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"Non bisogna mai smettere di avere fiducia negli uomini. Il giorno che accadrà, sarà un giorno sbagliato."
Titta Di Girolamo - Le conseguenze dell'amore Il giorno sbagliato è il tema della seconda tornata di UniVersi, c'è tempo fino al 15 febbraio compreso per postare il proprio racconto in gara. REGOLE - Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 6000 (spazi compresi, titolo escluso). Potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito; utilizzate Firefox dato che con altri browser il conteggio non risulterà esatto. - I racconti devono avere un proprio titolo e devono essere postati in forma anonima, effettuando il login con nome utente Titivillus e password universi. - Qui potete trovare il regolamento completo. RACCONTI IN GARA - Il tibetano (5993) - Coincidenze (5988) - "Houston, abbiamo un problema." (5976) - Pasqua (5938) - Sventure tipografiche (5977) - Origami (5788) - Viaggio di nozze (5922) |
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Ehi dol! Bel dol! Suona un dong dillo! Suona un dong! Salta ancor! Salice bal billo! Tom Bom, bel Tom, Tom Bombadillo!
Ultima modifica: 17/02/2014 11:25 Da Tavajigen.
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Il tibetano
Era la fine di giugno 1984 quando discussi la tesi di laurea davanti alla commissione. L’ultima formalità da sbrigare nel migliore dei modi per garantirsi quel 110 e lode al quale ambivo sin dall’inizio del mio percorso universitario. Laurearsi in economia, con quel voto, in quell’Università, voleva dire essere prima di tutto fortunati ad avere una famiglia che aveva supportato ogni scelta fatta dal sottoscritto ma voleva altresì dire essere tra i prescelti di quell’annata. Difatti non passò neanche un mese ed arrivò una chiamata da parte di una delle più importanti società finanziarie mondiali. Era la prima settimana di Agosto, la città era ancora viva ma molto meno caotica del solito. Il refrigerio dell’aria condizionata fu un sollievo una volta oltrepassata la soglia del palazzo di quell’istituzione. Sui divanetti c’erano altri tre coetanei ad attendere. Mi registrarono e mi accomodai anche io. Dopo poco meno di un quarto d’ora, raggiunte le dodici unità, ci fecero salire al settimo piano. Ci presentarono la società, la loro storia, le loro ambizioni e perché eravamo lì. Noi eravamo i dodici talenti che la società aveva deciso d’ingaggiare per rafforzare il loro capitale umano. Provai un deciso orgoglio nel sentirmi definire tale. L’accoglienza fu importante ma per niente fuori dai rigorosi schemi. Elegante e gerarchica. Io ero abbastanza curioso di capire quale sarebbe stato il nostro primo incarico e credo che la stessa sensazione la provassero anche gli altri. Quando ci comunicarono che il giorno seguente ci saremmo dovuti incontrare in un parco di una villa del brianzolo rimanemmo interdetti. Perché? A fare cosa? La società in questione, al fine di valorizzare ognuno di noi e di creare un vero spirito di squadra, organizzava queste giornate dove si svolgevano delle prove di sopravvivenza. Roba da “uomini veri”. La naturalezza con le quali pronunciarono quelle parole fece sembrare il tutto come una normale prassi da affrontare. Quasi fosse un rito d’iniziazione. Guadammo un ruscello prestando attenzione ai sassi sui quali spostarsi, saltellammo tra copertoni di trattori all’interno di un percorso fangoso, saltammo e ci abbassammo in un altro percorso fatto di vari ostacoli fino ad arrivare alla penultima sfida: il ponte tibetano. I primi lo passarono senza particolari difficoltà come per il resto delle prove. Io stesso mi stupii di me stesso ed arrivai alla fine quasi senza accorgermene. Il ragazzo dopo di me, invece, cadde. Gli altri che erano già all’arrivo sembravano quasi goderne. Io ci rimasi male. Lui tornò indietro mentre anche i tre rimasti dopo di lui arrivarono con successo alla fine al primo tentativo. Lui ci riprovò e cadde di nuovo. Anche il terzo tentativo non andò a buon fine. Per tutti noi divenne immediatamente il tibetano. L’istruttore propose di dirigerci già nei pressi dell’ultima prova di squadra. Tutti gli altri si allontanarono. Io, al contrario, rimasi lì a fare il tifo per lui. Non ci conoscevamo e ricordavamo a malapena i nostri nomi ma per me era già un compagno. Lo incitai e la sua caparbietà fu incredibile. Ci riprovò almeno altre venti volte: tutte senza successo. Tornava indietro, si concentrava e ci riprovava convinto di potercela fare. Alla fine anche l’istruttore desistette ed andammo tutti, il tibetano compreso, all’ultima prova. Scavalcammo il muro messoci di fronte e con l’aiuto della corda ci riuscimmo tutti al primo tentativo. Ci scambiammo le ultime parole e ci promettemmo di restare in contatto. Venimmo assegnati tutti in filiali diverse. Nel giro di due anni, perdemmo ogni traccia l’uno dell’altro. Quattordici anni dopo quell’esperienza venni invitato ad una riunione europea della società. Non avevo fatta troppa carriera, nonostante quegli anni di esperienza, ma l’essere arrivato ad avere un ufficio proprio, con procedure proprie e con la possibilità