"Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto." (Italo Calvino)
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ARGOMENTO: [#3] Stelle come polvere (racconti)

[#3] Stelle come polvere (racconti) 16/02/2014 00:03 #11227

"Le stelle, come polvere, mi circondano
di viventi nebbie di luce;
e l'intero spazio mi pare di vedere
in un solo grande abbraccio dello sguardo."
Biron Farill - Il tiranno dei mondi - Isaac Asimov



Stelle come polvere è il tema della terza tornata di UniVersi, c'è tempo fino al 31 marzo compreso per postare il proprio racconto in gara.


REGOLE
- Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 12000 (spazi compresi, titolo escluso). Potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito; utilizzate Firefox dato che con altri browser il conteggio non risulterà esatto.
- I racconti devono avere un proprio titolo e devono essere postati in forma anonima, effettuando il login con nome utente Titivillus e password universi.
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RACCONTI IN GARA

- Il Folletto (5609)
- Bicchieri (7491)
- Atti di guerra (10047)
- Riguardo al progetto Stelle come polvere (11912)
- Stelle come polvere (6345)
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Ultima modifica: 01/04/2014 00:58 Da gensi.
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Re: [#3] Stelle come polvere (racconti) 14/03/2014 12:30 #11359

IL FOLLETTO

Una distesa verde così immensa raramente l'aveva vista, anzi... era proprio la prima volta, ma non gli sembrava un posto nuovo. Era sicuro di esserci già stato anche se lo ricordava con altri colori, ricordava un terreno di una consistenza diversa, perfino più freddo e per quanto strano potesse essere, soltanto le sterminate dimensioni sembravano le stesse. Una sensazione che proveniva non tanto da cose che poteva toccare o vedere vicino a lui - era un'idea generale del posto che gli dava l'impressione di déjà vu; come se il panorama e l'orizzonte fossero sempre gli stessi ma fosse cambiata la terra che calpestava.
Decise che non era il caso di dare troppa attenzione a questi particolari dato che spesso confondeva sogno e realtà, si concedeva troppi sogni ad occhi aperti, ed erano pericolosi.

L'importante - sogno o non sogno - era fare le cose per bene e camminare facendo molta attenzione, bastava una buca per cadere e ce ne potevano essere di sconosciute in quel mare di erba. Quindi avanzare va bene, ma con cautela.
E allora iniziò a mettere un passo avanti l'altro con calma; il sapere che farne uno falso poteva voler dire 'morte' diede il giusto significato a quella lenta e apatica marcia.

Durò poco la fatica mentale di dover andare piano, la sua attenzione venne completamente assorbita da un raggio di luce apparso dal nulla, che andava a finire proprio dietro di lui. Immenso, non capiva dove finisse esattamente ma riusciva a vedere cosa risaltasse sopra la sua testa. L'universo. Finora non si era reso conto di essere all'aperto, distrazione curiosa. Quella miriade di stelle così... immobili! Ferme come palle di biliardo in attesa del colpo della stecca. Camminare guardando in alto era ancora più pericoloso ma che ci poteva fare? Troppo bello. Lo conosceva già il suo universo, il suo cielo stellato, ne aveva sentito parlare talmente tante volte che lo considerava un po' suo. Corpi immensi, grandissimi che si trovavano a distanze inimmaginabili, neanche viaggiando tutta la vita avrebbe potuto raggiungerli. Stelle, pianeti, comete, ognuno aveva un nome, erano stati tutti catalogati! E poi non erano veramente fermi, sapeva che erano sempre in movimento anche se non si vedeva, ruotavano su se stessi o intorno ad altri astri, alcuni come le comete erano visibili in movimento anche a occhio nudo quando attraversavano il cosmo. Che bello.

All'improvviso un rumore secco, assordante - seguito da una tempesta d'aria che sembrava crescere di intensità a ogni attimo - fece tremare la terra. Si accucciò e provò ad ancorarsi per non essere spazzato via, riuscendoci malgrado l'enorme potenza. Il turbine altrettanto rapidamente di come si era presentato, se ne andò. Faccia a terra ancora terrorizzato per quell'improvvisa tempesta, ora si godeva la quiete.
Per poco.
Il cielo sopra di lui era completamente cambiato. Le stelle erano tutte in un movimento vorticoso, passavano, andavano via, ritornavano ancora lì insieme ad altre nuove per poi riperdersi nell'oscurità. Lui era rimasto a fissare estasiato quella che probabilmente era l'inizio della fine del mondo.

Un altro pericolo si stava avvicinando.
Una presenza alle sue spalle lo fece voltare di scatto, fece appena in tempo a riconoscere un mostruoso essere enorme che volava verso di lui. Il gigante gli atterrò molto vicino e il contraccolpo fu micidiale. Fu catapultato verso l'alto da una forza spaventosa.
Fuori dalle sue conoscenze fisiche si ritrovò a volare addirittura sopra le stelle dell'universo.

