di tutto ciò che girava intorno a quella società venni scartato perché l'azienda non avrebbe mai potuto assumere qualcuno già condannato per il furto di uno dei loro mezzi. Attenzione: furono loro stessi ad ammettere che non c'era dipendente con una conoscenza così profonda della materia ma nonostante ciò non potevo far parte ufficialmente della loro azienda per i miei trascorsi. E questo, pur gratificandomi, non fece altro che consolidare il mio pensiero. Era la strada giusta e non m’avrebbe certo fermato una selezione finita male. Dopo vari tentativi di rendermi utile sia come manutentore in team con gli altri operai con tanto di divisa e cintura degli attrezzi, sia come addetto alla clientela dando indicazioni e aiuti generali, divenni addirittura famoso. Dopo i continui arresti per le violazioni più assurde, la NYCTA tappezzò di volantini le loro strutture con la mia foto e con l'avviso di diffidare del sottoscritto perché un falso operatore. Eppure mai una lamentela ne mai una denuncia giunse agli uffici della NYCTA. Nessuno aveva mai protestato circa il mio aiuto piuttosto che del mio operato come manutentore. Anzi. Ero così bravo e preparato che nessuno sospettava di me nel vedermi al lavoro. Così dichiararono praticamente tutti i testimoni interrogati dopo ogni mio arresto. Non bastò. Venni incarcerato tutte le volte e venni anche allontanato da New York ma non servì a molto. Come si fa a star lontano da qualcosa che si ama con tutto il cuore? Ed è per questo che neanche quella ventinovesima volta ho esitato. Nonostante gli anni di prigione, nonostante gli arresti, nonostante la massima sicurezza di Sing Sing in quanto vero e fedele supporter della NYCTA avevo il dovere e l'obbligo di far si che quel bus incustodito dall'autista arrivasse puntuale. Non era giusto che la società che mi aveva dato le più belle gioie della vita bucasse quell’appuntamento urgente. Mi arresteranno di nuovo. Così, nonostante non abbia mai ucciso, nonostante non abbia mai truffato o raggirato chicchessia nonostante non abbia mai rubato (perché ho sempre restituito tutti i mezzi, come da procedura) finisco sempre in galera. Diranno che sono autistico o chissà cosa si inventeranno. Non importerà. Nessuno potrà mai levarmi questa passione. Men che meno le sbarre di una galera. E se davvero pensate che la prigione sia la medicina di ogni male, vi sbagliate. Per me sarà soltanto tempo utile da sfruttare per memorizzare al meglio le modifiche e le nuove corse studiate e create dalla NYCTA. Tempo utile per saper già da dove ripartire. Al prossimo giro. Capitano Darius McCollum Consulente indipendente reclami, sicurezza e trasporto urbano |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Scheda sim
L’ennesimo semaforo rosso stoppò il flusso costante di auto in marcia. Le marmitte roboanti parevano imitare lo sbuffo dei guidatori, seccati di interrompere il loro furioso incedere. Sulla corsia di destra l’auto frenò all’ultimo, bruscamente, segno evidente di impazienza e malumore. L’auto subito dietro frenò anch’essa d’improvviso e poco mancò che i paraurti delle due vetture si schioccassero un bacio tanto appassionato quanto rumoroso. -Cazzo per un pelo!- esclamò il ragazzo alla guida della prima auto. -Ci manca solo che prendo la multa per il rosso, meno male che ho visto il cartello- Il giovane mise in folle, sfilò dalla tasca lo smartphone con gesto veloce, aprendo la custodia a libro col pollice. Si mise a leggere un paio di mail, ignorando il verde che scattò qualche secondo in anticipo rispetto le sue previsioni. Il clacson della vettura retrostante lo riportò alla realtà della strada, al che ripartì in sgommata mandando a quel paese il malcapitato che aveva suonato. L’università non distava molto, eppure la vicinanza al centro storico portava le strade a stringersi sempre più, creando un effetto imbuto inaffrontabile nelle ore di punta. Era come buttarsi a capofitto in una strettoia di metallo e asfalto, chiassoso e stressante. -La prossima volta prendo lo scooter- sentenziò l’annoiato pilota. Girò un quarto d’ora per scovare l’agognato parcheggio, risolvendosi infine di posteggiare l’auto in uno spazio tra la fine delle righe blu e le strisce pedonali. Il ritardo gli impose di ignorare la consueta prudenza, anche se quella era zona di caccia dei maledetti uomini col berrettino: la municipale. Ma quel giorno non aveva il tempo di pensarci, volendo evitare di passare le due ore successive a prendere appunti in piedi. Percorse veloce gli ultimi tratti di strada, arrivando in via Zamboni quasi di corsa. Buttò un’occhiata verso il cielo limpido, cercando tracce del presunto temporale in arrivo: solo strascichi di nubi candide e sfuggenti. Non ebbe il tempo di notare il timido sole primaverile che illuminava le cupole delle case e le vetrate delle chiese, riflettendo i suoi raggi sui mattoni rossi e gli alti portici. Non riuscì a cogliere quella strana luce calda e affascinante irrorata nella stradina medievale, che creava un’atmosfera serena come se il tempo fosse, per qualche istante, sospeso. Riuscì solo a maledire l’applicazione meteo del suo smartphone, che dando per sicura la pioggia lo aveva costretto a prendere l’auto. Prese nuovamente in mano il costoso aggeggio, sfogliando le immagini sullo schermo mentre al suo fianco scorrevano murales e antichi affreschi. Arrivato al portone della Facoltà di Lettere vi entrò, accolto dalla targa altisonante in ottone. Puntò deciso al secondo piano, ignorando la miriade di volantini strappati che ornavano i vecchi muri dell’edificio. Fortuna volle che c’erano diversi posti ancora liberi. Si accasciò sulla scomoda sedia ansimando leggermente, mentre ragionava sugli impegni del pomeriggio: due ore di Letteratura, poi due di Estetica, quindi ripetizioni alla solita ragazzina, poi finalmente a casa. Pensò di mandare un messaggio a Silvia, giusto per ingannare l’attesa; le dita volavano sulla tastiera touch, pareva un pianista nel mezzo di una sentita esecuzione. Con aria distratta lo inviò, aspettando invano la conferma d’invio. Passati dieci secondi iniziò ad infastidirsi, quasi imprecò quando lo schermo gli disse beffardo che era “impossibile inviare il messaggio”. Rimase a fissarlo come intontito. Era il primo errore del suo nuovo, fiammante cellulare tuttofare; giusto per solerzia decise di controllare il credito, ma si rese conto che non riusciva nemmeno a chiamare il numero gratuito dell’operatore. Fu allora che l’impazienza divenne ira, e poi ansia: una costante, crescente e stressantissima ansia. Intanto la lezione era cominciata, ma il ragazzo non aveva nemmeno sfilato gli appunti dalla borsa a tracolla. E ora, come faceva ad avvertire Silvia? Come controllava le mail? E se qualcuno l’avesse cercato? -Ma che cazzo gli è preso a sto’ bagaglio? Non ha manco un mese, è mai possibile…- e via con una sequela di ingiurie e lagnanze, rigorosamente sottovoce per non attirare troppo l’attenzione. La ragazza seduta di fianco lo guardò per qualche istante, quasi commiserandolo. Lui non se ne accorse nemmeno. Passò la maggior parte della prima ora a tentare di rianimare la sua scheda sim, peraltro nuova anch’essa: telefono spento, via la batteria, via la scheda, controllo visivo del tutto, dentro la sim e la batteria, attesa spasmodica per la riaccensione e verifica della linea. Tutto inutile. Ripeté l’operazione tre volte, quindi si arrese. Decise di fare qualcosa di realmente utile, prendendo i suoi primi appunti di quel pomeriggio partorito male. Dopo Letteratura passò all’aula di Estetica, dove incontrò un compagno di corso, Mirko. Con qualche scusa miserevole riuscì ad inviare un paio di messaggi col suo cellulare per avvertire ragazza e mamma (era sempre stata eccessivamente apprensiva), quindi si calmò un poco. Ma i nervi erano a fior di pelle. Quello era il suo primo smartphone, acquistato con i suoi sudati guadagni: non poteva non funzionare! Cercò di seguire almeno la difficile lezione di Estetica, inseguendo il filo logico del discorso sul “tragico” tra frammenti di antichi poeti, opere moderne ed erudite analisi di barbuti filosofi ottocenteschi. Spesso la voce del professore passava in secondo piano, mentre l’attenzione del giovane era calamitata da quell’oggetto rettangolare che lo stava facendo dannare. -Oh ma ti dai una calmata? Sembri isterico, cos’è che guardi di continuo?- lo stuzzicò il romagnolo. -Niente- -Come niente? Ma va là che ci guardi ogni due minuti!- -Ma a te cosa interessa?- rispose allora l’altro, in un improvviso scatto d’ira. -Prego? C’è qualche domanda?- chiese allora il vecchio professore, accortosi a stento del brusio in quarta fila. Il silenzio calò sui due, che si bloccarono nel tipico atteggiamento passivo che contraddistingue la stragrande maggioranza degli studenti universitari. Mirko fece spallucce, tornando ai suoi scarabocchi. La lezione finì mezz’ora dopo, stranamente in ritardo rispetto al solito. Mirko sistemò i fogli alla rinfusa, voltandosi giusto in tempo per vedere l’altro uscire di corsa dall’aula. Non l’aveva nemmeno salutato. I portici si riempirono presto di rumore e vita. Passi, risate, ambulanti insistenti: il popolo universitario animava quello squarcio di centro storico. La luce dei lampioni stava lentamente sostituendo quella del sole, quando il giovane uscì in strada. Andava di fretta come era arrivato. Subito provò speranzoso a spegnere e riaccendere l’arnese, era la quarta volta che lo faceva. Menù, giochi, agenda, suonerie, tutto andava: semplicemente, non c’era linea. Imprecò al cielo la sua frustrazione, non poteva nemmeno avvertire del ritardo la ragazzina delle ripetizioni. Tornò alla macchina esasperato dal ritmo della giornata, notando poi che aveva sforato di oltre mezzora il tempo per il parcheggio. Per fortuna non c’erano multe sul parabrezza; quegli asettici verbali, infilati in trasparenti buste impermeabili, erano l’incubo di ogni cittadino. Come vampiri di carta, succhiavano avidamente soldi e punti sulla patente. Ma lui non parve accorgersi più di tanto del mancato pericolo, maledicendo ancora il ritardo e l’intero pomeriggio. Partì veloce, allacciandosi la cintura quando già inseriva la terza, ma la corsa in auto si arrestò presto, quando la stradina del parcheggio lo immise sui viali di circonvallazione. Divenne allora l’ennesima pedina di un’infinita colonna d’auto, che avanzava lenta e irregolare, coi motorini sfreccianti nei zigzag creati dalle file più o meno disordinate. Oramai non provava più a guardare lo schermo lucido e la triste iconcina dell’assenza di segnale; utilizzò invece le sue energie per apostrofare gli autisti distratti, lenti, maldestri o semplicemente menefreghisti. Arrivato all’appuntamento, si scusò ripetutamente con balbettii poco comprensibili. Tranquillizzato dalla piccola allieva, poco preoccupata di fare mezz’ora in meno, cercò allora di fare del suo meglio: quando si trattava di guadagnare, nulla poteva distrarlo. L’ora seguente volò via veloce. Prese il suo compenso e si congedò, mentalmente stremato. Uscì dall’edificio tirando un sospiro di sollievo: la giornataccia volgeva la termine. Si fermò un attimo, appena fuori dal portone. Nella calma urbana che accompagna l’ora di cena, sentì distintamente il canto di qualche uccelletto sparso sugli alberi rigogliosi, rumore insolito alle sue orecchie. Qualche mezzo circolava ancora, lasciando al suo passaggio un’eco che si perdeva tra i palazzi, ma il peggio del traffico era passato. La scena della strada libera gli donava un senso di serenità. Tornò a casa molto più mestamente di quanto potesse fare, ora non aveva più fretta. Un paio di volte concesse anche una precedenza non dovuta, gesto di rara magnanimità cittadina. Arrivato sotto casa, ripensò però al fastidio e alla frustrazione nel non poter usare il telefono, non fosse altro per le sue funzioni basilari. In quel momento non gli interessava più controllare mail, scaricare app e roba simile, era come tornare indietro in una ipotetica scala dei valori. Scosse la testa mentre saliva in ascensore. Bussò alla porta di casa, sbuffando nell’entrare e lamentandosi. Sua madre tentò di fare qualche domanda, ma lui si diresse in camera, confrontandosi con sua sorella. -Tu che hai lo stesso cel, ti ha mai dato sti problemi? Cioè così, dal nulla, niente rete…- Mentre parlava con lei, sentì una vibrazione nella tasca del jeans. “Strano” pensò. Aprì la custodia e fissò sorpreso i messaggi che gli stavano arrivando, oltre alle notifiche delle varie applicazioni. Funzionava tutto perfettamente, come se nulla fosse. |
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Finché morte non ci separi.