di organizzarsi autonomamente tempo e spazio non era cosa da poco. «Marco! Ma sei proprio tu?» Mi girai di scatto. Misi a fuoco il viso ma non riuscii in nessun modo a collegarlo. «Sono Guido, ti ricordi? Quanto tempo è passato da quel giorno al parco. Ed alla fine non ti ho mai ringraziato abbastanza per essere rimasto lì a fare il tifo per me» “Porca miseria, il tibetano?!” pensai “e si ricorda pure il mio nome...” Mi guardai intorno e vidi più d’uno sguardo invidioso da parte di qualche collega di sede. Quello che mi aveva rivolto parola e che mi aveva chiamato per nome non era proprio uno degli ultimi a quanto pare. Cominciammo a parlare. Lui si, aveva fatto una carriera decisamente più interessante ed era a capo della filiale nazionale più importante di tutte. Ma la cosa che più mi colpì del tibetano fu la semplicità con la quale parlò proprio di quell’episodio. Io, vista l’importanza, non avrei mai aperto quella finestra. Gli risposi con un: «le giornate storte capitano a tutti...» e lui, mi stupì. «Marco, non fu solo una giornata storta. Quel giorno, quel ponte, mi fece capire che nella vita ci sono dei limiti. E non c’è niente di meglio che rendersene conto e prenderne atto. Quello che poteva essere un giorno sbagliato è diventato per me un giorno nel quale imparare una lezione di vita davvero importante. Avere almeno il tuo supporto nonostante il mio fallimento è stato quanto di più prezioso potessi ottenere in quel momento» Rimasi davvero interdetto senza saper cosa rispondere. Io, del tibetano, manco ricordavo il nome fino a qualche secondo prima. Lui, invece, non solo si ricordava di me. Ma in quel giorno era stato forse l’unico ad aver davvero imparato qualcosa da quell’esperienza inutile. «Sai qual’è stata la mia vera fortuna finora, Marco?» «Quale?» «Che quello è stato il primo ed ultimo ponte tibetano della mia vita. Meno male che qui nella “city” non capita mai di doverne attraversare!» Ridemmo entrambi e concludemmo la serata a raccontarci cosa eravamo diventati dopo quel giorno. Da quel momento, il tibetano, divenne Guido, uno dei miei più grandi amici di sempre. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 11/02/2014 23:21 Da Titivillus.
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Coincidenze
La sveglia strillò impietosa nell’oscurità della stanza, strillò per un minuto intero prima che una mano sbucasse dal buio mettendola a tacere. Una sagoma appesantita emerse dal letto, il sonno impediva agli occhi di aprirsi, le membra protestavano per la notte agitata. In quei primi istanti di alzataccia, quelli in cui la mente è annebbiata e dalla bocca escono mugugni incomprensibili, l’uomo cercò di dare un senso alla giornata. “Allora...ieri sera sono uscito, cinema e pub, a casa mi sono messo a leggere...” i pensieri presero forma lungo il difficoltoso tragitto camera-bagno, “...poi ho controllato il cellulare...cristo santo, è oggi l’appuntamento!” Il suo corpo reagì come scosso dalla 220: si buttò nella doccia, scansandosi indignato al contatto con l’acqua fredda. Si fece bastare cinque minuti, schizzando fuori dal bagno del tutto sveglio. Dopo una colazione di latte freddo consumata in accappatoio (la tensione gli impedì di magiare alcunché di caldo e solido) cominciò a vestirsi. Chinato sulle scarpe finalmente si fermò un attimo, per calmarsi e ragionare: era in perfetto orario, pulito e profumato, pronto per l’incontro di quella domenica. Si era segnato ovunque quell’appuntamento, dai post-it sparsi per casa all’agenda del lavoro. Ovviamente, l’idea di quell’incontro aveva monopolizzato ogni suo pensiero nell’ultima settimana. Allora prese a muoversi lentamente, con la cupa rassegnazione di chi stesse per finire dritto sulla forca. “Cazzo è solo un dannatissimo caffè! Due chiacchiere e via...”. Niente da fare, era teso, agitato, ansioso. Eppure attendeva quel momento da quando aveva conosciuto Mary80 sul sito di incontri online, poco tempo prima. In foto pareva carina, una moretta sobria e posata, acqua e sapone. Lavorava in uno studio legale non lontano dal centro di Milano; per quanto ne sapeva lui, una persona ordinaria con una vita regolare. Scendendo in strada Riccardo ignorò la frizzante brezza settembrina, che spazzava allegra la strada con folate veloci e improvvise. In attesa della corriera l’uomo rimase a fissare il vuoto, amaramente conscio del proprio disagio: da troppo tempo era avulso dalla compagnia femminile. La discreta frequentazione virtuale cui si dedicava da un po’ appariva squallida a molti, insensata ad altri. Ma gli aveva dato la possibilità di riavvicinarsi ad un universo, quello femminile, da cui si era allontanato due anni prima, colmo di rabbia e sfiducia. Essere lasciati a un mese dalle nozze non capitava a chiunque. Sulla corriera timbrò il biglietto, pensando che c’era troppo traffico per essere domenica mattina. Ma non fece caso ai giovani con l’aria persa che occupavano buona parte del mezzo, così come non si accorse dei quaranta minuti passati in piedi. Appoggiato ad un freddo palo metallico osservava la sua immagine riflessa dal vetro: quella di un uomo adulto, dal