_Ma... ma... come é possibile? Come posso essere finito sopra le stelle? Sto volando sopra le stelle! Distano milioni di chilometri e io non posso averli fatti con un solo salto, eppure eccomi qui. Devo essere calmo e non perdere la testa. Ci deve essere una spiegazione._

Poi il suo sguardo ritornò su quell'essere enorme che ora stava sotto di lui ben visibile. Era immenso. E tra loro due l'universo di stelle era ancora avvolto in quel turbinio spaventoso.
_Ma si, forse è solo un sogno. Non c'è altra spiegazione. Come sarebbe possibile altrimenti questa situazione? E se non fosse un sogno allora... beh, allora forse tutto questo non è proprio come il mondo che mi vanto di conoscere così bene. La fisica qui, gli astri di là, il moto, i pianeti, le galassie, lo spazio, un cavolo... non ci ho capito niente_

L'ascesa era quasi finita, stava per raggiungere il culmine per poi iniziare a scendere. Ecco, ora era proprio in quel momento che sei fermo prima di precipitare. L'universo era ancora lì, tra lui e l'orrenda creatura. Un pensiero ironico gli sfiorò la mente...
_Certo che a essere giganteschi in quel modo deve essere bello, le stelle ti potrebbero sembrare dei granelli di polvere._

In picchiata!




<Emma! Ti ho detto mille volte che non devi fare così. Non voglio che ti butti sul letto di peso in quella maniera, le doghe si possono rompere! Ho cambiato le lenzuola stamattina e abbiamo messo anche la coperta verde nuova, quindi per piacere scendi immediatamente. E non l'ho neanche pulito per bene, ti ricordi che sei allergica agli acari signorina? Forza scendi, prendi il folletto e inizia ad aspirarli.>
<...E va bene mamma... Uffa però!>
<E apri la finestra che c'è un bel sole di fuori, fai entrare un po' di luce>
<Entra! L'ho appena aperta...>


.....ffffffffffffffffffFFFFFFFFFFFFFFWWWWWWWWWWWWWOOOOSHHH TIRATOVIA FORTE FORTE AGGRAPPATO TIENI DURO MACCHÈ STRAPPATO LASCIA RIPROVA TIENITI NIENTEDAFARE VIA VIA VIA SBATTI SBATTI ROTOLA ROTOLA ROTOLA ROTOLA SDENG! BUIO. HHHHSOOOOWWWWWWWWFFFFFFFFFFFFFFFffffffffffff..........




_Ah... È così che ci chiamiamo? Acari?_
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Re: [#3] Stelle come polvere (racconti) 28/03/2014 23:06 #11387

Bicchieri


I colpi alla porta distolsero Federica da ricordi che, fino a quel pomeriggio, credeva di aver ormai seppellito nello strato più profondo della sua anima.
La telefonata l'aveva colta alla sprovvista, ma non era riuscita ad approfondirla più di tanto, dato che era sopraggiunta in pieno orario di lavoro. Oltretutto Carlo era stato enigmatico, forse proprio per farle crescere la curiosità che ormai la stava attanagliando da qualche ora.
Posò sul bancone il panno con il quale stava asciugando alcuni bicchieri appena usciti dalla lavastoviglie, rivolse un breve sguardo al di là dei finestroni del ristorante, su Piazzale Michelangelo prima e sulla splendida Firenze notturna poi, e si diresse alla porta del locale; del quale, da quasi dodici anni, era socia proprietaria, cuoca, maîtresse, cameriera e tutto ciò che poteva fare per ridurre al minimo le spese di personale.
“Chi è?”
“Fede, sono Carlo, aprimi!”
La donna girò la chiave nella serratura – si chiudeva sempre dentro a fine serata, per svolgere in tranquillità gli ultimi compiti – ed accolse l'amico all'interno con un ridente abbraccio.
“Carlo, quanto tempo...come stai? Scusa se non ti ho subito riconosciuto, oggi al telefono, ma c'era confusione e non sentivo bene.”
Il grande e grosso uomo di fronte a lei non era praticamente cambiato, se non per una spruzzata di bianco in più sui folti capelli e sul pizzetto ispido.
“Tutto bene, grazie mille, scusami tu se ho voluto rivederti con tanta urgenza, ma ho notizie sensazionali di cui vorrei parlarti. Cavoli...ma sei sempre bellissima, fatti guardare un attimo!”
Federica arrossì e sorrise ricordando il Carlo dei tempi andati, il “Casanova del Teatro Verdi”, come usavano chiamarlo allora. Latin lover forse ormai un po' attempato, l'uomo non aveva però sicuramente perso il suo occhio: Federica si era mantenuta bene negli anni e, nonostante fosse vicina agli anta, era sempre slanciata, con riccioli scuri che le ricadevano su un fisico asciutto e ben proporzionato.
Carlo distolse gli occhi dalle curve della donna, forse un po' a fatica, e si guardò intorno.
“Come va il ristorante? La vista qui è mozzafiato.”
Lei passò dietro al bancone.
“Non mi lamento, nonostante il periodo...posso offrirti qualcosa da bere?”
“Un Campari Orange grazie, con poco ghiaccio.”
Mentre preparava il drink, Federica ruppe gli indugi.
“Allora dimmi, che ci fa il tuo gioioso faccione quassù nel mio ristorante all'una di notte? Notizie sensazionali hai detto, di che tipo?”
L'uomo si sedette su uno sgabello.
“Non crederai a quello che sto per dirti: ci sono riuscito, ho un contratto. Torniamo sul palco!”
Immagini antiche passarono di fronte agli occhi di Federica: scarpette con la punta di gesso, un tutù candido come la neve, la luce abbagliante di un faro puntato su di lei, il mondo che gira...ed il frastuono di un applauso scrosciante.
“Fede, tutto ok?”
“Sì...scusa ma non credo di aver capito bene. Cosa intendi dire?”
“Intendo dire che ho trovato un impresario disposto a finanziarci. Metteremo su uno spettacolo, e non in un teatro qualunque, ma proprio al Verdi, ti rendi conto? Ho già ricontattato tutta la vecchia compagnia, hanno accettato quasi tutti. Mi sono lasciato te per ultima, la nostra prima ballerina; perché so quanto tu ci abbia sempre tenuto, quanto ti sia dispiaciuto lasciare questo mondo, il nostro mondo, e volevo darti la sicurezza che questa cosa si farà. Siamo pronti, Fede.”
Lei gli porse il cocktail, abbassò lo sguardo e prese meccanicamente in mano il panno, ricominciando ad asciugare i bicchieri posti sul bancone.
“Io...io non so cosa dire.”
Carlo attese qualche istante, poi esternò i suoi pensieri.
“Capisco che questa notizia possa averti sorpresa, forse spaventata; credo che sia giusto che tu ti prenda qualche giorno per riflettere. In realtà non è che abbiamo molto tempo: lunedì prossimo dovrò firmare il contratto. Facciamo che ti richiamo domenica, va bene?”