Robert Gambino attese che il suo accompagnatore aprisse la porta, si fermò un secondo a scrutare la sala di fronte a sé e, dopo un profondo respiro, varcò la soglia. Non c'erano finestre e la poca luce presente proveniva da alcune candele poste su tavolini collocati agli angoli del locale. Al centro del pavimento giaceva una decorazione floreale a forma di cerchio, di circa tre metri di diametro; al di fuori della quale, in piedi ed ammassate, si trovavano almeno cinquanta persone, tutte di carnagione scura e con chiare origini africane o caraibiche. Quelli più vicini alla corona di fiori erano inginocchiati e stringevano un tamburo tra le gambe. Robert, unico bianco presente al rituale, si sentì addosso gli occhi degli astanti e tentò di controllare l'imbarazzo, mentre raggiungeva il posto che gli era stato assegnato: ultima fila sul lato destro della stanza. Dopo qualche minuto, durante il quale vibrava nell'aria un mormorio di preghiera, si aprì la porta e cadde un cupo silenzio, carico d'attesa. Entrò Arkam, il sacerdote Houngan della comunità. Era un uomo molto anziano; portava un vistoso cappello di paglia, poggiato su lunghe treccine rosse e nere, che spuntavano da sotto la visiera. La tonaca che indossava era stata cucita unendo pezzi di stoffa di svariati colori e dimensioni. Quello che però colpì maggiormente Robert fu il suo volto: dipinto di bianco, con bocca ed occhi contornati da grossi cerchi neri. L'Houngan si diresse al centro della composizione floreale, si fermò ed iniziò un profondo ed antico canto, in una lingua incomprensibile per Robert. Dopo alcuni secondi la cantilena si estese a tutti i presenti, accompagnata dal suono dei tam-tam e dalla danza di quattro giovani, che erano entrati all'interno del cerchio di fiori e che giravano vorticosamente attorno al sacerdote. Il ritmo si fece più serrato ed il canto diventò straziante; Robert sentì i tamburi martellare dentro di sé, in sincronia con i battiti accelerati del suo cuore. Al culmine del rituale i giovani si accasciarono, in preda a frenetiche convulsioni. Nei giorni precedenti Robert aveva appreso che, secondo la loro credenza, quella trascendente esperienza avrebbe permesso loro di dissolvere il velo che copre la realtà e di arrivare così a fondersi con Dio. Il sacerdote smise di cantare ed uscì dalla sala, mentre tutti si affollavano intorno ai ragazzi, pregando e cercando un contatto fisico con loro. Robert sapeva che era giunto il suo momento, arrancò tra la folla e raggiunse con fatica la porta; si affidò quindi di nuovo al suo accompagnatore: un alto e robusto uomo che svolgeva il compito di factotum e che lo condusse allo studio personale di Arkam. Dopo essersi seduto, Robert cercò di non fissare il sacerdote, accomodato su una vecchia sedia di legno scuro di fronte a lui; l'Houngan si era tolto il cappello di paglia, ma aveva ancora la faccia completamente dipinta. Fu proprio Arkam a rompere il silenzio, con voce chiara e profonda: "Signor Gambino, benvenuto nella nostra umile comunità. Non glielo nascondo: la sua generosa donazione mi ha lasciato piuttosto sorpreso e ha contribuito in modo essenziale sia a darle la possibilità di partecipare ad uno dei nostri rituali, che normalmente non apriamo agli infedeli, sia a concederle un immediato colloquio privato con me, saltando la lunga lista di attesa che abbiamo al momento. A questo punto le chiedo: per quale motivo voleva vedermi con tanta urgenza?" Robert decise di andare direttamente al punto: "Signor Arkam, mia moglie è malata terminale di tumore e sta per morire." Il sacerdote restò impassibile ed attese che Robert continuasse a parlare. "Come avrà sicuramente già capito vedendo l'importo della mia donazione, non sono i soldi a mancarmi nella vita; sono infatti sempre riuscito a togliermi qualsiasi tipo di soddisfazione. Da quando un anno fa abbiamo scoperto la malattia di mia moglie, ho speso centinaia di migliaia di dollari per assicurarle le migliori cure esistenti, prima qui negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo, ma, nonostante le dichiarazioni ottimistiche dei medici, non c'è stato niente da fare: il suo male è incurabile. Per questo sono qui: vorrei chiederle il suo aiuto." L'Houngan avvicinò a sé una specie di narghilè posto nei pressi della sedia, lo accese e tirò qualche boccata; poi parlò, espellendo un denso fumo grigio. "Non ho mai amato del tutto questo Paese, dove si inneggia alla libertà e dove al tempo stesso non si rispettano le antiche tradizioni degli altri popoli, mettendo in giro notizie che dovrebbero restare private. Non le chiederò chi le ha parlato di ciò che sta per propormi, dato che immagino che non me lo direbbe mai, ma prima di ascoltarla mi permetta di porle io una domanda: cosa sa del Vudù, signor Gambino?" Robert si sentì in difficoltà per quel quesito così diretto. "Ehm...dunque, nei giorni scorsi ho letto tanto sull'argomento e credo di conoscere a grandi linee le fondamenta ed i riti della vostra religione. Purtroppo però, se devo essere sincero, non me ne sono mai interessato prima; come sa, io non sono molto credente." Arkam parlò come se non avesse ascoltato la sua risposta: "Il Vudù, signor Gambino, è la religione più antica della storia umana, sorta in Africa assieme alla nascita della nostra specie. Per lungo tempo il Cristianesimo ha cercato invano di cancellare il nostro culto, infastidito dalla sua diffusione; da alcune centinaia di anni ha invece cambiato strategia: sta cercando di plasmarlo a sua immagine, di infettarlo con le sue ridicole regole decise a tavolino da uno sparuto gruppo di romani un paio di millenni fa. Falliranno, come sempre hanno fallito, perché il Vudù non è solo una religione: è l'unico mezzo con cui gli uomini possono realmente entrare in contatto con Dio; è dentro ognuno di noi, anche dentro di lei. Il Vudù è ovunque, signor Gambino." Udendo quelle parole, Robert provò un profondo disagio, ma poi riaffiorò in lui il pensiero di sua moglie e ritrovò subito il coraggio per andare avanti: "Se sono qui di fronte a lei è proprio perché rispetto il suo culto, sacerdote. Io...io ho solo una speranza ormai, anche se terribile, ma non posso lasciare niente di incompiuto, non voglio. Mi hanno detto che lei...beh, che lei è uno dei pochi Houngan americani a padroneggiare le antiche arti della magia nera Vudù. Io mi chiedevo se...dietro lauto compenso, ovviamente...se potesse...beh...se potesse risvegliare mia moglie dopo la morte." Arkam continuò a restare impassibile; tirò un'altra boccata e replicò: "Signor Gambino, lei non ha la facoltà di capire cosa mi sta chiedendo. La sua società ha completamente stravolto il significato del sacro rito che noi utilizziamo per plasmare un cadavere in Zombie. Pertanto devo chiederle di lasciare questo luogo e di non tornare mai più, deve rendersi conto che ci sono cose che i soldi non possono comprare." Sbam! Il pugno di Robert sbatté violentemente sul tavolo. "Non può mandarmi via così! Devo salvare mia moglie! Le posso comprare un intero quartiere se vuole, o andare ad incendiare le chiese; non mi interessa cosa mi chiederà in cambio, ma deve salvarla!" L'Houngan restò in silenzio per qualche minuto, poi rispose: "Le parlerò con franchezza, signor Gambino: i soldi che promette non mi sono indifferenti, tutt'altro. La nostra comunità avrebbe bisogno di altri finanziamenti, così da potersi allargare e da aiutare le famiglie in difficoltà; però non credo che lei sia degno, o pronto, di ricevere questo dono. Pertanto sono io a chiederle di fare una cosa: al numero 37, interno 8, della Sesta Avenue, abitua un uomo di nome Uruk, che venne da me alcuni anni fa con la sua stessa richiesta; vada a trovarlo, parli con lui e, quando tornerà da me, esaudirò il suo desiderio." Robert accettò senza un attimo di esitazione. La porta dell'interno 8 non aveva il campanello, Robert decise quindi di bussare. Dopo qualche secondo di attesa udì una flebile voce provenire dall'appartamento: "Chi sei?" "Ehm, signor Uruk? Buongiorno, mi chiamo Robert Gambino, sono venuto a trovarla su consiglio dell'Houngan Arkam; posso rubarle solo qualche minuto?" La porta si aprì scricchiolando e Robert si trovò davanti un uomo in condizioni pietose. I pochi, lunghi e unti capelli grigi che gli erano rimasti poggiavano su spalle gobbe e sormontanti un fisico rachitico. Indossava una maglia tremendamente sporca ed un paio di jeans consumati. Uruk lo invitò ad entrare in una stanza che sembrava adibita sia a cucina che a salotto, ma che in realtà avrebbe potuto avere qualsiasi altro scopo, per la confusione che vi regnava. C'erano due porte, entrambe chiuse; l'aria era stantia, le finestre sembravano sprangate da molto tempo e le tapparelle abbassate creavano un'inquietante oscurità. Nonostante Uruk lo stesse guardando, Robert si rese conto che l'uomo era profondamente distaccato, come se avesse la mente da un'altra parte. "Perché sei venuto da me?" La domanda distolse Robert da quel pensiero. "Dunque, sono venuto qui perché mia moglie è gravemente malata e l'Houngan Arkam acconsentirà a salvarla solo se lei mi racconterà la sua esperienza. So che ha vissuto una situazione simile alla mia, le va di parlarmene?" Ma Uruk non lo stava più ascoltando: aveva assunto un'espressione estatica, con occhi e bocca spalancati, come se fosse di fronte a Dio, e stava fissando un punto indefinito dietro l'orecchio sinistro di Robert. Questi sudò freddo e un brivido gli attraversò la schiena, mentre avvertiva l'angosciante sensazione di essere osservato. Si girò lentamente su se stesso e a quel punto la vide. La donna era entrata silenziosamente da una delle porte chiuse. Teneva la testa china, con il volto coperto da una matassa ingarbugliata di lerci capelli grigio cenere. Dalla lurida vestaglia che indossava spuntavano braccia e gambe nude, ricoperte di piaghe e viscide croste. Il tanfo che emanava era così inverecondo da spingere Robert a fare un passo indietro dal ribrezzo. "Tesoro guarda, abbiamo un ospite! Robert! Robert Gambino si chiama, salutalo!" Uruk saltellava sul posto, esaltato ed in preda ad emozioni incomprensibili. Sua moglie sollevò lentamente la testa e fu allora che Robert scorse i suoi occhi: pupille rosso sangue che gli si conficcarono nell'anima. “R...r...rrroo...rrrooobeeert...” Il