viso stanco e abbattuto, “una faccia indifferente” pensò. Spinse lo sguardo oltre, ai caseggiati che correvano veloci sullo sfondo, lasciando che anche i suoi pensieri corressero con loro, per andare chissà dove. Il tempo passò anche troppo presto. Scese a Piazza Italia dirigendosi incerto all’angolo prescelto, davanti a un tabacchi chiuso. Tirò fuori il cellulare e guardò l’ora. Era in anticipo di venti minuti. Si mise a camminare seguendo una traiettoria circolare, quasi stesse segnando il territorio coi suoi passi strascicati e lenti. Non passarono dieci minuti che Riccardo vide arrivare verso di lui, a passo deciso, una figura snella e slanciata. Doveva essere lei, non c’erano altri indiziati nei dintorni. L’uomo sfoderò da lontano il sorriso più affabile che poté, ripassando mentalmente le conversazioni avute: ricordava poco o niente. Si trovò davanti una donna giovane, castana scura e occhi chiari, più alta di come si aspettasse. Anche più bella, decisamente. -Ciao, scusa il ritardo!- disse lei. Una ventata di freschezza lo colpì, come svegliandolo dal torpore. -Ciao, piacere...- -A dopo le formalità, sto morendo di fame! Andiamo al Cafè Maxim ti va? È un po’ fighetto ma tranquillo, poco rumore e nessun rompipalle!- Lo prese sottobraccio con naturalezza, dalla fretta non si presentarono nemmeno. Nel tragitto dalla piazza al bar Riccardo venne travolto dall’energia irresistibile di quella donna. Aveva una risata quasi sguaiata che attirava sguardi stupiti, una voce squillante, la battuta pronta. Non era per nulla preparato a tutto questo, fu come se un’ondata di acqua pura e increspata avesse abbattuto un vecchio muro di cemento, grigio e spento. Si sedettero all’interno, presso un tavolino vicino all’entrata. -Ti immaginavo un po’ diverso sai- disse lei dopo avere ordinato, fissandolo negli occhi. -Beh anche io sono rimasto un pochino sorpreso...- rispose. -Spero in meglio...- stuzzicò lei languidamente. L’uomo aveva ripreso velocemente il controllo di sé, il viso smunto e spento era caduto come una brutta maschera di cera, rivelando la sua vera identità: un trentacinquenne dagli occhi svegli, il sorriso sornione e una gentilezza che colpiva. Prima che arrivasse l’ordine, la donna prese l’iniziativa. -Sai che sei proprio simpatico, Marco- -Vorrai dire Riccardo! Chi è Marco, il tuo ex?- scherzò lui. Lei si fece serissima. -No dai, non scherzare...sei Marco di Single in Zona no?- -Ehm no, sono Riccardo...e tu non sei Mary80, suppongo- I due si fissarono un attimo e scoppiarono a ridere. -Ma dai non ci credo...comunque piacere, Laura!- -Riccardo! Quindi gli altri due ci stanno cercando, che domenica assurda...- disse lui. -Già...a parte il fatto che oggi è sabato!- -Come sabato?- fece sorpreso. -Guarda con chi sono uscita, non sai nemmeno che giorno è...- rispose lei tra mille sorrisi. Riccardo constatò divertito di essersi confuso, mentre Laura (che aveva davvero un appuntamento quella mattina) dimenticò di avvertire l’altro, forse di proposito. I due prolungarono l’incontro ben oltre il tempo di un caffè, in quello che per Riccardo fu un bellissimo giorno sbagliato. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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"Houston, abbiamo un problema."
In trentadue anni di attività come Capo Operativo del centro controllo missione al Lyndon B. Johnson Space Center, Greg Harris aveva sentito quella frase solo altre due volte. La speranza di non doverla udire mai più, prima della pensione ormai prossima, venne così dissolta dalla voce del comandante Tom Baker, proveniente dall'astronave Event Horizon, in viaggio a milioni di chilometri di distanza. "Siamo a 3 ore e 17 minuti dall'inizio della procedura di frenata e di aggancio ad Urania, ma il radiofaro della stazione...beh, ha smesso di trasmettere, di punto in bianco, da esattamente 2 minuti e 43 secondi. Attendiamo conferma ed eventuali nuovi ordini. Passo e chiudo." La terza missione del programma di discesa umana su Marte aveva il compito di ultimare la costruzione di Urania: una stazione in orbita fissa intorno al pianeta rosso, che avrebbe fatto da punto di appoggio per lo sbarco, pianificato per l'anno seguente. Harris si passò una mano sui folti capelli a spazzola, tic che aveva fin dai suoi primi giorni alla NASA, biascicò lo spento mozzicone di sigaro che gli spuntava da un lato della bocca e passò lo sguardo sui tecnici che affollavano la sala di controllo, caricando ulteriormente il timoroso silenzio che era calato. Poi si voltò verso gli addetti alle trasmissioni, i quali si affannarono sulle tastiere dei computer di fronte a loro, ancora prima che lui dicesse qualcosa. Dopo qualche secondo, uno di loro si rivolse a Harris. "Affermativo Signore, non captiamo alcun segnale proveniente da Urania." Harris gettò il sigaro con rabbia in un cestino vicino. "Inviate la conferma alla Event Horizon e dite loro di attenersi al programma. Chiamatemi Green, lo voglio vedere nel mio ufficio, subito!" A Norman Green sudavano le mani quando entrò nell'ufficio di Harris. Si sistemò gli occhiali sul naso aquilino e si sedette su una sedia di