La prima dello spettacolo era finita ormai da un paio d'ore e Carlo, dopo aver pagato il tassista, scese dalla macchina e la osservò ripartire. La fresca brezza primaverile aveva spazzato via tutte le nuvole e le stelle risplendevano sulla volta notturna di una Firenze mai così magica.
Dopo un breve tragitto a piedi raggiunse il ristorante e si preoccupò di essere arrivato troppo tardi, trovandolo buio. Provò comunque a bussare.
“C'è nessuno?”
“Entra, è aperto.”
Sentendo la voce provenire dall'interno, l'uomo girò la maniglia ed entrò nel locale; le uniche luci soffuse provenivano da lontani lampioni, attraverso gli ampi vetri delle finestre.
Federica era seduta ad uno dei tavoli e stava asciugando con un panno molti bicchieri disposti davanti a sé. Carlo si avvicinò e si accomodò accanto a lei.
“Ho sperato fino all'ultimo che tu venissi almeno a vedere lo spettacolo, ma quel posto in prima fila è rimasto vuoto.”
La donna stava osservando il panorama, non distolse lo sguardo mentre rispose.
“Non sarei mai potuta venire, dovevo lavorare stasera. E poi...lo sai, ne abbiamo già parlato.”
“Sì, ma non riuscivo a credere che tu mancassi. Fede, la danza è sempre stata la tua vita, ancora non capisco come tu possa aver rifiutato il ritorno sul palco.”
Lei posò il panno e si voltò verso di lui.
“Come è andato lo spettacolo?”
L'uomo sembrò preso alla sprovvista, ma si ricompose in un secondo.
“Beh, per essere stata la prima devo dire che possiamo ritenerci abbastanza soddisfatti. Non c'era il tutto esaurito e l'età si fa sentire, soprattutto nel corpo di ballo, ma credo che riusciremo ad onorare le dieci serate previste. Ci siamo detti di prendere questa esperienza come un ritorno al passato, senza farsi troppe speranze per il futuro.”
Federica rivolse di nuovo lo sguardo al cielo notturno, attraverso la vicina finestra. Carlo si sentiva a disagio.
“Ora basta, a che stai pensando? Mi ero dimenticato dei tuoi lunghi silenzi, ti assicuro che non li ho mai sopportati. Sembra addirittura che ti piaccia atteggiarti in questo modo, quasi a diva. La realtà però è che tu stasera non c'eri su quel palco, non c'eri a prenderti gli applausi; secondo me avevi paura di non esserne all'altezza, di renderti conto che il tempo in cui eri davvero la diva è passato, per questo hai rifiutato la mia offerta, il ristorante è solo una misera scusa.”
Carlo attese per qualche secondo una replica da parte della donna, poi si alzò furente, pronto ad andarsene. Fu in quel momento che Federica rispose.
“Tutte le sere, da undici anni a questa parte, rimango da sola oltre l'orario di chiusura e pulisco il ristorante. Sai perché lo faccio? Non lo faccio perché sono obbligata a farlo, possiamo benissimo permetterci di assumere una donna delle pulizie, e non lo faccio neanche perché mi piace. Tutte le sere asciugo bicchieri, pulisco i tavoli, passo lo straccio...semplicemente perché è questo il mio lavoro, è questa la mia vita. La danza farà sempre parte di me, ma continuerà ad esistere solo nel mio passato, dove può vivere al massimo del proprio splendore; immacolata e non inquinata da un flebile ed innaturale tentativo di riportarla in auge, come lo spettacolo che avete messo in scena stasera, pallida ombra degli eventi grandiosi che organizzavamo un tempo.”
La donna si alzò e si avvicinò alla finestra davanti a sé.
“Vedi questo vetro? Quando devo pulirlo a volte spengo le luci, per far sì che le stelle lontane si confondano con la polvere, poi passo questo panno...ecco, così. La polvere se ne va e restano le stelle. Resto io, da sola, sul palco.”
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Re: [#3] Stelle come polvere (racconti) 30/03/2014 14:38 #11389