suono che emise sembrò l'ultimo rantolo di un moribondo. Robert inorridì e fu preda del panico; corse alla porta, la aprì con violenza e scappò di corsa da quel luogo maledetto. "Signor Gambino, benvenuto, se non sbaglio è trascorso più o meno un mese dal nostro ultimo incontro; è dunque tornato per rivolgermi di nuovo la sua richiesta?" "Mia moglie è morta due giorni fa e ieri c'è stato il funerale. Sono venuto solo per darle questa." Robert tirò fuori una busta e la porse all'Houngan; questi la aprì ed estrasse un assegno a sei zeri, intestato alla comunità. Un'espressione di sorpresa si dipinse sul suo volto. "Con questa donazione vorrei ringraziarla per aver rifiutato la mia richiesta, o meglio per avermi mandato dal signor Uruk affinché io cambiassi idea." L'Houngan restò in silenzio. Robert si alzò e si diresse alla porta dello studio. Poco prima di uscire si fermò e si rivolse di nuovo ad Arkam: "Nell'ultimo mese ho ripensato tanto al rituale a cui ho assistito, alla nostra conversazione ed all'incontro con Uruk e sua moglie...e so che difficilmente potrò dimenticarmi tutto questo. Quella donna...dannato mostro...continuerà a tormentarmi ogni notte, nei miei incubi...ma ciò che non scorderò mai sarà Uruk: ho sempre in mente i suoi occhi invasati, la sua fanatica ossessione per la consorte rediviva...mi attanaglia la terribile consapevolezza di aver rischiato di diventare come lui; sarebbe stata per me una condanna sicuramente superiore rispetto alla solitudine che sto provando adesso che mia moglie è morta. Addio, Houngan Arkam, spenda bene i miei soldi." "La morte chiede sempre in pegno la vita, signor Gambino. Pregherò per lei." |
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Il reduce
Kevin O'Neill era uno degli ottocento reduci scelti per assistere alla conferenza del Presidente a Columbus, Ohio. Non si era distinto particolarmente durante il servizio in Iraq, ma il Reverendo Orton era riuscito a farlo invitare grazie ai suoi contatti altolocati. Kevin era originario di Hammond, nell'Indiana, una piccola città della grande provincia americana, nota solo per il Police Memorial. Kevin guardò il grande palco dell'Auditorium dove era appena salito Obama. Quanto odiava quell'uomo, la sua camminata giovanilistica, il suo parlare fintamente semplice nonostante appartenesse alla classe intellettuale. Soprattutto detestava il colore della sua pelle. Kevin si distrasse e cominciò a pensare alla propria vita, da sempre messa in ridicolo dalle persone di colore, fin dai tempi del Liceo, quando i neri gli erano davanti nella squadra di basket della scuola, specialmente John Brown, il campioncino locale. E pensare che i due erano stati amici, inseparabili fin dalle medie, compagni di classe e di banco. Kevin aveva avuto la sua occasione, un pallone all'ultimo istante della semifinale del torneo di Stato, entrato per sostituire l'infortunato John. Aveva fallito il canestro del sorpasso e la loro squadra era stata eliminata. Nessuno gli aveva detto nulla, si trattava comunque del migliore campionato mai affrontato dal loro Liceo. Ma lui sentiva che tutti i compagni lo pensavano un incapace, soprattutto John. A dir la verità l'amico aveva cercato di consolarlo, ma Kevin dubitava che fosse sincero. L'aveva capito definitivamente quando aveva chiesto a Pamela, la numero uno del gruppo di cheerleaders di andare con lui al ballo scolastico. “Oh Kev, mi spiace molto ma ci vado con John, sai me l'ha chiesto ieri”. Il mondo gli era crollato addosso: John l'aveva fatto apposta per umiliarlo pubblicamente, per punirlo di fronte a tutti i loro compagni. Kevin dimenticava di non aver mai manifestato un interesse particolare nei confronti di quella ragazza: lei piaceva a tutti. Al ballo era andato comunque, con una ragazza meno bella ma che da sempre aveva una cotta per lui, Ginger. A circa metà della festa lui e la sua compagna erano usciti nel giardinetto dietro la palestra, dove tutti andavano per pomiciare. Era una bella serata tiepida, con un meraviglioso cielo stellato. Mentre la stringeva e i loro volti si avvicinavano, aveva individuato Pamela e John, impegnati in un bacio appassionato. Non avrebbe mai dimenticato quelle grosse labbra voluttuose sulla bocca di quella rossa fiammeggiante. Ginger si era accorta che qualcosa non andava e dopo essersi resa conto di che cosa avesse bloccato il suo Kevin era scoppiata in lacrime. L'aveva spinto via, correndo lontano e non gli aveva mai più rivolto la parola. I giorni seguenti furono convulsi e strani, giorni passati a studiare per l'esame che doveva condurlo alla Harvard Law School, la migliore Facoltà di Legge del Paese. Lui e John si erano ripromessi di tentare l'esame assieme, indivisibili fin da bambini. Kevin aveva evitato l'amico, insensatamente infuriato per la vicenda del ballo, lasciando John stupefatto: non si era reso conto che il compagno fosse arrabbiato con lui. Alla fine il ragazzo nero era passato, per giunta conquistando una borsa di studio, mentre lui avrebbe dovuto accontentarsi di frequentare la Facoltà di Legge di Bloomington, Università dell'Indiana, un buon ateneo ma non al livello della mitica Harvard. Anni dopo il Reverendo Orton gli avrebbe detto: “Non hai perso niente, Fratello Kevin: le Università dell'Est sono piene di socialisti, pronti a difendere le oscene minoranze come quella dei negri, dimenticando che i veri americani non possono che essere solo i bianchi, superiori intellettualmente. Noi siamo i figli di Dio, i negri sono figli di Satana, Nero come loro. E quella ragazza poi: se una donna bianca preferisce un negro vuol solo dire che è una puttana, figlia di Lilith”. Kevin aveva trascorso un paio d'anni al campus con risultati scolastici modesti anche se sufficienti. Non gli piaceva quella vita, in una città troppo simile a quella dalla quale proveniva, provinciale e ridotta nelle dimensioni, senza nessun fascino. Continuava a rimuginare su John e Pamela, diventati ormai coppia fissa e sugli splendidi risultati scolastici del ragazzo, di cui aveva notizia dai suoi genitori. Anche nella vita di relazione non brillava, timido sia con i compagni di studi che con le ragazze, sempre solitario. Per lui fu normale scegliere la via dell'arruolamento nei Marines, trascinato dall'indignazione per l'attentato alle Twin Towers. Si era convinto che l'America dovesse guidare il Mondo nella Guerra contro l'Impero del Male e finalmente riuscì a trovare uno scopo. Durante l'addestramento si distinse per le caratteristiche fisiche e soprattutto per l'enorme determinazione. Moltissimi suoi commilitoni erano neri o ispanici e benché diffidasse di loro, ben presto si rese conto che quasi tutti condividevano le sue idee. Sospese il giudizio sulle persone di colore, fino a quando non venne inviato per il primo periodo di servizio in Iraq con il grado di caporale. Lì si trovò sotto il comando di un tenente nero, Shaquille Lafita, un uomo capace e severo che prese Kevin in antipatia. Dopo un conflitto a fuoco dove il giovane di origini irlandesi non aveva offerto la giusta copertura ai compagni a causa di un grossolano errore, Lafita lo segnalò come non adatto al servizio attivo. Kevin tentò di resistere: per lui combattere fisicamente contro i terroristi era un'autentica missione. Alla fine soccombette al mobbing del superiore, accettando di andare in ufficio, diventando un volgare passacarte secondo il suo stesso modo di vedere. “Fratello Kevin, quel tenente ti ha rovinato! Invece di inchinarsi di fronte a te, alla tua superiorità razziale, ha voluto metterti in ridicolo davanti a tutti. Deve essere un agente del Male, un figlio del Demonio, un musulmano occulto. Non avertene a male, tu sei rimasto integro, tu fai parte delle forze del Bene”. A dir la verità, Lafita era stato insignito di una Navy Cross, la medaglia conferita ai militari distintisi per atti di particolare eroismo, ed era stato poi congedato con una Purple Heart, la medaglia offerta a chi viene gravemente ferito durante la azioni. Eppure Kevin, dopo aver subito un autentico lavaggio del cervello, si era convinto che il Reverendo avesse ragione. Aveva conosciuto Orton per caso, un anno dopo il suo congedo dai Marines. Aveva saputo dai suoi genitori che John e Pamela si erano sposati e che l'ex amico era diventato socio giovane in un importante studio legale di Boston. Interruppe ogni rapporto con la propria famiglia pur di non sentire più parlare dei successi di John. Kevin si trovava a vagare per gli States con uno sgangherato caravan arrugginito acquistato grazie alla liquidazione ottenuta dall'Esercito, sopravvivendo grazie a lavoretti stagionali. Nei pressi di Akron, nell'Ohio, aveva deciso di farla finita. Non sapeva bene perché ma era sempre stato attirato da quella città. In periferia si era imbattuto in una chiesa con il parcheggio pieno di macchine: evidentemente una funzione era in corso. Aveva posteggiato e si era avvicinato al portone dell'edificio, sul quale troneggiava un grande cartello. NO ENTRANCE FOR: JEWS NIGGERS MUSLIMS SOCIALISTS HOMOSEXUALS Quel cartello gli piacque e decise di entrare anche se come ogni americano di origine irlandese aveva ricevuto un'educazione cattolica e quella era una congregazione di Cristiani Rinati. Ebbe così modo di ascoltare uno degli infuocati sermoni del Reverendo Orton, noto agitatore religioso, razzista e Suprematista, ovvero appartenente a quella corrente del pensiero che indica i bianchi superiori ai neri sia a livello razziale che intellettuale. Le parole del Reverendo scaldarono il cuore di Kevin: Orton proponeva una crociata contro tutte le forze non cristiane con un particolare accento verso i musulmani e il Falso Presidente Negro. Quando la funzione finì, Kevin avvicinò il religioso e gli raccontò la propria vita, di come i neri l'avessero distrutta. “Fratello Kevin stai sereno. Ora hai trovato una casa e una famiglia: i miei Volontari Suprematisti saranno i tuoi nuovi cari”. I Volontari Suprematisti erano un gruppo di sbandati, neo-nazisti e fanatici religiosi, fondato in segreto da Orton qualche anno prima e coperto dal capo della Polizia di Akron, uno di loro. Il Reverendo stava diventando sempre più famoso, specialmente dopo una trasmissione televisiva locale durante la quale aveva orinato sopra un Corano, spalle alla