fronte alla scrivania. "Mi ha convocato, Signore?" "Dottor Green, lei è il responsabile capo degli analisti che hanno effettuato i calcoli di missione, avrà sicuramente ascoltato la conversazione di poco fa con il comandante Baker, dunque saprà già che il radiofaro di Urania ha smesso di trasmettere." Green abbassò lo sguardo. "Sì Signore, ho seguito tutto dal reparto analisi." "Un cervello svelto come il suo avrà quindi già capito che possono essere successe solo due cose lassù: o quel fottuto radiofaro si è semplicemente rotto, e quindi Urania sarà là quando la Event Horizon arriverà, oppure Urania si trova dalla parte opposta di Marte, da cui il segnale non può arrivare per mancanza di satelliti di rimbalzo, e quindi i nostri cari ragazzi dovranno consumare le riserve di carburante per raggiungerla, mettendo a rischio tutto il proseguo della missione. Visto che lei è una persona molto intelligente, immagino che ben comprenda di chi sarebbe la colpa in questo secondo caso." Green aveva sempre odiato questo modo di fare di Harris, ma si limitò a stare al suo gioco, come del resto aveva fatto ogni volta prima di allora. "Sì Signore, sarebbe interamente colpa del mio reparto...e me ne assumerei immediatamente la responsabilità." Harris si alzò di scatto, si sporse sulla scrivania e puntò il dito indice su Green. "E vorrei ben vedere! Ora lei se ne tornerà in quel buco da dove proviene e, insieme ai suoi cari colleghi, ricontrollerà i calcoli dell'intera missione. Poi si ripresenterà da me con dei risultati che siano attendibili e che, spero per lei, escludano al 100% la possibilità che Urania si trovi dall'altra parte di Marte." "Houston, qui Event Horizon, procedura di frenata completata. Siamo in orbita, abbiamo Marte davanti a noi. Comunico però che non abbiamo nessun contatto con Urania, né radar né visivo. A questo punto possiamo confermare l'assenza della stazione in questo quadrante di orbita. Attendiamo istruzioni." Harris si passò una mano tra i capelli e si preparò al peggio. La situazione era semplicemente drammatica per la Event Horizon: dovevano calcolare una rotta che li avrebbe portati fino ad Urania utilizzando i motori di bordo da navigazione locale, che avevano una capacità molto limitata rispetto al propulsore sub-luce da viaggio interplanetario. Se il carburante fosse finito prima di raggiungere Urania, avrebbero dovuto annullare la missione e sarebbero dovuti tornare indietro...ma in tutto ciò, dove diavolo era Urania? "Ehm, Signore...mi scusi." La timida voce del Dottor Green distolse Harris da quei pensieri; la furia crebbe dentro di lui, voltandosi per fronteggiare il capo analista. "Dunque Green, questi dati?" L'analista affrontò il suo destino. "Abbiamo ricontrollato tutti i calcoli e...effettivamente abbiamo riscontrato un errore, un banale errore riguardante i moti di rivoluzione di Terra e Marte e la distanza tra essi. La partenza della Event Horizon ha sofferto pertanto un ritardo di esattamente 23 ore e 16 minuti rispetto alla giusta finestra di volo. Gli analisti stanno già prontamente ricalcolando l'attuale posizione di Urania, a noi totalmente sconosciuta, in modo che la Event Horizon riesca, almeno spero, a stabilire una rotta di avvicinamento. Alla relazione sull'accaduto le allego le mie dimissioni, Signor Harris." Harris era sbigottito. "Lei...lei vuole farmi credere che li avete fatti partire con un giorno di ritardo, che li avete mandati a rischiare la vita...per un fottuto errore di calcolo?!" "Houston, qui Event Horizon, spero che riusciate a sentirmi." La voce del comandante Baker interruppe la discussione. "La missione è annullata, ripeto: la missione è annullata. Non abbiamo potuto avvertirvi prima, ma siamo dovuti rientrare in tutta fretta in propulsione sub-luce, in direzione Terra. La stazione Urania è distrutta, forse dalla collisione con un asteroide, e siamo stati colpiti da molti suoi detriti; abbiamo alcune avarie, tutte sotto controllo. Ce la siamo vista brutta, ma siamo stati fortunati: se avessimo agganciato Urania qualche ora fa saremmo stati spazzati via! Passo e chiudo." |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 12/02/2014 13:07 Da Titivillus.
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Pasqua
Un uomo nudo camminava con fare tranquillo. La sua folta chioma, le ferite ancora aperte, gli addominali ipertrofici e la barba da uomo saggio gli conferivano una sicurezza che gli avrebbe potuto permettere di sfidare il diavolo. Aveva visto una figura femminile in lontananza, voltata di spalle, ma la riconobbe solo dopo aver percorso pochi metri. Decise di prenderla alla sprovvista. - Cucù! - Oh Cristo! Sul volto dell’uomo apparve un riso sardonico – Esatto! Lo stupore della donna era pari a quello di chi volgendo lo sguardo al cielo vede le stelle per la prima volta. - Perché fai così Maddy? – terminata la domanda Gesù ebbe un’intuizione che gli parve brillante – Sono nudo solo perché il sudario è tutto sporco di sangue! Lo sai che mi fa senso. La Maddalena non mutò espressione. La già troppo tartassata pazienza di Cristo se ne andò a farsi benedire. - Se ti faccio così