Atti di guerra

L’Arghandab scorreva lento tra due rive di terra sabbiosa. In quella zona il “fiume salato”, come lo chiamavano gli americani, era guadabile in più punti dai mezzi terrestri, o anche a piedi.
La piccola colonna di armati procedeva costeggiandolo, cinque M998 dell’esercito afghano. Il caldo estivo era insopportabile in quella regione del sudest, poco lontano dal confine col Pakistan.
-Hey sergente, possiamo fermarci a prendere un po’ d’acqua?- chiese uno dei sei militari alloggiati dietro, sovrastando il rumore del mezzo in movimento. Era un ragazzone imponente, un afroamericano finito nell’esercito per evitare la galera. Glielo si leggeva in faccia.
Si era rivolto all’uomo di fianco al pilota, sull’ultimo veicolo della carovana.
-Sergente Maggiore, per te- rispose Brooks girandosi e indicando la mostrina sul petto. –La vedi questa stellina, Johnson? Significa che hai ancora molta strada da fare-
-Oh si, certo...mi scusi, SERGENTE MAGGIORE- rispose l’altro ridacchiando. Poi a bassa voce:
-Ma chi cazzo si crede di essere? È un sottufficiale cazzo, pensa di essere capitan america...-
-Zitto Johns- gli rispose Cooper, al suo fianco.
-Che vuoi che me ne freghi...siamo nel mezzo del nulla, a caccia di fantasmi dentro scatolette di metallo e questo si offende se non lo chiamo come vuole- poi ad alta voce –allora quest’acqua?-
-Secondo te, soldato di prima classe Johnson, perché al campo lo chiamano fiume salato?- disse Brooks aspro.
-Forse quei bastardi dei talebani si masturbano da queste parti!- urlò l’altro di rimando, scoppiando a ridere.
Nemmeno Brooks riuscì a trattenere un sorriso, nell’ilarità generale.
-Sei indisciplinato soldato, lo sai? Ringrazia Dio che almeno mi fai ridere-
La carovana proseguiva in direzione nord, rientrando da un pattugliamento su un’area vasta e desolata, con alture rocciose e sterpaglia diffusi a est, oltre il lungo fiume. Alcuni rapporti ufficiali parlavano di piccole cellule di talebani, rifugiati in grotte e anfratti. Non avevano trovato alcuna traccia.
La squadra di Brooks chiudeva la fila, quella di Montgomery l’apriva. Nel mezzo erano collocati i soldati afghani, ufficialmente al comando della spedizione. In pratica erano militari poco esperti di supporto agli statunitensi.
Brooks si voltò di nuovo, rivolgendosi all’operatore radio.
- Gomez! Senti da Montgomery quali sono le direttive, penso sia tempo di rientrare-
-Agli ordini, “sergente maggiore”- biascicò Gomez, con malcelata ironia.
Brooks non la colse, intento com’era a scrutare mappe digitali e radar. Uscì quindi sulla torretta del mitragliere sgombra, cannocchiale alla mano. Le lenti rivelavano una calma piatta oltre la nuvola di polvere sollevata dai veicoli in movimento.
Si lasciarono sulla destra l’ennesima rupe inanimata. Seguivano uno sterrato appena visibile, poco distante dal corso del fiume sulla sinistra, avvicinandosi al guardo segnato sulla mappa.
Johnson approfittò della distrazione del superiore per rilassarsi.
-Senti un po’ Cooper, non ti ho mai chiesto cosa ci fai qui...Nell’esercito intendo-
Il giovane puntò il suo sguardo deciso tra quelle pupille scure che lo guardavano con noncuranza.
-Mi sono arruolato per farmi una carriera, sistemare la famiglia e ovviamente per servire il mio paese. Perché me lo chiedi?-
-Cazzo ma sei già sposato con figli? Io chissà quante puledre ho inseminato prima di partire e avrò dieci anni più di te! Ahahah sei troppo serio ragazzo- rispose con una pacca sulla schiena.
-Sempre a esagerare, al massimo hai pagato qualche troia!- fece Price, di fronte a lui.
-Mi piace l’idea di diventare qualcuno. Non voglio passare la vita a servire gli altri, voglio essere io a decidere- rispose Cooper. Johns notò che sul braccio destro del giovane militare campeggiava una bandana a stelle e strisce. Allora si fece più serio, accostandosi al giovane e ignorando gli altri osceni commenti dei commilitoni.
-Senti ragazzo, la vita è una sola e rischiarla così per servire qualche stronzo che non sa nemmeno chi sei non ha senso. Io ci sono finito a forza, avrei fatto meglio a leccare il culo di qualche senatore e fargli da segretario. Seriamente, encomi, onorificenze e medaglie al valore non valgono un cazzo, niente!-
-Non sono d’accordo. Fare il militare non è un lavoro come un altro, non è da tutti. Quello che tu ritieni merda, Johns, spesso è ciò che permette a molti di noi di resistere tanto tempo lontani da casa...e in fondo lo so che ci vuoi bene, brutto scimmione nero!- concluse Cooper ad alta voce.
-Come ti permetti, bastardo di un bianco?- disse l’omaccione sorridendo.
Ma un velo di tristezza era calato sul grande viso solitamente allegro. Le discussioni troppo serie duravano poco in guerra, bisognava subito stemperare la tensione. Diserzioni, violenze e persino suicidi erano spettri non troppo lontani dalla loro quotidianità.
Brooks tornò all’interno, seccato.
-Insomma Gomez quanto dobbiamo aspettare?-
-Ancora un attimo signore, Montgomery è in contatto col comando, appena possibile ci farà sapere...-
La sua voce fu coperta da un boato assordante, improvviso. Dietro gli spessi vetri del corazzato videro il veicolo di Montgomery ribaltarsi in mezzo a fumo e polvere, duecento metri più avanti.
-Mina! La zona è a rischio!- strillò Brooks.
Il secondo Humvee della fila si precipitò a soccorrere il primo, mentre gli altri si fermavano. I militari si attrezzarono con i radar antimine, disponendosi velocemente sul terreno bruciato dal sole. I mitraglieri salirono in torretta.
-Tieni gli occhi aperti, ragazzo- ordinò Johns a Cooper, serio.
-Sissignore-
Si disposero intorno al mezzo, osservando il fumo nero dell’esplosione.
L’Humvee aveva appena raggiunto quello rovesciato, quando videro qualcosa muoversi in alto, sulla destra. Una sottile scia bianca parve sbucare dalla roccia, allungandosi verso il veicolo centrale, il terzo. Per un attimo che parve infinito i soldati la fissarono, incapaci di parlare. Il mezzo fermo fu preso in pieno dal razzo, che lo sventrò.
-Imboscataaa! A destra, sparate a destra!- urlava Brooks.
L’aria si riempì di fuoco. Gli addetti alla mitraglia bersagliavano il punto da cui era partito il colpo, mentre Brooks pensava a come reagire all’attacco e soccorrere gli eventuali sopravvissuti.
-Ci hanno diviso in due quei bastardi! Gomez chiedi rinforzi, aerei e soccorsi, ci sono morti e feriti!-
Non fecero in tempo ad organizzarsi. L’attacco era stato preparato con cura, una cinquantina di guerriglieri talebani avanzarono verso di loro, mentre cecchini appostati sulle alture colpivano senza sosta le torrette. Con due equipaggi eliminati, lo scontro era impari.
Dietro al veicolo Jonhson affiancava Cooper, mirando ai taliban col suo M16. Nel frattempo Gomez riuscì a comunicare le loro coordinate, accovacciato di fianco ad una ruota, protetto dallo stesso Cooper. Questi uccise quattro assedianti prima di essere colpito alle gambe e all’elmo, che gli balzò via dal capo.
-Noooo!!!- urlò Johns.
Mentre il corpo si accasciava al suolo, per Cooper i suoni si fecero ovattati, le urla soffocate, le raffiche di colpi ormai distanti. Vide Johnson che, ferito a sua volta, tentava di trascinarlo sull’unico Humvee ancora integro, ma i taliban li incalzavano. Allora il ragazzo si tolse la bandana dal braccio e gliela porse, stelle e strisce lacere e sporche. Johns l’afferrò, consapevole di non avere scelta. Piangendo salì a fatica sul mezzo, che fuggì da quell’inferno di morte inseguito dai proiettili dei guerriglieri.
Prima di chiudere gli occhi Cooper vide anche il sergente maggiore Brooks, riverso sul terreno sabbioso, la stella del comando macchiata di sangue e polvere.