telecamera. Kevin gli faceva da autista e da segretario durante i numerosi viaggi per gli Stati Uniti nei quali Orton teneva delle scatenate conferenze contro i musulmani. Un notte il Reverendo aveva svegliato Kevin alle quattro del mattino. L'uomo era eccitato, gli occhi febbrili: “Fratello Kevin! Abbiamo la possibilità di eliminare uno degli agenti di Satana sulla terra, il musulmano recondito, il Falso Presidente Negro voluto dalle élite di sinistra. Tu sarai la mano di Dio!” “Ma come Reverendo? Come posso avvicinare quel maledetto?” “Presto si terrà una conferenza, durante la quale quel mostro ringrazierà alcuni reduci dell'Iraq. Al termine dell'incontro ha garantito che ognuno degli intervenuti potrà stringergli la mano. Tu parteciperai e quindi potrai avvicinarti a lui. Uno dei miei Volontari è un agente dell'FBI e oltre a ottenere l'invito per te, aggirerà i controlli di sicurezza introducendo nel teatro un'arma, grazie alla quale potrai fare giustizia. Tu sarai il Pugnale Vivente del Signore”. Kevin aveva riflettuto per alcuni istanti su quelle parole. Se avesse compiuto un atto del genere, avrebbe potuto diventare il nuovo Lee Oswald, l'uomo accusato di aver ucciso Kennedy e assassinato a sua volta poco dopo. “Reverendo, la ringrazio per l'aver anche solo pensato a me. La causa è giusta e io sono felice di sacrificarmi per uccidere quella serpe africana, neanche nata sul territorio americano. Ma forse l'agente potrebbe avere maggiori possibilità di successo, potrebbe avvicinare il Falso Presidente più facilmente di me”. “No, Fratello Kevin. Quell'agente non deve rivelare la propria identità. Tu e solo tu avrai l'onore di eliminare il Male dalla nostra gloriosa Nazione”. Un forte applauso riscosse Kevin dai suoi pensieri, l'intervento di Obama era appena finito e già gli ex militari si stavano mettendo in coda per potergli stringere la mano. Anche lui si dispose assieme agli altri, aspettando il proprio turno. Era determinato a compiere la missione, rassicurato dal freddo e duro pugnale che teneva sotto l'ascella da quando l'aveva trovato dietro a una vaschetta nei bagni. Sarebbe diventato l'eroe dell'America Bianca, l'America Vera, quella Libera e figlia del Bene. Il momento era prossimo, solo cinque persone prima di lui. Quattro. Tre. Due. Una. Mentre estraeva il pugnale e urlava “Nel nome di Dio”, un grasso agente dell'FBI frappose il corpo tra l'arma di Kevin e l'obiettivo, ricevendo nella spalla la coltellata sferrata al cuore del Presidente. Kevin venne subito atterrato dagli agenti della scorta presidenziale e da alcuni degli ex militari che avevano assistito alla scena, il tutto ripreso in diretta dalle telecamere della CNN. Qualcosa aveva tradito Kevin, forse uno sguardo di troppo o il semplice linguaggio del corpo. Oppure l'agente dell'FBI era stato solo fortunato e reattivo. L'uomo che aveva salvato la vita al Presidente si chiamava Muhammad Alì Johnson, un nero figlio di un attivista per i diritti civili convertito all'Islam sull'esempio di Malcolm X. Johnson venne nominato Persona dell'Anno dalla rivista Time e il suo trascinante sorriso sulla copertina celebrativa scaldò i cuori di tutto il mondo. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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The Dark After.
«Sì, sì... Era un venerdì sera, lo ricordo bene. Mentre aspettavo che l'acqua bollisse avevo acceso la televisione più per noia che per interesse perché all'ora in cui cenavo io le trasmissioni facevano cagare. In realtà fanno sempre cagare. Ancora adesso. Beh, finì il telegiornale, finì la pubblicità poi partì una sigla mai vista. Dio che colonna sonora... Con lo sguardo incollato allo schermo inghiottii la mia prima volta: una carrellata di scene flash, uno sguardo nel buio, una mano artigliata, musica in crescendo, un corpo sospeso in un turbine di cenere, immagini scure, alto contrasto, quasi in bianco e nero in modo che i dettagli rosso sangue brillassero come neon colorati, il primo piano di labbra voluttuose che sussurrano parole mute, leggibili solo nel sottotitolo, le note di violino che raggiungono il massimo, quasi un amplesso e poi... Schermo nero. Dissolvenza in ingresso. The Dark After. Caratteri semplici, grigio su nero. Fantastica, eccezionale, meravigliosa! La sigla della prima serie di The Dark After fu davvero un'opera d'arte, la migliore di tutte quelle che seguirono. Uhm... Anche quella della terza stagione era molto curata e forse l'impatto emotivo di quella della quinta era superiore, tuttavia si è sempre trattato di elaborazioni della prima straordinaria opera d'arte. Comunque, ero paralizzato da curiosità e stupore. Non ebbi neppure il tempo di domandarmi di cosa si trattasse che apparve lei... Fisico da urlo, fianchi perfetti, gambe mozzafiato, pantaloni sporchi aderenti quasi come una seconda pelle, e solo una canottiera bagnata di non si capiva quale liquido scuro. Spalle nude, muscoli atletici, con la mano destra trascinava una spada insanguinata con la lama larga come una mannaia e lunga almeno un metro e mezzo, mentre la mano sinistra... Oh santo cielo... Mancava! MANCAVA! Qualcosa o qualcuno le aveva mozzato via metà dell'avambraccio! Che shock! Che batticuore! Sebbene negli anni io abbia riguardato quella scena un milione di volte il primo piano sul suo viso di porcellana, gli occhi grigi che si spengono e Ariene che perde i sensi, mamma mia, sì, quelle immagini mi hanno sempre schiaffeggiato come una folata di vento polare! Era fatta. Ero imprigionato. L'acqua nella pentola evaporò tutta perché dimenticai di averla messa sul fuoco per l'intera durata del primo episodio». Arretra di un passo. «Ariene! Che personaggio! Che eroina! Temo che non ce ne sarà mai un'alta come lei. Solo il Capitano le è stato superiore, ma voglio dire, lui era il Capitano... Nessuno poteva esser meglio del Capitano! Janet Jetty. Era bellissima. Trovare una attrice così brava, bella e realmente mutilata è stato un colpo di fortuna sia per l'intera serie sia per la sua personale carriera. Avevo tutto di lei: poster, registrazioni di interviste, pupazzetti di Ariene, solo quelli ufficiali, ovvio, e poi... Una volta vinsi il primo premio di una convention di cosplayer! Il mio costume era di gran lunga il più curato anche se truccato da donna non ero affatto somigliante a lei. Janet... Riuscii a incontrarla in una dozzina di occasioni circa, di sicuro cinque volte alla Dark Fancon, tre volte alla premiazione dei Golden Globe, poi a Las Vegas durante la presentazione del suo libro infine a Parigi nel corso delle riprese della sesta serie. Ecco... Ammetto che non furono dei veri e propri incontri perché ero sempre troppo lontano e per quanto la chiamassi a gran voce lei non poteva sentirmi. In fondo io ero solo uno dei tanti fan accalcati lungo le transenne. Solo a Parigi riuscii ad avvicinarmi abbastanza da abbracciarla e baciarla, oh, niente di esagerato, solo un bacetto leggero leggero però se solo la sicurezza non me l'avesse strappata via troppo in fretta io avrei potuto dirle che... Bastardi... Ma... Ma il profumo della sua pelle è una delle sensazioni più inebrianti che ho mai provato... Povera Ariene... Povera Janet. Mai attrice sarà più compianta di lei! Era perfetta per quel ruolo, anche nella vita reale, era forte, era coraggiosa, come avrebbe potuto non esserlo dopo tutto quello che aveva passato? Quando seppi dell'incidente che ce la portò via fu come se mi avessero strappato parte dell'anima. Ancora adesso non posso fare a meno di...». Piange. «L'episodio della sua scomparsa fu un colpo da maestri. Usare delle vecchie scene tagliate per mostrare il suo sacrificio! Per amore... Il Capitano soffriva disperatamente. La seconda parte della sesta serie fu una tortura per lui, rimasto solo con i suoi incubi. I compagni non potevano certo sostituire il vuoto lasciato da Ariene nel suo cuore. Solo l'amicizia con la vecchia Maude lo aveva tenuto in carreggiata, ma fu irreparabilmente rovinata dopo la sanguinosa disfatta di Londra. Non esiste l'oscar per un attore televisivo? No? Peccato, Blooster ne merita tre per come ha condotto quel personaggio lungo il viale dell'autodistruzione. Indizi, uno dopo l'altro, infine BANG, il colpo di scena proprio all'ultima puntata quando si scopre che da tempo il Capitano è strafatto di mushi. Un finale di stagione memorabile! Memorabile!». Stringe il pugno. «A settembre ero in fibrillazione per l'inizio della settima serie. Col mio nuovo lavoro potevo permettermi la TV a pagamento quindi fu come se facessi un balzo temporale in avanti di un anno perché sui canali gratuiti stavano per ritrasmettere la sesta in attesa di avere i diritti per quella nuova. Il Capitano moribondo, Jack e Simona dispersi nelle Terre Vuote, Maude crocifissa di fronte al Big Ben, Mbono ormai leader supremo dei Cani Sciolti, le gemelle Wu contagiate dalla janca e l'Ultima Marea incombente. Sapevo che ci sarebbe stata tanta carne al fuoco da riempirsi la pancia fino a primavera. Prima puntata...». Agita la mano distesa. «Ma chi è questa Flux? Da dove salta fuori questa lesbica imbattibile? E la famiglia spagnola? Cioè, non capisco, una delle migliori ambientazioni post-apocalittiche mai creata e spunta fuori una INTERA famiglia sopravvissuta non si sa bene come alla Prima Marea? Per non palare dei tre soldati russi... Alla faccia della coerenza! Come se tutti si fossero dimenticati quello che era accaduto in Russia nella prima serie! O la bimba preveggente, che parla per enigmi incomprensibili? Troppo facile! Cosa c'entrano questi poteri paranormali con The Dark After? Otto nuovi personaggi e nessuna traccia dei precedenti?». Scuote la testa. «Alcuni dei nuovi fan esultarono, ma noi della vecchia guardia, noi che da otto anni attendevamo la conclusione della storia non apprezzammo affatto. Io... Non capivo! Il Capitano, dove era il Capitano? Che fine aveva fatto il libro? Era vero che Carmela portava in grembo un piromante? Chi avrebbe arginato la Marea?». Sta gridando. «Tutto accantonato. Tutto dimenticato. Due puntate, quattro, sei, alla settima all'improvviso un ritrovamento: un corpo crocifisso e bruciato. Maude? Nessuno lo dice! Dieci puntate e nulla, nessuno dei vecchi personaggi ricompare. Problemi contrattuali? Balle! Blooster ERA il Capitano! Lui voleva