schifo noli me tangere. Pussa via. Un morto vorrebbe un minimo di festeggiamenti alla sua resurrezione, non capita di certo tutti gli anni. – Non è per quello. È che oggi…ehm…come posso dire… - l’esitazione di Maria era irritante quasi quanto il suo precedente mutismo – beh, non è il giorno giusto. Lo sconcerto si diffuse sul volto di Cristo – Non è sabato Magda? – si divertiva a chiamarla con diminutivi sempre diversi. Maria gli ricordava la madre mentre Maddalena semplicemente non gli piaceva. - Sì, ma tu avevi detto che saresti resuscitato il terzo giorno. Dallo sconcerto passò all’ebetismo. - Embè? - Ah, santa pazienza…sei morto venerdì. – gli pose davanti la mano chiusa iniziando a conteggiare - Venerdì, sabato e domenica! Fu un’epifania - Oppapà! - Che hai intenzione di fare? A casa di Maria Maddalena una tunica ricopriva finalmente il corpo sfigurato di Cristo. - Nascondermi, cara Madeleine. Ho un appuntamento con lo Spirito Santo oggi…cioè domani. - Potresti trattenerti un’altra quarantina di giorni in fondo. - Certo, in villeggiatura nel luogo in cui mi hanno messo in croce. - Non vuoi salutare neanche tua madre? - Chi?! Quella pazza scriteriata sarebbe capace di rinfacciarmi ancora di avermi fatto passare attraverso il suo imene. E poi cosa dovrei dirle? “Ciao mamma, sono resuscitato un giorno prima per sbaglio, butta la pasta”? - E gli apostoli? - Chi l’impiccato, il rinnegatore o... – si bloccò perché si rese conto di star diventando sempre più nervoso. Era stato un suo errore e lo Spirito Santo non sarebbe di certo arrivato prima. Se ne voleva andare e ancora non poteva. - Scusa Lena, è solo che è il mio secondo fallimento. Si sentiva un bimbo infagottato da una madre iperprotettiva, ma se non si fosse coperto del tutto non sarebbe passato inosservato. Evitò di uscire per le strade di Gerusalemme e andò in un’osteria di Emmaus, influenzato nella scelta dal nome, “Pane e Vino”. Il clima era gioioso e coinvolgente - Osteria numero otto, paraponzi ponzi po, Dio ha fatto un gran casotto, paraponzi ponzi po, perché gli han ammazzato Gesù che ora fertilizza meglio della pupù! – non era proprio la sua giornata. Si avvicinò ad un tavolo i cui due occupanti non erano impegnati in cori che gli davano del concime. Non lo riconobbero, ma lo invintarono a cenare con loro. Il Cristo giustificò tutto quel tessuto addosso con un background costruito ad arte che durò finchè non spezzò il pane. Dannata educazione della Madonna. - Ma tu sei…tu sei… - il più anziano dei due era talmente stupefatto da sfiorare un attacco cardiaco – uno zombie! Colui che si faceva chiamare Gesù avrebbe tanto voluto assumere le sembianze di Belzebù. - Hai moltiplicato il pane, miracolo! - Ogni volta la stessa storia, l’ho solo spezzato! - Tommà smettila di mettere il dito nella piaga! - Perdono mio Signore, se non tocco non credo. - Non ricordo che tu abbia detto così. Il Cristo si volle presentare un’ultima volta ai suoi discepoli per dimostrare anche ai meno fiduciosi la sua resurrezione, ma soprattutto voleva mettere ben in chiaro le cose con alcuni di loro. - Tu eri Pietro. Invece sei un infame rinnegatore e farai il muratore. Edifica una chiesa lontano da qui e in un posto pericoloso. Diciamo a Roma. Non prestando attenzione al piagnucolio di Simon Pietro, Gesù si volse a Giovanni e Matteo. - Ho letto le vostre storie su draghi e maghi, sareste capaci di scrivere una mia biografia? Però bella avventurosa e piena di suspense! Voglio che la gente sia stupefatta pur conoscendo già il finale. Che sia unica mi raccomando. Al massimo fatevi aiutare da qualcuno. Continuò a dare indicazioni varie agli apostoli, sempre evitando lo sguardo di Pietro. Finchè in ultimo, con una tirannica luce negli occhi, disse loro: - Diffondete la parola del Signore, viaggiate e convertite tutti anche a costo di essere martirizzati! Quasi come se il martirio fosse un augurio. Finalmente la giornata volgeva al termine. Lo Spirito Santo avrebbe dovuto già essere pronto a prenderlo e Gesù non aveva intenzione di trattenersi oltre. Al monte degli ulivi salutò per un’ultima volta i suoi quasi sempre fedeli discepoli e Maria Maddalena (chiamandola M&M’s). Un fascio di luce abbagliò gli astanti mentre il loro Messia ascendeva al cielo. Dal fascio di luce si scorgeva la sagoma di Gesù mentre salutava tutti agitando la mano con un sorriso ebete. Una scena grottesca che rimase impressa nella memoria degli apostoli. Il raggio trattore lo portò all’interno dell’astronave Spirito Santo, finalmente al cospetto di suo padre. Dopo le cerimonie del caso il gigante barbuto, tutto agghindato di bianco e con uno strano triangolino sopra la testa che fungeva da corona, si rivolse al figlio in modo più confidenziale: - E la mamma? - Non ha capito niente di inseminazione artificiale e ha fatto morire vergine quel poveretto di Giuseppe. - So che per il momento hai fallito la missione, la Terra non è stata conquistata. Sul viso dell’alieno umanoide che si faceva chiamare Gesù comparve il suo tipico riso sardonico. - Ancora no. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 12/02/2014 23:08 Da Titivillus.