La fredda pioggia autunnale cadeva sulle sedie antistanti il palco coperto, nel centro di Washington. La celebrazione ricordava i caduti per la guerra in Afghanistan, ancora in corso, oltre a premiare alcuni veterani della grande operazione militare.
Dignitari e politici, colonnelli e generali presiedevano il rito, con tanto di banda musicale e bandiere alzate.
Quando venne chiamato sul palco, Johnson guardò il cielo cupo, triste di pioggia. Quello che stava per ricevere la medaglia al valore militare non era più l’allegro omaccione di poche settimane prima, il soldato scomodo ai superiori e fondamentale per la truppa. Pareva l’ombra di se stesso, una copia evanescente privata dell’anima.
A differenza degli altri premiati, volle prendere la parola. Afferrò il microfono rigidamente, mentre guardava quelle stelle d’oro, di argento e di bronzo appuntate sui petti gloriosi. Nessun sorriso solcava il grande volto, l’altra mano stringeva un pezzo di stoffa consunto.
-Ancora oggi, mentre sono qui a ricevere la riconoscenza del mio paese, ripenso a quel maledetto attacco nel sudest dell’Afghanistan...Sono l’unico americano sopravvissuto-
Fu interrotto da una folla di applausi. Aspettò che finissero, immobile.
-Penso sempre a quei momenti, giorno e notte. Ai ragazzi della brigata, quei soldati coraggiosi stroncati dai colpi dei fucili. Sono morti per il paese, avete detto. Io mi chiedo che senso abbia morire così, lontano da tutto, in quel buco dimenticato da Dio e dall’uomo civile-
Un silenzio teso scese sulla platea, il rumore della pioggia faceva da sfondo a quello strano monologo.
-In quell’attacco sono morti militari più giovani di me, che più di me credevano nella patria, nel dovere e nell’onore. Che più di me avrebbero voluto queste medaglie al petto, per diventare qualcuno di importante...Penso che avrei dovuto morire lì, insieme a loro-
I dignitari dell’esercito si guardarono l’un l’altro, stupiti. Nessuno intervenne per zittire il reduce afroamericano. Lui guardava dritto davanti a sé, era come se parlasse a quella platea da un posto molto lontano, distante nel tempo e nello spazio.
-Voi volete darmi una medaglia, una stella per mostrare agli altri che sono un eroe, un esempio da seguire. Ma cosa sono queste stelle appese al collo se non polvere che si perde nel vento? Io ho visto le stelle cadere e fondersi con la polvere…-
Prese la pistola dalla cintola e si sparò.
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Re: [#3] Stelle come polvere (racconti) 30/03/2014 15:09 #11390