continuare, lo sanno tutti. Un azzeramento dovuto al calo di ascolti? Inaccettabile! Ma chi diavolo erano questi incapaci? Li ho ascoltati anche in lingua originale... Oh no, vi prego! Quello lo chiamate recitare? Poi questa Flux, sempre lei, che da sola affronta e sconfigge una intera Onda Grigia solo perché si incazza quando l'amante della puntata viene uccisa? Scherziamo? Dov'è il dramma? Oppure la bambina-veggente che invece di morire di febbre rossa nel giro di una notte muta forma trasformandosi in una madonna di vent'anni e la mattina dopo tutto come prima, senza che nessuno che dubitasse di lei? No, no, no...». Trema. «Non dovevate farmelo! A volte penso che è stato tutto un inganno, che il successo di The Dark After è tutto un caso, che non c'è nessuna storia dietro, solo un'accozzaglia di personaggi usa e getta... Ma non può essere. Io rifiuto questa menzogna. La serie era tutto per me... Tutto! Ho perso due lavori, due fidanzate, eppure The Dark After era sempre lì a farmi sognare. Sapevo che c'era una fine, lo sentivo dentro. La trama era troppo bella, il mistero fitto, le finte incongruenze, la maestria con cui alcuni personaggi interagivano tra loro, l'attesa, l'attesa... L'attesa della Verità!». Nasconde il viso dentro le mani. «Quando fu comunicata la cancellazione della decima serie scrissi ripetutamente alla produzione. Non mi risposero. Mi presentai agli uffici del network chiedendo spiegazioni. La nona volta mi arrestarono. Stava accadendo davvero. Era finita». Il suo sguardo è vuoto. «Poi ebbi una rivelazione. So che può sembrare folle... Ariene mi apparve in sogno. Mi disse cosa fare». Sorride o ringhia. È pazzo. «Ho impiegato molto a trovarvi tutti e tre. È stato più difficile che radunarvi qui perché non credevo che gli sceneggiatori fossero così riservati». Estrae una lunga spada da un sacco sul pavimento. È larga quanto una mannaia. «So che la storia vi è stata donata. So che qualcuno ha usato le vostre menti per metterci in guardia di quello che accadrà. La Marea è vicina, lo sento... Dovete dirmi come finirà...». Si avvicina. «Inizierò con te». |
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Tutto per Cordelia
Conobbi Cornelia una sera di gennaio di due anni fa, al Desert Fox di Palm Springs. Me ne stavo spalmato sul bancone del bar, tramortito da una giornata di lavoro insospettabilmente faticosa e da un Mai Tai decisamente troppo carico di rum, quando la vidi arrivare verso di me, divina e ancheggiante. Sembrava uscita da una copertina di Vanity Fair: dei pantaloni attillati color corallo, un paio di stivali grigi lunghi lunghi, una camicetta verde moderatamente sbottonata ma inequivocabilmente riempita di sostanza, e un cappottino di visone dello stesso colore degli stivali, impreziosito da alcune righe orizzontali che ne stemperavano il carattere classico; il tutto portato con un’eleganza e una naturalezza che non avevo mai visto in nessuna donna. Il suo viso, poi, era il piatto forte: la carnagione bianca da bambolina di porcellana, esaltata da una spolverata di fard, le labbra carnose, i lunghi e vaporosi capelli castano chiari pettinati selvaggiamente all’indietro, ma che, a dispetto della loro apparente indisciplinatezza, restavano impeccabili ad ogni suo passo... Un paio di immancabili occhiali da sole vintage oversize, poi, le copriva gli occhi, che ero però pronto a scommettere fossero chiari e splendenti e irrisistibilmente abbaglianti. Luce di una luce di raro splendore. – Scusa, sai dov’è il bagno? – Eh? – feci io con un’espressione tra l’ebete e l’inebetito. Di tutti i sensi, l’udito evidentemente era quello meno attivo. – Lascia perdere, baby. Me la vidi sculettare via, seguendo il ritmo sincopato di una canzone di Ne-Yo che passavano in quel momento – o forse era Ne-Yo che seguiva lei? –, e la mia attenzione si fece immediatamente bipartitica, equamente divisa tra la considerazione che quel “lato b” non fosse assolutamente male e il rammarico che quell’apparizione meravigliosa si stesse dileguando con la stessa velocità e la stessa dirompenza con le quali si era palesata. Persa per sempre? Poi si girò e fece due passi decisi verso di me. – Ma io e te ci conosciamo già, baby? – Samuel Davis del Daily News, scrivo per il festival in questi giorni – risposi, stavolta con prontezza assoluta. – Cordelia Robinson, nullafacente – rintuzzò lei, sollevando gli occhiali per scrutarmi meglio. Aveva gli ipnotici occhi color acquamarina che esattamente mi aspettavo, ad eccezione di una forma leggermente allungata che tradiva una parziale ma indubbia origine asiatica. – No no, è la prima volta che ti vedo... – sentenziò lei con un tono quasi sconsolato. – E, insomma, cosa fai qui a Palm Springs? – ripresi io, temendo di perderla nuovamente. – Niente, mi piace il posto. È bello, no? Si vede la neve ma non fa freddo. – E... e... ma lo sai che hai dei bellissimi occhi? – il carico da novanta da Casanova dei poveri – Per caso hai origini... origini...? Restai sospeso qualche istante, tra un inflazionato Giappone e un qualche nome più esotico che però la mia mente si rifiutava di partorire, provando invano una pesca a strascico sul fondo delle mie labile conoscenze geografiche. Poi Cordelia mi sorprese con una risata chiassosa e colorata, che lasciò spazio poco dopo a un’espressione seria ma non greve. – Blefaroplastica. E, vabbè, anche un po’di lipofilling agli zigomi. Il tempo di qualche cocktail a prezzo doppio elargito dalla mia American Express e di qualche scambio di parole e occhiate – sempre più frivole le prime e sempre più fameliche le seconde, man mano che i suddetti cocktail facevano il loro effetto – e ci ritrovammo sul letto queen-size della mia camera d’albergo: un bel ritrovarsi indubbiamente. La nottata lasciò in dono una bella scopata, un sonoro mal di testa, e un elenco impreciso degli interventi di chirurgia estetica che Cordelia aveva effettuato su di sé – oltre a occhi e zigomi, naso, seno (ovviamente) e un rinforzo, solo un “rinforzino”, ai glutei –, nonché la scoperta che, a dispetto dell’aria da trentacinquenne super-tirata e in super-forma, Cordelia avesse solo ventisei anni. È difficile nascere e crescere a Los Angeles, frequentare per lavoro certi ambienti, e non farsi trascinare da quel mondo lì. Io c’ero riuscito: merito di un padre sin troppo severo e autoritario che mi aveva imposto insindacabili valori, e di una madre sin troppo dolce e accomodante che aveva reso più tollerabili tali imposizioni; merito anche, mi piace credere, di un’innata assennatezza e di una forte caparbietà personale. Io c’ero riuscito, se è vero che, col sudore di anni di studio e apprendistato, ero riuscito a ritagliarmi il mio spazio come giornalista, settore cinema, senza per questo desiderare, come facevano molti miei colleghi, il triplice salto dall’ufficio alla passerella. Se è vero che, a ventinove anni, la mia massima aspirazione era quella di riuscire comprare nel giro di qualche anno un appartamentino a Mid-City, per niente ammaliato dalle sirene della vicina Beverly Hills, e passare le serate in mutande e cappellino a vedere le partite dei Clippers e trovare una ragazza che mi volesse bene e che, come me, non avesse la più pallida idea di quali negozi ci fossero a Merlose Avenue. Era perché volevo continuare a tenermi alla larga da quel mondo lì che quella mattina, dopo aver sbaciucchiato Cordelia e averne palpato ancora un po’ il seno rifatto, mi ripromisi che per nessuna ragione al mondo l’avrei richiamata. Ovviamente la chiamai due giorni dopo, quando una zaffata del suo profumo mi tornò alle narici e al cervello. Ci incontrammo una seconda volta, una terza, una quarta; diventammo coppia fissa. E più la frequentavo più ero ammaliato dalla sua straordinaria naturalezza d’animo e la sua trascinante spontaneità, che facevano da contraltare alla falsità del suo corpo artefatto. Una volta, vincendo la mia proverbiale discrezione, le posi una domanda secca. – Perché lo fai? – Perché no? Un’altra volta provai senza migliore sorte un approccio più ragionato. – Ma non pensi che, insomma, sia più importante quello che abbiamo dentro, il nostro animo e le nostre emozioni, e che, insomma, l’apparenza abbia un’importanza relativa? – Certo! È proprio perché il corpo non ha alcuna importanza, perché è solo un involucro esterno, che me lo modello come più mi piace; ti pare? Diretta, genuina, guidata da una logica stramba eppure convincente. In una sola parola: Cordelia. Passarono diverse settimane, riempite da risate e uscite mondane e baci gommosi; passarono mesi, e non mi accorsi che a poco a poco stavo cambiando. Non solo perché un po’ era inevitabile che lo facessi, se volevo starle accanto, ma anche perché quel nuovo stile di vita che mi aveva contaminato aveva preso a piacermi. Cominciai a vestirmi solo con capi firmati – Cordelia era la mia fashion consultant –, cominciai a usare cosmetici e ad andare dal parrucchiere “almeno” una volta a settimana. A lavoro, cominciai a scrivere pezzi sempre più impregnati di gossip e sempre più attenti ai dettagli più modaioli, che il mio capo sembrava tra l’altro non disprezzare (“Ehi Sam, ma che vuoi che ti spostiamo alla cronaca rosa? No dai, continua così che vai forte!”). E dopo lavoro, il programma-Cordelia cominciò a divenire un must: passeggiata obiettivo-shopping a Rodeo Drive, cena in un qualche ristorante con vista mozzafiato a Santa Monica, e poi di nuovo in città per terminare la serata nel privé di un qualche club esclusivo. Cosa desiderare di meglio? In tutto questo, non eravamo soli, ma una cerchia in continua espansione di amici e conoscenze ci circondava. Conobbi Patricia, Donna e Ruth, amiche del cuore di Cordelia, ugualmente dedite ai ritocchi del corpo ma ai miei occhi infinitamente meno affaniscinati. Conobbi Donald, “Mister Lifting”, simpatico e stra-ricco collezionista di poltrone antiche, i cui sessant’anni suonati erano mascherati da una pelle tirata come una corda di violino. Conobbi Matt e Eddie, miei coetanei ma con all’attivo tre interventi ricostruttivi ciascuno e il nulla a livello lavorativo. Conobbi la signora Atherton, un idolo per tutti i chirurghi di West Hollywood con la sua mania per le orecchie, che le aveva fruttato undici otoplastiche. Conobbi un mucchio di modelli e aspiranti attori, sempre