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Sventure tipografiche
La notte mi piace, è come una coltre spessa che ti coccola e ti tiene al riparo dagli ingombranti pensieri che si fanno alla luce del sole; un velo oscuro che nasconde e tutto confonde, dando a ogni persona un’impagabile sensazione di sollievo e l’illusione di poter essere quello che non si può o non si ha il coraggio davvero di essere. La notte mi piace, mi è sempre piaciuta, da circa un mese è diventata per me addirittura vitale: l’unico territorio in cui posso liberamente muovermi. Da circa un mese, cioè da quando Il Giorno – ironia della sorte! – nella persona di quel grandissimo cornuto di Piero Tibulli, ha tirato un micidiale uppercut alla mia vita. Vi spiego meglio… Avete sentito parlare, sì, di Enzo Paretti, vale a dire “il Mostro di Assago” – sette donne violentate nel suo palmares, fino alla tanto agognata cattura del giugno scorso? Ecco, Enzo Paretti di “vattelapesca dove quella carogna è nata”, per uno sbaglio del Tibulli, ha guadagnato una erre – “Paretti, Parretti… cosa vuole che sia?” – e, sempre per un colpo da maestro da detective consumato del grandissimo cornuto – me lo vedo a consultare tutto febbricitante il sito delle Pagine Bianche alla ricerca di un Enzo Parretti nel milanese, e poi dipingere sulla sua stupida faccia un compiaciuto “bingo!”… –, è infine divenuto, impresso a chiare lettere su Il Giorno di circa un mese fa, “Parretti E. di Binasco”. Cioè – bingo! – il sottoscritto. Potete immaginare le ripercussioni che una dicitura erronea di tale portata può aver avuto su un paese di poco più di settemila anime come Binasco, dove sei nato, cresciuto e conosciuto da tutti! Un giorno sei Enzo Parretti, Enzino, l’onesto e cordiale impiegato di una banca di provincia, al quale nessuno fa mai mancare un sorriso e un amichevole consiglio; il giorno dopo sei Parretti E. lo stupratore, il mostro che si nascondeva dietro un’apparentemente innocua maschera. E hai voglia a spiegare e supplicare, negare e usare armi improprie come la logica e l’evidenza – “come faccio a essere quello lì se sono ancora qui e mai, dico mai, la polizia è venuta a cercarmi?”. Hai voglia con le smentite e le contro-smentite, verbali e scritte... Niente. Quando nella testa della gente prende dimora il tarlo del dubbio, e lì vi incide sottili ma inesorabilmente capillari gallerie, puoi fare tutti gli sforzi di questo e dell’altro mondo ma non riuscirai mai a debellarlo del tutto, a cancellarne i nefasti effetti. Nel mio caso, gli effetti di un “errore umano”, che mi ha fatto perdere idealmente una erre, e concretamente la dignità, la faccia, una ragazza che “non reggeva più il peso di questa situazione” – e io allora? –, tante presunte amicizie, e quasi un lavoro – relegato, come sono ora, nel retro-retro-ufficio per una “questione d’immagine societaria”. Maledetto il giorno che... No, maledetto Il Giorno e basta! E maledetto Piero Tibulli! Ma la notte mi piace, dicevo. E da quando la mia vita diurna ha preso una piega tra il drammatico e il surreale, se non altro di notte ho riscoperto sensazioni e piaceri che avevo archiviato da quasi una decina di anni: sensazioni e piaceri fatti di cocktail base-rum tracannati a ripetizione, di locali ambigui e sudaticci nei quali dare sfogo ai propri istinti animaleschi, di tentati abbordaggi imbastiti con un piglio ritrovato e senza grossi freni anagrafici. Oggi l’obiettivo si chiama Filomena, quella ragazza che balla a una distanza che è una via di mezzo tra il “non ti conosco” e il “voglio che tu mi sfiori”, e che gioca a fare la piccola Rihanna, solo con qualche chilo in più e un portamento rivedibile. Mi ha urlato il suo nome prima che la canzone esplodesse in bassi dal volume insostenibile. "E tu come ti chiamiii?” “Mi chiamo Marco… no, Pietro…” “Marco o Pietrooo?” “Tutti e due: Marco Pietro, è un doppio nome.” “Fico, come un imperatore romano!” Ammicca. Chissà se l’ha bevuta… Il guaio di quando non ti fidi a usare il tuo nome è che hai l’imbarazzo della scelta. Tracanno il quarto di Cuba Libre che mi è rimasto e ciò mi dà un’iniezione di coraggio: riduco le distanze e allo stesso tempo lancio un’occhiata ad alto coefficiente di penetrazione. Le riduce anche lei e, in pochi istanti, siamo praticamente incollati, intenti in una danza asincrona, che nulla ha a che vedere con il beat filo-diffuso ma che segue pulsioni e fremiti tutti suoi. La notte, come sempre, è una fedele compagna, con la sua spessa coltre che ci protegge dagli occhi spiritati e invadenti, eppure non sgradevoli, delle creature dello Spazio Aurora. “Andiamo a casa mia, ok?”, sussurra ammiccando Filomena. Certo, meglio a casa tua, cara la mia Filomena, che la mia è un po’ off-limits, dovessi malauguratamente leggere da qualche parte il mio nome. Ammicco anch’io, ma mi esce un’espressione povera di complicità, perché in fondo di quella ragazza, io, non so niente. Tanto basta però per comunicare il mio convinto assenso e per ritrovarsi, il tempo di recupare i nostri cappotti sepolti sotto cumuli di altri cappotti, fuori dal locale, e poi dentro la mia fidata Clio, e poi davanti a una tipica palazzina di cinque piani dell’hinterland milanese. E poi, dopo ripetuti e paradossalmente chiassosi “sssh, fa’ piano!” pronunciati da Filomena, dentro il suo accogliente bilocale. “Aspettami qui, mio bel Marco Antonio!”, mi fa con un tono che tradisce una certa eccitazione. “Marco Pietro.” “Sì sì, quello che è...” Mi siedo su un divano oltremodo piccolo e, guardandomi attorno, comincio a sbottonare lentamente la camicia. Non finisco l’operazione che ma la vedo comparire tutta nuda – una voglia scura sulla coscia destra grande come un’albicocca. E, prima che quella comunque coinvolgente visione faccia effetto sulle mie zone erogene, realizzo tutto d’un colpo – un’intuizione fulminante che anticipa le sue parole – che la notte, la benevola notte, ha sollevato un angolo della sua coperta, lasciando spazio alla pungente e sconforante frescura mattutina. “E adesso stuprami, Parretti E.!” |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 13/02/2014 17:29 Da Titivillus.