Riguardo al progetto Stelle come Polvere

L'uomo entrò nella banca dati immediatamente, senza problemi, del resto era uno dei migliori sulla piazza, da sempre alle dipendenze della ANGLE, una delle principali multinazionali del settore tecnologico. Le sue capacità erano state rilevate fin dall'età di dodici anni, grazie ai test psicoattitudinali cui venivano sottoposti tutti i figli dei dipendenti dell'azienda. Dopo il crollo economico dei governi centrali, avvenuto negli anni '20 del ventunesimo secolo, erano state le multinazionali a prendere il potere, impiegando oltre l'80% della popolazione mondiale. Per quanto riguardava la sua mansione era necessaria una sostanziale incapacità di provare emozioni oltre all'abilità di saper improvvisare in ogni situazione. L'uomo era indubbiamente di bell'aspetto eppure al contempo ordinario, sapeva come passare inosservato, come farsi dimenticare. Era in grado di ingenerare fiducia e amicizia nelle persone che avevano a che fare con lui come di rimuovere qualunque ostacolo, arrivando fino all'omicidio senza provare alcun rimorso.
Davanti ai suoi occhi apparvero i menù di directory, le librerie dove avrebbe trovato i file che era stato inviato a rubare: si trattava del progetto Stelle come Polvere, la ricerca più importante della storia dell'Uomo. Il pianeta Terra stava ormai morendo, sfruttato fino all'osso da un'umanità incapace di programmare e di rispettare l'ambiente. Ormai, all'inizio del ventiduesimo secolo, anche il Sistema Solare stava cominciando a mostrare segni di affaticamento: le colonie lunari e marziane, le basi spaziali, iniziavano a non essere più produttive e i quasi venti miliardi di persone che abitavano lo Spazio Umano, cominciavano a dover razionare sempre più sia le materie prime che i generi alimentari. L'unica soluzione era creare per poi sfruttare, altri habitat, sviluppando un motore sufficientemente potente per inviare grandi navi arca in altri sistemi solari, spinto da un propellente economicamente sostenibile.
La teoria fisica esisteva, pubblicata nel 2077 da Arthur Goldstein, l'ultimo grande fisico indipendente della storia: si trattava di una Piegatura dello spazio tempo, dimostrata con abilità e genialità dal professore.
Nella ricerca erano impegnati i due gruppi tecnologici più grandi e potenti, la ANGLE, la multinazionale per cui lavorava il raccoglitore e la RIDES, di cui ora stava forzando la banca dati. Non era stato semplice arrivare fino a lì, del resto si trattava di uno progetti più importanti della storia, quello che avrebbe potuto significare la prosecuzione della vita umana. Tutti erano certi che la RIDES fosse più avanti nella ricerca, mentre la ANGLE languiva, senza riuscire a trovare un propellente sufficientemente economico, inseguendo un motore troppo complesso e quasi certamente esposto a una probabile avaria. L'uomo si era infiltrato nei servizi di sicurezza della RIDES ormai quattro anni prima, guadagnando credito e salendo nella fiducia di quelli che credevano essere i suoi datori di lavoro. Finalmente era arrivato al centro di ricerca più segreto e importante della RIDES ed era riuscito ad agganciare una delle ricercatrici meno note del progetto, eppure abbastanza introdotta per poter avere le password di protezione di massimo livello. Non senza difficoltà era riuscito ad intrecciare una relazione con la donna, in un mondo in cui le relazioni interpersonali erano sempre più rare, il 60% dei nuovi nati concepiti in provetta o clonati direttamente dai genitori. Aveva funzionato, ma era stato così complesso da dover impiegare più di un anno solo per riuscire a portarsela a letto e far sì che cominciasse a fidarsi di lui. Quella notte si era fatto condurre nell'ufficio di lei e l'aveva sgozzata con un colpo netto ed esperto, dopo aver estorto la password come prova d'amore.
L'uomo finì di copiare i file nelle memorie esterne che aveva con se. Si alzò dalla postazione e guardò verso la telecamera che osservava la stanza: grazie alla qualifica di guardiano era riuscito a manomettere il circuito di sorveglianza, inserendo un loop che riportava un'immagine con l'ufficio deserto. Il Dipartimento Analisi della ANGLE avrebbe dovuto compiere una straordinaria impresa per analizzare tutti quei dati, una colossale quantità di formule, progetti tecnici e studi di sostenibilità.
Sorrise mentre raccoglieva il materiale e lo riponeva nella borsa a tracolla. Il sorriso si spense, quando si girò e vide la donna morta, sistemata a una delle scrivanie dell'ufficio. Spinto da un impulso fino ad allora sconosciuto, chiuse gli occhi sbarrati della ricercatrice, con affetto, ed uscì nel corridoio. Da lì a poche avrebbe consegnato il materiale ai suoi committenti e si sarebbe sottoposto alle operazioni che ne avrebbero cambiato fisionomia e identità.