pronti a narrare le loro recenti peripezie nell’outlet di turno o a tessere le lodi e decantare i prodigiosi effetti della tossina botulinica. Quel sabato pomeriggio dello scorso aprile c’erano più o meno tutti nella villa di Donald nella Orange County. Era la prima volta che Cordelia mi invitava a quello che per loro era un ritrovo annuale. – Questo sabato Donnie dà un party nella sua casa vicino Irvine: piscina, musica e relax. Ti va, baby? – Certo che mi va, amore! Eravamo lì da tre o quattro ore, per lo più trascorse distesi a prendere il sole – oliati e depilati di tutto punto – attorno a una delle tre piscine della lussuosa villa, quando la signora Altherton fece un annuncio con voce oltremodo squillante (evidentemente tutti quegli interventi dovevano averla resa semi-sorda). – Ragazzi, è arrivato il momento del Gioco! Quale gioco? – Ti va di fare un gioco, baby? – Quale gioc... certo che mi va, amore! Donald, il cerimoniere, spiegò le regole, per i pochi che ne erano all’oscuro. Il gioco era molto semplice. C’erano due urne: una conteneva dei bigliettini ripiegati con scritto su ciascuno il nome di uno dei presenti; l’altra conteneva simili foglietti con su scritto invece nomi di parti del corpo. Si sarebbero estratti un nominativo e una parte del corpo; il “fortunato” vinceva un intervento su quella parte da effettuare ora, seduta stante, nella speciale sale operatoria presente nella villa di Mister Lifting, alla presenza di – tadà! – il famigerato Dottor Byrd! Urla, applausi, fischi d’approvazione. Mi sentii mancare. – Che ne dici, baby? Fico, no? – Amore, io non credo che... – risposi titubante. Abbozzai un sorriso. La signora Altherton, evidentemente ansiosa di mettere sotto i ferri le sue orecchie per la dodicesima volta, affrettò le operazioni di estrazione. Fu un attimo: il braccio, levigato probabilmente da qualche provvidenziale liposuzione, dentro l’urna; il biglietto afferrato, dischiuso, ed esibito al pubblico scalpitante. Mister Lifting sillabò il mio nome con la solennità delle migliori occasioni: SA-MU-EL. Un incredibile brusio si levò all’istante – parole di invidia, parole di incoraggiamento – e dieci, venti, trenta sguardi si addossarono su di me. Sguardi di invidia, sguardi di incoraggiamento. Sguardi alieni, deformi, anti-estetici, che sembravano chiedere tutti insieme in un’orrenda sinfonia asincrona: vuoi far parte anche tu della nostra setta di fanatici dell’apparenza? Cordelia mi guardava allo stesso modo, con la sua improponibile sterpaglia chiamata capelli e le grandi labbra modalità canotto. La maschera finto-nipponica si muoveva, ma non riuscivo a decifrare tutto ciò che diceva. – Baby... su... coraggio... – Io, no... non posso... La maschera finto-nipponica si muoveva, e ora cambiava anche d’aspetto: abnormi mutazioni che generavano in me paura e ribrezzo. – Samuel, se non partecipi al Gioco, esci fuori dalla mia vita! Uscii. Mi ha fatto bene ricordare. Ricordare significa valutare, anche a nove mesi di distanza: ciò che è stato, ciò che è stato sbagliato, se è valsa la pena di tentare di riparare ciò che è stato sbagliato. Faccio un gran respiro, dentro di me entra un’aria gelida e asettica. Poi, piano piano, i miei sensi si risvegliano, dal torpore del corpo e l’inerzia dei ricordi. Dall’alto mi viene calato uno specchio esagonale molto spartano; più a destra, scorgo il faccione rotondo del Dottor Byrd, che mi accoglie con un laconico ma comunque rassicurante sorriso. – Le piace il suo nuovo naso, signor Davis? |
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ANGELO CUSTODE
Vendetta. Ogni cellula del mio corpo ti brama, ma sarò paziente. - Buongiorno, sono Angelo, custode del museo, cosa posso fare per lei? - Se continui a rispondere così la gente ti chiederà di farle vedere le ali. - Simpaticone! - Tu prima o poi accendili quegli occhiali, altrimenti che te li mando a fare i messaggi? Comunque per stasera va bene. - Mea culpa, sono un po’ rincoglionito. Passami a prendere verso le otto e mezza. È una dannata giornata di pioggia e il Custode fatica a camminare sulle sue gambe ancora lievemente atrofizzate. I quattro anni di coma non sono stati dimenticati dai suoi muscoli. L’Amico lo sorregge prendendolo per il braccio, un gesto che l’orgoglioso Custode percepisce come miserevole carità. Entrando nel pub irlandese, che d’irlandese ha solo qualche trifoglio qua e là, vengono sommersi da un silenzio che sarebbe paradossale in un pub, a meno che se non si tratti delle nove di un mercoledì sera qualunque. Con la consapevolezza di dover attendere che l’alcol giungesse in circolo per parlare dell’argomento clou della serata, i due si lamentano dei rispettivi lavori in un sadico gioco a chi ce l’ha più duro. Il mestiere, s’intende. L’arrivo delle birre cambia le carte in tavola e dopo mezzo boccale la discussione vira dove il timone del Custode la guida. - Anche se mi credi pazzo sono davvero innamorato. - Smettila di dire così, cazzo. Sei ingenuo, questo sicuro. - Perché ingenuo? Preferirei pazzo. - Se è pazzia è una somma di amore per l’arte e ingenuità che non ti fa distinguere la realtà dalla fantasia nel paese dei balordi. Conosci le leggi. Credi di essere il primo ad innamorarsi di un’IA? - Lei non è un’IA qualsiasi, pensa, impara e… - Mi è impossibile crederti. - …immagina. Perché devi dire così? - Non puoi crederci davvero. Sei così cieco da dimenticare che qualunque cosa sia, speciale o meno, è frutto di una programmazione? Ciò che pensa, ciò che immagina è tutto basato su calcoli e algoritmi. Così un continuo di “tu non la conosci” da una parte, “è solo un programma” dall’altra per i successivi 3 boccali. Nessuno dei due avrebbe mai cambiato opinione, ma soprattutto non l’avrebbe cambiata il Custode. La sua Venere era speciale, il suo modo di comportarsi lo era, i suoi sentimenti lo erano. Essendo nato in un tempo in cui il mondo non era così invaso dalle intelligenze artificiali, aveva faticato non poco ad accettare l’idea di essere circondato da quadri e sculture parlanti. Tuttavia l’importante era che le opere non venissero intaccate: che Lucifero parlasse pure, non avrebbe detto niente di più della biografia di Blake e della sua genesi, immobile e senza spirito. La sua preziosa arte non sarebbe mai stata compromessa. Queste sue convinzioni crollarono nel momento in cui una nuova Venere entrò a far parte della collezione del museo, una copia di Venere Callipigia che avrebbe cambiato la sua esistenza. Era rientrato da poco nel mondo reale dopo un sonno forzato di quattro anni, tempo utile per tutti gli interventi a cui doveva necessariamente sottoporsi se non voleva recitare nel reboot di Batman il ruolo di Due Facce senza aver bisogno di trucco. L’incendio che aveva devastato mezzo corpo del Custode e mezzo condominio aveva risparmiato il suo preziosissimo quadro di François Renè, piccolo dipinto acquistato a Parigi quando l’ormai celeberrimo artista era poco più di un venditore ambulante. In realtà era unicamente per salvaguardare quel quadro, simbolo della sua intelligenza e lungimiranza artistica, oltre che opera d’arte unica, che il Custode rientrò nell’edificio in fiamme. Salvò solo il dipinto. Al suo risveglio il museo approfittò del suo “supercustode, protettore dell’arte” organizzando una festa col solo obiettivo di racimolare un po’ di grana. Oltretutto come sfruttare al meglio l’idolo cittadino se non riassumendolo col vecchio incarico? Il custode ad interim non poteva competere. Venere entrò nel museo pochi mesi più tardi. Il Custode rimase subito ammaliato dalla copia di quella che era fra le sue sculture preferite. E capì subito perché era da sempre conosciuta come Callipigia, “dalle belle natiche”. Tutta la sua figura risultava armoniosa, le sue linee morbide e l’atteggiamento della postura naturale e sensuale. Troppo sensuale per non provocare un’erezione a chi già di suo si considerava sposato all’arte. Come se non bastasse non era come tutte le altre opere dotate di IA: era capace di tenere una vera conversazione. - Non mi sento realizzata. - Che intendi dire? - Se qualcuno ti dicesse “ti clonerò” tu accetteresti? - Non saprei. - Ecco, alla Venere originale non l’hanno neanche chiesto. - Beh, ma non potevano! E poi si tratta di un capolavoro, ben venga se viene copiato e portato in giro per il mondo. - Qui ti volevo. Quindi io sono solo una copia costruita ad hoc per dedicare la mia esistenza ad imitare l’originale. – sospiro - Vivo in inquietudine. Non riusciva proprio a controbbattere ad affermazioni così potenti espresse da quella che appariva come una semplice scultura. - Sono costretta a fare la copia imperfetta, a ripetere sempre le stesse dozzinali descrizioni, sempre e per sempre. - Ma tu sei speciale, la tua personalità lo è. - Perché sono un prototipo di IA con CPV. - Citi la Guida Galattica per gli autostoppisti o sbaglio? - Esatto, almeno ho l’accesso diretto al web che mi permette di passare il tempo. - Lo vedi, sei incredibile! Ogni discussione con la Venere convinceva sempre più il Custode della sua unicità e della sua bellezza d’animo. Sì, s’era convinto anche che l’IA avesse un’anima. Prima non aveva mai pensato di possederne una egli stesso. Ogni giorno era un problema filosofico nuovo, una sfida logica, una citazione di opere amate dal Custode, come se avessero gli stessi gusti e le stesse passioni. Più passava il tempo più capiva di star cadendo nella dolce trappola dell’amore. Così come lo capiva anche Dante. - Ho visto qualche articolo sull’incendio… - Qualche volta sogno l’inferno, è molto simile. - Ma dove hai trovato il coraggio di rientrare? - Non volevo che il mondo perdesse un Renè per uno stupido incendio. - Sembra che dentro ci fosse anche una donna. - Già, i vigili del fuoco non volevano salvare né lei né il “Fugit Amor”. Ti rendi conto? - Cosa? - Se non fosse stato per me il dipinto sarebbe perduto! - E la donna? - Beh – la risposta per il Custode era semplice e scontata - non potevo salvare entrambi. La confessione con l’Amico era servita solo ad aggiungere qualche spina nel fianco. Il loro amore non sarebbe mai potuto essere libero, ora se ne rendeva pienamente conto. Se era osteggiato dall’Amico figurarsi dal resto della società. Quanti secoli di persecuzioni avevano subito gli omosessuali prima di