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ORIGAMI
Isako sedeva sull'engawa e guardava il bellissimo giardino zen assorta nei suoi pensieri. Oggi sarebbe stato il gran giorno. Lo attendeva da ben 5 anni, da quando aveva sposato Hayato, membro di spicco della yakuza, la mafia giapponese. Dal matrimonio avevano avuto una bellissima bambina, Kaede. In questi cinque anni suo marito, benchè appartenesse al mondo della criminalità, le aveva voluto bene e l'aveva trattata col massimo rispetto. La famiglia di Isako, contadini di modeste origini, avevano sempre osteggiato quell'unione, consci delle implicazioni e dei pericoli in cui poteva incorrere la figlia. Ma a lei non era mai importato, aveva fatto la sua scelta e non sarebbe mai tornata sui suoi passi. Col senno di poi si può dire che fu una scelta azzeccata. Il matrimonio funzionava, la bambina che oramai aveva quattro anni era uno splendore, la minka di Kioto un gioiello incastonato nel più bel giardino che l'arte giapponese potesse creare. Ricchezza e agiatezza accompagnavano ogni momento della vita di Isako, non le mancava nulla, se non una cosa. Il suo più grande desiderio. Organizzare e ospitare nel suo giardino la tradizionale e ambitissima rassegna annuale del festival degli Origami di Kioto. Fare ciò era considerato un grande onore ed un riconoscimento non da poco all'interno della comunità. Questo evento veniva assegnato ogni anno ad una delle mogli dei personaggi più in vista della regione. Ognuna di esse si prodigava nel rendere tale occasione migliore della precedente. Una sorta di sfida continua con il passato. Vi si riunivano uomini d'affari, politici e artisti da ogni parte del Giappone, era anche un pretesto per allacciare alleanze, accordi commerciali, proporre affari e intavolare trattative di ogni genere. L'organizzazione richiedeva grande impegno e un notevole dispendio di denaro. Per Isako quest'ultimo aspetto non era un problema. Hayato le avrebbe messo a disposizione tutti gli yen che sarebbero serviti e anche molti di più. No, il problema era la sua condizione di moglie di un criminale. Per quanto ricco, potente e rispettato, suo marito rimaneva un poco di buono all'interno della comunità e lei viveva nella sua ombra, perciò tale evento le era sinora rimasto precluso. Sinora, appunto. Con sua grande sorpresa circa un anno fa, dopo la chiusura del centoquarantanovesimo Festival degli Origami assegnato alla signora Natsuko, moglie dell'attuale sindaco di Kioto, le era stata recapitata una lettera dalla servitù, mentre stava prendendo il te e giocando con Kaede. In questa lettera si diceva che il consiglio degli Origami era onorato di concedere a lei, Isako Nemuchi, l'organizzazione del centocinquantesimo festival. Conoscevano la sua passione per gli origami e avevano notato come si era emozionata a casa di Natsuko mentre osservava quelle favolose opere d'arte di carta, ingegnosamente e delicatamente inserite nel contesto del giardino zen. Si ricordavano con quanta perizia lei aveva commentato i colori, la disposizione e le piegaturure di ogni singola opera. Nel consiglio erano rimasti tutti colpiti e ammirati dalla sua competenza. La lettera continuava sullo stesso tono facendole i complimenti per l'assegnazione ricevuta all'unanimità da tutti i membri del consiglio. Si auguravano che di li ad un anno riuscisse ad organizzare un evento degno della sua bellezza e della sua famosa abitazione, invidiata da tutta Kioto. Trascorso qualche giorno e ripresasi dall'emozione che quell'inaspettata missiva le aveva procurato, Isako intuì subito che dietro a tutto ciò vi era suo marito. Era una donna di umili origini, bellissima, ma non stupida. Non sapeva nè come nè cosa Hayato avesse combinato per farle ottenere l'organizzazione del Festival, addirittura nel centocinquantenario, ma riteneva che fosse stupido da parte sua farne una questione d'orgoglio o di principio. Le cose stavano così, non poteva cambiarle e tanto valeva buttarsi a capofitto nell'organizzazione e nella realizzazione del suo sogno! Il Festival era suo! Era ancora incredula e a stento tratteneva la gioia. Nei mesi successivi aveva contattato i migliori artisti del paese, i giardinieri più esperti, i cuochi più famosi, nulla doveva essere lasciato al caso. Scorrevano fiumi di yen, ma Hayato sembrava non curarsene e anzi, era felicissimo di notare il perenne sorriso stampato sul volto della moglie. Inoltre era soddisfatto che l'invito rivolto a Kentaro Matanabe, capo della Yakuza di Fukuoka, fosse stato accettato. Kaede la loro bambina si divertiva come una matta a seguire la madre impegnata nei preparativi. Era la beniamina di ogni artista e loro la deliziavano realizzando per lei piccoli origami degni di una principessa. Gru, stelle, fiori, forme di tutti i tipi e colori venivano provati e testati in casa Nemuchi. Tutto era pronto, ogni cosa a suo posto, gli invitati sarebbero giunti di li a poco, i cancelli erano stati aperti, la servitù pronta ad attenderli. Il giardino era un caleidoscopio di forme e colori. I bellissimi origami di carta, il verde delle piante, gli alberi in fiore. Come data Isako, che vestiva un kimono in seta di colore rosso fatto arrivare appositamente da Osaka, aveva scelto quella della fioritura dei cigliegi, 26 marzo. Sorrideva felice e fiera per tutto quello che era riuscita a creare. Nessuno avrebbe dimenticato quel centocinquantesimo festival e lei finalmente sarebbe stata accettata come una di loro. Stava già accarezzando l'idea di far parte del consiglio degli Origami. Ma per quello c'era tempo, un passo alla volta, oggi voleva gustarsi appieno la sua gioia ed il suo piccolo trionfo. "Mamma mamma mamma!" urla Kaede correndole incontro. "Si amore mio cosa c'è?" risponde sorridendo Isako. "Mamma, ho sentito una goccia mentre correvo in giardino. Inizia a piovere!". |
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Viaggio di nozze