George Adams stava impazzendo: da circa tre mesi lavorava all'analisi del progetto Stelle come Polvere, trafugato da un anonimo raccoglitore dati della sua società, la ANGLE. George era il direttore del Dipartimento Analisi della multinazionale, un uomo ormai abbondantemente oltre la cinquantina, estremamente capace e considerato, il Numero Tre tra i dipendenti del suo gruppo, uno degli uomini più importanti e conosciuti del mondo, oltre che tra i più ricchi. Aveva tenuto decine di presentazioni durante la sua carriera, essendo brillante nell'esposizione e decisamente di bell'aspetto, un autentico uomo copertina, quasi tutte basate su studi rubati o sottratti ai concorrenti. George era stato un bambino prodigio, aveva imparato a leggere a due anni, stimolato dal padre, di cui era un clone. Il genitore gli aveva anche insegnato i rudimenti della matematica e della fisica, essendo uno dei professori delle scuole di formazione scientifica della ANGLE.
Si erano resi conto delle sue capacità, quando a non ancora otto anni aveva aperto un manuale di meccanica quantistica per caso, rimanendo folgorato e scioccato: davanti ai suoi occhi si era spalancato un mondo, solo guardando le equazioni nel suo cervello erano apparse immagini senza sapere da dove provenissero. George era in grado di costruire modelli e individuare relazioni semplicemente osservando una pagina di formule, di compiere dimostrazioni difficilissime a mente, senza la necessità di trascriverne i vari passaggi. Non era un teorico e non avrebbe mai avuto la genialità per ideare un esperimento o creare una ricerca importante, ma era perfettamente in grado di analizzare il lavoro altrui, comprendendolo al punto di poterlo migliorare o piegare alle proprie necessità.
La ANGLE aveva sfruttata questa sua capacità innata, investendo denaro e risorse su di lui, permettendogli di studiare materie scientifiche e tecniche al meglio delle possibilità, sia didattiche che tecnologiche. Era stato sottoposto a costosissimi impianti di potenziamento cerebrale oltre che a corsi accelerati di apprendimento subliminale e aveva reso da solo alla sua multinazionale più che decine di ricercatori assieme. Eppure ora stava fallendo, per la prima volta nella sua lunghissima carriera.
Aveva iniziato ad occuparsi di Stelle come Polvere immediatamente dopo che l'incursore aveva consegnato il materiale al suo ufficio, rendendosi immediatamente conto che solo lui avrebbe potuto farcela, che nessuno dei suoi collaboratori avrebbe potuto trarre alcunché da quell'autentica montagna di dati. Aveva passato i primi quindici giorni a cercare di scoprire quale fosse la cifratura della sequenza di equazioni e degli schemi tecnici: era consuetudine, essendo lo spionaggio industriale così diffuso, che anche all'interno di un progetto esecutivo venisse introdotto un codice, in modo che gli analisti non riuscissero a trovare immediatamente la chiave di lettura. A volte non era possibile aggirare quel blocco e anche un progetto rubato non poteva essere compreso e reso utile prima che i concorrenti lo presentassero ufficialmente. Persino George, che era sempre riuscito a trovare le chiavi, aveva scovato la soluzione per caso e solo grazie al padre, per quanto indirettamente: infatti la cifratura seguiva la partitura delle Gumbo Variations di Frank Zappa, un autore del ventesimo secolo ormai quasi del tutto dimenticato, ricordato solo da appassionati occasionali. George a dir la verità aveva odiato quel brano poiché il padre, quando lui era bambino, lo ascoltava incessantemente, fino allo sfinimento. Dopo aver trovato la chiave non era riuscito a fare i progressi che aveva immaginato: era certo che quell'insieme di file non fosse il progetto definitivo, altrimenti la RIDES l'avrebbe già presentato per non rischiare di farselo sottrarre da qualcuno, ma non stava in piedi, non completamente: il motore era potente, in grado di raggiungere il punto di piegatura teorizzato da Goldstein e il propellente sembrava sufficientemente economico e facilmente sintetizzabile in laboratorio, ma il tutto era troppo instabile per poter offrire un'autentica garanzia di successo. Come era possibile che la RIDES avesse investito tutto il suo enorme potenziale di ricerca proprio in quel Stelle come Polvere?
L'analisi spettrografica degli astri durante la fase di volo nel Sub Spazio Temporale, come l'aveva chiamato il fisico ideatore della teoria, era corretta e sostenibile, ma altri dati corrispondevano solo in parte, per quanto compatibili.
George si guardò allo specchio: davanti a se vide un uomo vecchio, con gli occhi spiritati e una barba lunga e incolta. All'inizio aveva cominciato a lavorare alla sua analisi dieci ore al giorno, tornando a casa alla sera, poi si era trasferito nel dormitorio dei ricercatori, quelli impiegati per i turni notturni. Da ultimo non lasciava nemmeno più la scrivania, se non per andare in bagno, dimenticandosi di mangiare e dormire, sempre più alienato. Andò al posto di lavoro e prima di poter aprire i file su cui voleva lavorare, ricevette una chiamata da Jim Horn, il Numero Uno della ANGLE.
“George, lascia perdere, la RIDES ci ha fottuti. Hanno indetto una conferenza stampa per le 11, durante la quale presenteranno il Motore a Piegatura, quei bastardi. Ce l'hanno fatta alla fine”.
George sentì una fitta nello stomaco.
“Come è possibile? L'incursore ha rubato il progetto sbagliato?”
“No, George, ci hanno fregato fin dall'inizio, proteggendo il vero progetto e sviandoci, almeno credo. La conferenza stampa verrà condotta da Tavajigen, quel maledetto”.
“Ma è un chimico! Che cazzo c'entra uno come lui?”
Horn scosse la testa e chiuse la comunicazione.
George andò a dormire qualche ora, dopo un lungo pianto nervoso. Alle 10:30 si alzò, andò in bagno e dopo essersi fatto la doccia e la barba si piazzò davanti al computer, con qualcosa da mangiare. Il web e le televisioni erano tutte in fibrillazione per via della presentazione così attesa, quel raggio di speranza per il futuro dell'umanità.
Le immagini si aprirono sulla sontuosa sala conferenza della RIDES, al centro della quale sedeva un Matthew Tavajigen a dir poco raggiante.
“Benvenuti! Nei prossimi minuti vi presenterò il nuovo Motore a Piegatura, grazie al quale l'umanità potrà lasciare il Sistema Solare per colonizzare l'Universo e chissà, imbattersi in altre forme di vita intelligente. La RIDES ha seguito a lungo un filone di ricerca nell'ambito della meccanica, per poi rendersi conto che il Motore poteva essere realizzato attraverso delle semplici reazioni chimiche a catena, imprigionate facilmente in un magazzino di contenimento. Ci spiace per le altre aziende impegnate nella ricerca o nell'analisi”.
Tavajigen si fermò per un attimo sorridendo smagliante e George seppe che quel sorriso era rivolto espressamente a lui: evidentemente il chimico sapeva che la ANGLE aveva rubato Stelle come Polvere.
“Comunque ora andrò a illustrarvi non già il progetto Stelle come Polvere, il nostro primo tentativo non riuscito, ma il vero progetto finale, quello grazie al quale siamo riusciti ad ottenere l'obiettivo, ovvero il progetto Polvere di Stelle”.
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Ultima modifica: 30/03/2014 15:19 Da Titivillus.
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Re: [#3] Stelle come polvere (racconti) 30/03/2014 23:34 #11392