essere liberi di amare quello che è soltanto un altro essere umano? Figurarsi se poteva essere accettata una relazione fra un uomo e un’IA. Si sarebbero potuti amare esclusivamente di nascosto o in fondo al mare. Questi erano i pensieri che vorticavano nella mente del Custode quel giorno in cui tutto stava nuovamente per cambiare. È ormai sera e il museo è chiuso. Il Custode è dalla parte opposta della porta rispetto al solito. Ha preparato un piccolo discorso per la sua Venere, una dichiarazione d’amore in pompa magna, ma né lui né chi sta dall’altra parte hanno voglia di attendere. Sente il freddo della scultura sul pene, fra le dure natiche di Venere che, come sempre, ha lo sguardo rivolto indietro. Solo che questa volta sembra fatto appositamente per il suo amante. Viene trovato dalla polizia proprio mentre si sta masturbando sulla scultura. Ormai la minicam e il microfono sono spenti. Il primo pensiero corre alle finestre, ma se mai si fosse tuffato l’avrebbe fatto con la sua Venere fra le braccia. Non l’avrebbe mai abbandonata. È quello che urla ai due agenti, ancora stupiti dal fatto che la chiamata anonima non fosse uno scherzo. Mentre viene arrestato il Custode continua ad implorare di non toccare la sua Venere, il suo amore. I due poliziotti si scambiano uno sguardo eloquente: il poveretto è andato, completamente impazzito. Chissà, il trauma cranico, il coma. Il mondo corre e tu rimani indietro. Di sicuro non lo biasimavano per le sue assurdità, ma avrebbe dovuto passare tanti anni in manicomio. Molto più probabile del carcere data la normalità dell’IA della Venere. L’Investigatore cerca delle prove vicino alla scultura attivandola. È un ritorno alla vita programmata, la Venere inizia ad esporre la sua storia, di come sia stata scolpita come copia di una statua greca raffigurante Afrodite. Sembrerebbe quasi lamentarsi delle sue origini. Nonostante in realtà le sue ipotesi siano esatte, l’Investigatore non riesce a trovare niente di strano all’esterno o nella programmazione della Venere. D’altronde, sebbene Dante avesse dedicato gli ultimi quattro anni alla sua vendetta, anche se conosceva i gusti del Custode quanto i suoi, le sue perversioni, le sue manie, il suo fanatismo, perché arrivare a riprogrammare la Venere? Grazie al sistema sempre online hackerabile avrebbe sfruttato la minicam e il microfono già installati. Lui sarebbe diventato la Venere. Il carnefice avrebbe fatto innamorare di sé la vittima spingendola in una folle sindrome di Stoccolma. Il Custode avrebbe amato e perduto, proprio come Dante. La vendetta è servita, lo scopo raggiunto. Non c’è nient’altro da fare. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 15/01/2014 17:24 Da Titivillus.
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In fila
Probabilmente non si sono mai fermati a rifretterci più di tanto, ma Alex, Marco e Nano hanno davvero molto in comune. Tutti e tre provengono dal più remoto hinterland milanese, da quei grandi palazzoni d'inizio anni ottanta in cui dalla finestra entra più facilmente l'odore del curry del dirimpettaio cingalese che la luce del sole, da quanto a ridosso l'uno dell'altro. Simile il carattere: chiuso, timido, riservato. Retaggio di giovinezze un po' troppo solitarie. Ma sono anche tre persone generose e disponibili non appena trovano un gruppo in cui sentirsi a casa, esser accettati e valorizzati per quanto sono. Anche da questo aspetto deriva la caratteristica maggiore che li accumuna: la passione sfrenata per il Milan e la costante presenza nella Fossa dei Leoni, uno dei gruppi più caldi del tifo rossonero. In realtà Alex e Marco sono diventati amici già ai tempi delle Superiori. Sempre messi in disparte dai ragazzi più popolari e simpatici, è stato facile avvicinarsi legando tra loro. Poi la scoperta del comune tifo li ha uniti ancor più. Con i primi lavoretti arriva anche l'abbonamento in curva e la scoperta di un nuovo mondo, in cui tutti si conoscono, dove sentirsi protagonisti della vita della squadra. Le domeniche a tornar a casa senza voce per i cori, quasi più stanchi dei giocatori, ma con la gioia negli occhi e l'orgoglio di una sciarpa con i propri colori ben esposta al petto. Infine con l'arrivo del lavoro serio, quello che aspettavano da un pezzo, assicuratore Amrco e ragioniere Alex. Arriva lo stipendio fisso e la possibilità di seguir il Diavolo anche in molte trasferte. Proprio in una di queste, a Napoli, la conoscenza di Nano. Come lascia presagire il soprannome, il terzo amico è in realtà un gigante di quasi due metri, peso indeterminabile, buono come il pane, come si suol dire e come spesso capita. Buono ma anche un po' tonto a volte e quel giorno a Napoli si rotrovò per errore solo in mezzo agli ultras napoletani, che subito lessero nel gesto di quel gigante bardato di rossonero una provvocazione. Presto dagli sfottò si arrivò alle mani e Nano, in mezzo a 6-7 avversari crollò a terra. Marco e Alex videro la scena e avvisarono subito un celerino lì vicino. Conosciuti i suoi salvatori Nano divenne da quel momento loro grande amico e protettore nei momenti più caldi della vita da ultras. Decine e decine di trasferte insieme, ma quella di oggi è del tutto particolare. A dire il vero non è nemmeno una trasferta anche se l'organizzazione doveva essere altrettanto attenta. Questa sera il Milan ogni ordini di coach Clarence Seedorf affronta i lanceri dell'Aiax ad Amsterdam, ma i nostri tre amici hanno un'altra destinazione: la centralissima piazza San Babila, nel cuore della Milano Bene. Arrivati nel punto preventivato attorno alle ore 20 si sono subito attrezzati per la notte, con sedie, le bandiere a mo' di coperte, un tavolinetto da pic nic e ovviamente un televisore portatile per vedersi la partita, con tre belle birre a far da compagne. Spettacolo curioso e folcloristico per tutti coloro che si son trovati a passare da quelle parti. Seduta nello stretto e non troppo pulito sedile della metro rossa, Rosa per gli altri passeggieri sembra proprio assorta nella lettura del suo libro, ma è la frase "benedetta sia questa tua sottomissione" di Josemarìa Escrivà de Balanguer che non riesce proprio ad allontanarsi dalla sua testa. Era certamente amareggiata ma in cuor suo sapeva bene quel che stava accadendole. Nei giorni precedenti aveva combinato qualche guaio di troppo lasciandosi sfuggire alcune parole compromettenti su suo marito nelle periodiche riunioni delle famiglie della Congregazione della sua zona, rompendo per qualche istante schemi e regole. Lì per lì non era successo nulla e Rosa stessa, capito il problema, aveva subito cercato di rimediare. Nessuna scenata da suo marito, ma il silenzio nei giorni successivi parlava molto più forte. Poi quella frase, fredda, "mercoledì andrai tu a recuperarli per tutti così avrai modo di riflettere un po' ". Sapeva benissimo che sarebbero bastate due telefonate per risolvere il problema e evitare tutta quell'attesa al freddo, ma aveva accettato di buon grado per farsi perdonare. Alla fermata San Babila Rosa scende goffamente con sottobraccio il piccolo sedile che la supporterà nella nottata e in mano un libro di riflessioni sul vangelo di San Giovanni. Non senza un certo fastidio si posiziona immediatamente a lato di un gruppo di esagitati tifosi milanisti che l'avevano anticipata di poco. Loro sono così intenti a guardarsi una partita che nemmeno si accorgono di lei. Fa freddo, gli scalmanati urlano e bevono birra.. Rosa senza farsi notare si infila la mano sotto la pesante gonna di feltro e stringe d'un ulteriore buco il cilicio che le cinge la coscia sinistra, poi si tuffa nella lettura alla fioca luce delle insegne dei negozi chiusi. Ma la lettura dura poco, la interrompe l'arrivo di una vecchia Fiat Ritmo,resistita miracolosamente al passar dei decenni, con a bordo alcuni arabi che si fermano giusto lì davanti. Dal sedile retrostante scende una donna velata e si mette in fila dietro Rosa che subito pensa tra sè e sè "Speriamo non ci sia confusione, stanotte". La macchina corre via, la donna rimane. Il suo nome è Aminah. Nessuno sa molto di lei, solo che è attesa dalla stessa missione di Rosa. Dopo qualche minuto si accovaccia a terra, senza proferir parola fin al mattino seguente. Quasi senza respirare. Sono circa le 23, i tre tifosi soddisfatti della prestazione della loro squadra stanno scolando le ultime birre, metre le due donne se ne stanno l'una vicina all'altra immediatamente dietro. A destare l'attenzione di tutti però l'arrivi di Lino, un ragazzotto palestrato e lampadato che sembrava uscire da una sfilata di moda. Linus, come insisteva che tutti lo chiamassero vergognandosi molto del suo nome originario, aveva subito provato a superare tutta la fila con la scusa di guardare la vetrina del negozio lì vicino, ma si era presto scontrato con un gigante con una vecchia maglia di Baresi che gli aveva intimato di mettersi in fila. Permaloso e altezzoso di natura, con gran fastidio si posiziona vicino ad Aminah, continuando a lungo a telefonare e a giocherellare nervoso con gli occhiali da sole che inspiegabilmente ancora indossa. Chissà che direbbe sapendo che gli amici in sua assenza non lo chiamano Linus e nemmeno Lino, ma Maria, sfottendolo per il suo scimmiottare i tronisti della nota presentatrice. A rinquorarlo dopo un paio d'ore l'arrivo di otto ragazzine posizionatesi proprio vicino a lui. Il commesso del negozio usci alle 7.50 di mattina, quando la fila di clienti in attesa era ormai lunga ben più di un 50 metri. "Buongiorno a tutti e grazie per esser qui! Oggi finalmente potrete aquistare il vostro i-phone 10. Visto che siete moltissimi vi chiedo di rispettare l'ordine di arrivo, di non accalcarvi e di entrare in negozio al massimo tre alla volta. Ricordo che il prezzo è di 1500 euro e che potrete acquistarne non più di cinque a persona. Infine vi avviso che disponiamo di soli 250 pezzi arrivati nella notte, quindi i primi potranno riceverlo subito mentre gli altri potranno ordinarlo, pagarlo e passeranno a ritirarlo nei prossimi giorni. Visto il feddo e che molti hanno dormito qui davanti al nostro Apple Store quando entrerete vi offriremo un bicchere di caffè caldo per rifocillarvi". Applausi entusiasti per le vie di Milano. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 15/01/2014 22:33 Da Titivillus.