Roberto guida tranquillo, senza fretta, mentre al suo fianco Maria canta a squarciagola una canzone di Vasco, il suo cantante preferito. Il giorno prima si sono sposati, dopo un anno di fidanzamento, anno in cui per almeno sei mesi hanno saputo gestire bene la loro relazione a distanza, prima che lui si trasferisse al paese di lei, siciliana trapiantata in Piemonte. Per un attimo il ragazzo guarda la fede e quasi non può credere che sia davvero lì, all'anulare, quasi non se ne capacita e vorrebbe esclamare qualcosa ma la voce non esce. Ci pensa Maria a lasciare andare un gridolino di gioia e sorpresa poiché è finalmente apparso il mare, all'improvviso tra gli Appennini, come sempre capita quando si percorre la Torino/Savona, l'autostrada che porta i piemontesi in Liguria. La loro destinazione è però diversa, diretti come sono al porto di Savona per prendere il traghetto per la Corsica, la meta scelta per la loro luna di miele. Roberto guarda sua moglie con la coda dell'occhio e si accorge che il corto e leggero abito le è salito fin quasi all'inguine, mettendo in mostra le gambe forti ma sexy: Maria è molto piccola ma è perfettamente proporzionata e il suo corpo risulta slanciato sebbene lei sia formosa. In quel momento la desidera, come forse non l'ha mai desiderata prima. Roberto l'ha conosciuta il 22 giugno dell'anno precedente, a un concerto dell'appena uscito Ligabue al Teatro Smeraldo a Milano, dove lui lavorava come fonico di palco. Finita l'esibizione si sono trovati al bar, completamente ubriachi e nel giro di pochi istanti sono finiti nella macchina di lui, a scopare, quelle cose che finiscono presto, entrambi i soggetti coinvolti troppo andati per poter essere efficaci. Prima di salutarsi lui le ha chiesto di andare a cena la sera dopo visto che non lavorava e Maria ha accettato, sorpresa ma raggiante. Questa volta hanno fatto le cose per bene, seguendo le convenzioni e senza perdere il controllo, desiderosi di conoscersi, lei molto timida, lui fin troppo navigato ed esperto. Eppure si sono trovati benissimo assieme, la loro cena è stata divertente e solleticante e sia Roberto che Maria hanno parlato di se, delle proprie famiglie, del loro desiderare un futuro migliore rispetto al presente. Dopo cena, a casa di lui, Roberto si è quasi commosso per l'inibizione e l'imbarazzo di Maria, per il rossore cagionato dall'essere nudi assieme, sullo stesso letto, uno sul corpo dell'altra. E' in quel momento, l'attimo in cui è entrato in lei, che Roberto ha capito che quella era la donna giusta per porsi un freno, per pensare di costruire una famiglia e soprattutto per iniziare ad amare davvero. “Amore, dove dobbiamo uscire?” La voce di lei lo riporta alla realtà, non è la prima volta che Roberto prende il traghetto per la Corsica e sa che deve uscire a Vado Ligure e così fa. Arrivano all'area d'imbarco e un uomo che dovrebbe controllare le prenotazioni, dopo una rapida occhiata alla macchina carica di bagagli, fa loro segno di proseguire, senza guardare il foglio che l'agenzia ha preparato per la coppia. Sono i quarti in ordine d'imbarco e rimangono in macchina per proteggersi dal sole, ora baciandosi e carezzandosi furtivamente, ora continuando a cantare o a parlare, a dire stupidaggini da innamorati, a ridere e arrossire immaginando la vacanza di mare e sesso che li aspetta da lì a poche ore. Finalmente inizia l'imbarco e le macchine davanti alla loro entrano nella stiva del grande ferry, ben pilotate dagli addetti. Un uomo si avvicina al finestrino del guidatore e gentilmente chiede la prenotazione, quasi con fare complice: deve aver capito che sono due sposini in viaggio di nozze. Eppure, non appena controlla il foglio, l'uomo sembra cambiare umore: fissa la pagina incredulo, poi guarda Roberto e gli parla con la voce alterata. “Ma belinone di un belinone! Questa prenotazione è per domani, stessa ora!” Roberto non ci crede, chiede spiegazioni ed esce dalla macchina. I due uomini si chinano sul foglio e anche lui può vedere che il controllore ha ragione, che lui e Maria hanno sbagliato giorno, incredibilmente. “Belin, e adesso come facciamo? Non c'è spazio per fare manovra, di quella merda... E quell'abelinato al controllo? Ma ve l'ha guardata la prenotazione?” Roberto sale in macchina e comincia a cercare di spostarsi, sfiorando la vettura che li segue, guidato dalle indicazioni stizzite dei portuali. Cominciano a suonare i clacson e ad alzarsi bestemmie alle volte belluine, anche dallo stesso Roberto, mentre Maria rimane in macchina e si fa piccola piccola ancora di più di quanto già non sia, viola in viso per l'imbarazzo. Alla fine riescono a spostarsi, ma fanno ritardare la partenza del traghetto di una buona mezz'ora, attirandosi gli strali da parte di tutti i presenti. Quando finalmente riesce a parcheggiare, Roberto è un fascio di nervi e di cattiveria, è cosparso di sudore per via del caldo e dell'agitazione che quegli stronzi gli hanno messo addosso. Scende per fumarsi una sigaretta e non dice niente, cosa rara per lui che solitamente non riesce a stare zitto un attimo. Anche Maria scende dalla macchina e sbatte un po' la portiera nel richiuderla, probabilmente per la tensione accumulata in quella mezz'ora nell'occhio del ciclone. Lei gira attorno al veicolo e si mette di fronte a lui e Roberto pensa che se lei lo rimprovera lui le salterà negli occhi e che il loro matrimonio inizierà con un litigio, ma si sbaglia e presto se ne rende conto: infatti Maria all'improvviso comincia a ridere, con la sua risata forte ma dolce, quella che tira fuori solo quando è realmente divertita, quella che arriva dal cuore. Roberto all'inizio è un po' spiazzato, ma alla fine la segue e insieme ridono per minuti interi, fino alle lacrime, sotto lo sguardo allibito e contrariato di coloro che sono attorno, in ritardo per via della loro disattenzione. Poi si baciano con passione, e il mondo attorno a loro due svanisce. |
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Ultima modifica: 15/02/2014 17:27 Da Titivillus.
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