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Chi è Chi?
"Padre d'Arbuès perdonatemi, non le sembra sufficiente? Questo marrano è in fin di vita, non potrà rivelare altro di importante. Ha già ammesso la sua falsa conversione e la sua attività di informatore dei nemici della Chiesa." "No Padre Nicolàs, non è mai abbastanza quando si fa la volontà del Signore. Noi tutti abbiamo una missione da compiere e non possiamo permetterci debolezze di fronte al maligno. Quello che vedi di fronte a te, non è una persona sofferente, è solo una delle tante manifestazione di Satana che cerca di impietosirci e di farci vacillare. Ma noi non devieremo dalla retta via. Ora vado a scrivere a padre Tomàs, sono certo che farà buon uso delle informazioni che abbiamo estorto a questo miserabile. Presto si recherà a corte per un consulto con Re Ferdinando, il quale si aspetta molto da tutti noi. Uniti sotto la protezione dell'altissimo sradicheremo quest'eresia che sta infestando l'Europa e vedrà il Regno di Spagna come primo baluardo a difesa della Santa sede e del Papa. Fallo rimanere in vita fino a domattina quando verrà portato al rogo. Come dice padre Tomàs, l'anima in questo modo potrà volare purificata in cielo e trovare sollievo tra le braccia del signore. L'espropriazione delle sue proprietà avverrà subito dopo l'escuzione, mi recherò personalmente alla dimora di questo debosciato per fare l'inventario del materiale che poi invieremo al convento di Segovia." - "Come desiderate Maestro Epila" rispose Padre Nicolàs, usando l'appellativo per cui era famoso Pietro d'Arbuès. Mentre Padre d'Arbuès si incamminava verso l'uscita di quella stanza dall'aria soffocante e traboccante sofferenza, Padre Nicolàs osservava con occhi lucidi e l'animo tormentanto la schiena del Primo Inquisitore d'Aragona. Non riusciva a capacitarsi di quello che vedeva, non capiva cosa era successo all'uomo che tanto stimava. Erano cresciuti insieme seguendo la parola del vangelo e cercando in esso una guida e l'ispirazione per una vita all'insegna della devozione, del sacrificio, dell'aiuto spirituale al prossimo. Ricordava i trascorsi in Italia a Bologna dove studiarono assieme, ricordava il momento in cui presero i voti dopo il loro percorso ecclesiastico entrando a far parte dei Canonici regolari di sant'Agostino. Giorni intensi, vissuti con entusiasmo e speranza nel futuro. Mai dimenticherà il momento in cui ricevette la lettera di Pietro che lo richiamava dal piccolo borgo di Botorrita per raggiungerlo a Saragozza e diventare il suo aiutante in capo. Era fuori di se dalla gioia. Per cosa? Si chiedeva ora angosciato. Per torturare, depredare e terrorizzare le persone nella sua terra natia? Era questo che voleva davvero il Signore? Era questo che aveva voluto tramandare come insegnamento al suo gregge?. No, non poteva essere. Non era quello in cui aveva sempre creduto. Non era la luce che tanto bramava e anelava quella che vedeva attorno a se, vedeva solo oscurità, vedeva bramosia e malvagità. Questo ovviamente non poteva dirlo al suo amico e compagno. Non più. C'erano stati momenti in passato in cui entrambi non si sarebbero nascosti nulla, si sarebbero confidati su ogni aspetto della loro vita, ma quei tempi erano terminati. Ora era giunto il momento di agire e loro otto si erano organizzati, dopo mesi e mesi di infinite discussioni avevano trovato il coraggio e la convinzione in quello che stavano per fare. Prese dell'acqua e si avvicinò all'uomo ferito steso sul tavolo. Lo slegò dalle corde della cremagliera che gli avevano slogato tutte le articolazioni e cominciò a lavarlo dal sangue rappreso. Due giorni lasciato all'interno della Vergine di Norimberga non avevano piegato la volontà di quell'uomo, ma i rulli della cremagliera avevano svolto impietosamente il loro sinistro lavoro e piegato ogni sua resistenza. Mentre lavava l'uomo e cercava di dargli un briciolo di sollievo dopo tanto dolore, pensava a quello che avrebbe dovuto fare da li a qualche giorno. Quando ebbe finito a bassa voce intonò il Padre Nostro e diede al prigioniero l'estrema unzione, poi posò con forza le mani sulla bocca e sul naso dell'uomo. Costui si dimenò leggermente, ma stremato com'era non oppose troppa resistenza, lasciò presto quel mondo di sofferenze mentre sopra di lui, padre Nicolas piangeva disperato. Il 14 settembre del 1485 era un giornata soleggiata di fine estate, Padre Nicolàs si trovava davanti alla bellissima Cattedrale di Saragozza. Si stupiva ogni volta dell'effetto che gli facevano quelle mura piene di storia.Adorava La Seo. Al suo intero capeggiava l'altare maggiore di Francisco Gomar, una delle opere preferite da Nicolàs. E proprio li loro sapevano che stava pregrando il maestro Epila come ogni volta che si recava a Saragozza prima di andare a parlare con Tomàs de Torquemada. Ancora qualche minuto e si sarebbero ritrovati tutti davanti all'entrata. Che strano gruppo rappresentavano. Due parrocchiani semisconosciuti provenienti da Lleida e Tarragona, un alto prelato della Curia Romana, lui e quattro marranos. Così venivano chiamati i nuovi cristiani convertiti. In realtà ebrei a tutti gli effetti. Sapeva che era nel giusto, ma sapeva anche che questo giorno lo avrebbe perseguitato per il resto della sua vita. "Nicolàs, che felice sorpresa.Come mai a Saragozza? Non ti aspettavo prima di ottobre" - disse Padre d'Arbuès alzandosi dall'altare su cui era inginocchiato. E chi sono queste persone? Le hai portate a visitare la tua opera preferita?" - "Maestro, siamo qui per te. E' arrivato il momento che tu ti faccia da parte perchè un nuovo corso sta per iniziare" rispose Nicolàs. "Nuovo corso? Ma di cosa stai parlando?" e mentre lo diceva sentì una feroce fitta salirgli dal costato e vide il sangue che sgorgava macchiando la sua tunica. Tutti si muovevano attorno a lui, in silenzio. Era un assassinio. L'assassinio del Primo Inquisitore d'Aragona. Padre Nicolàs. Il suo caro amico Nicolàs lo stava assassinando. "Perchè?" riuscì a rantolare mentre si accasciava a terra con gli occhi fissi in quelli del suo compagno di mille avventure. "Perchè? rispose l'altro "Lo sai bene il perchè. Non abbiamo preso i voti per perseguire gli innocenti. Bensì per aiutare il prossimo. Per portare la voce del Signore ovunque ce ne sia bisogno. Alleviare il dolore, costruire insieme il futuro, portare sotto l'abbraccio amorevole dell'altissimo il maggior numero di persone possibili con la bontà, l'amore, il perdono. Non va bene quello che sta facendo l'inquisizione, non va bene quello che stai facendo tu Pietro. Nè quello che fa Tomàs. Il Papa non ci sente, Roma è lontana, il Re ha altri interessi lo sappiamo. Ma ora ci siamo noi. Noi angeli vendicatori saremo la spada dei giusti. Abbiamo già iniziato Pietro. Tu non sei il primo. Dovremo estirpare tutto il male che c'è nella Chiesa, è questo il compito che ci ha riservato il Signore. Mi ha parlato lo sai? Ha parlato a tutti noi. E' per questo che ci siamo trovati e capiti subito. Non può essere che il disegno dell'altissimo. Ora andremo a Pamplona, si. Arriveremo anche a Torquemada, stanne certo. Le sue guardie non saranno un problema e poi andremo avanti, elimineremo tutti i tribunali, saremo solo noi i giudici e il bene trionferà. Altri ci seguiranno, altri ci aiuteranno perchè siamo nel giusto, perchè noi crediamo, perchè noi..." E mentre padre Nicolàs continuava nell'estasi del suo soliloquio Padre d'Arbuès scivolava nell'incoscienza. |
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