Stelle come polvere

«Assurdo. No. Inaccettabile! No! No...».
Il professor Ivarson strinse così forte la presa che il manico di metallo della torcia scricchiolò deformandosi.
«Bert, la prego, si calmi».
«È una menzogna... Uno scherzo...».
«Già certo, lo scherzo più vecchio del mondo». Il professor Gerasimov si sporse dalla sedia a rotelle per lasciar colare più che sputare quel grumo di catarro che l'aveva tormentato nell'ultima mezzora. Mancò di pochi centimetri la ruota.
«Gerasimov!».
«Ora che scriverà nel suo dannato articolo? È ancora convinto che il monolito sia opera di Dio?».
«Ma non può essere!».
«Credevate sul serio che Jahveh in persona avesse inciso i comandamenti con rune radioreagenti su una tavoletta di materia ultradensa alta ottanta metri?».
«Professore!».
«Magari usando il sangue di un capretto sacrificato su un altare?».
«Gerasimov, BASTA! Basta! Sono stanco di tenervi a bada, ho sprecato troppo tempo, troppa energia per farvi lavorare insieme e non ho più alcuna intenzione di insistere in questa impossibile impresa, soprattutto in virtù di quello che abbiamo appena scoperto!».
Il vecchio tacque. Esistono uomini che non sanno perdere e uomini che non sanno vincere. L'esimio professore di esomatematica dell'università di San Pietroburgo entrambe le cose. Per dieci secondi nessuno fiatò, Ivarson immobile, una statua greca avvolta dai tenui riflessi color smeraldo emanati dalla gigantesca opera aliena, fissato con odio dal piccolo Gerasimov, deformato dalla malattia e gonfio di risentimento per qualunque essere umano in buona salute, divisi dal professor Quinton che per la prima volta nella sua vita aveva perso le staffe e stava pensando di gettare entrambi giù dalla torretta.
«Il Vaticano deve sapere». Esclamò lo svedese.
Corse via. I suoi passi fecero vibrare la scala metallica e con essa anche la postazione su cui erano rimasti gli altri due. Alla penultima rampa la fretta gli giocò un brutto scherzo, inciampò, cadde in avanti, sbatté la fronte sul corrimano infine rotolò inerte per una ventina di gradini. Gli assistenti di campo corsero in suo soccorso. Qualcuno gridò «è morto!».
I due professori rimasti non fecero una piega.
«Ricontrolliamo la traduzione?». Disse Quinton.
«Perché?».
«Perché... Ci potrebbe essere un...».
«Un errore?» Ridacchiò l'uomo. «Suvvia Quinton, non lasci che l'orrore ottenebri la sua intelligenza. Lo guardi».
Il monolito vibrava. In realtà quell'artefatto dal peso incalcolabile era perfettamente immobile, si trattava del conosciutissimo effetto ottico dovuto alla luce deformata dal suo campo gravitazionale.
«Da quando abbiamo scoperto il primo suggerimento c'è mai stato un errore?» Sul suo volto era dipinta un'espressione di folle divertimento. «Non mi offenda con una risposta, sarebbe poco elegante. Tutto questo è stato progettato da perfette menti superiori, praticamente degli dei, studiato in ogni particolare proprio per far sì che non potessero esserci fraintendimenti, un passo alla volta, un suggerimento dopo l'altro, gradini crescenti verso un'unica conclusione. Se vuole ricontrollare lo faccia pure. Io sono soddisfatto così».
L'americano posò gli occhiali AR. Sedette sulla sedia a dondolo da cui per dieci anni aveva diretto i lavori di riesumazione del monolito. Poi accese la pipa.
«D'altra parte non è colpa loro. Hanno fatto tutto il possibile. Ci hanno dato centoquattordicimilasettecentoventuno anni di tempo».
«Siamo stati troppo lenti».
«E troppo bellicosi, troppo litigiosi. Troppo animaleschi. A occhio e croce direi che abbiamo perso centocinquanta anni, forse duecento, oscillando tra la spinta verso un mondo migliore e il primitivo desiderio di veder primeggiare il nostro branco su quello del nostro vicino, dedicando così tante energie alla folle ricerca di armi sempre più potenti per squartaci a vicenda. Un piccolo sforzo in un'altra direzione e adesso staremmo contemplando un finale differente».
«Già». Quinton si fece una bella tirata. Le sue labbra facevano uno strano rumore quando inspirava. «E vuole sapere per quale ragione sono amareggiato?».
«Mi illumini».
«Sono amareggiato perché sono convinto che anche questa nostra lentezza fosse prevista dal Piano».
«Ah! Questa è una davvero brillante deduzione!».
«L'ha detto lei stesso: menti perfette, praticamente degli dei. Previdero anche il fatto che solo una razza più coesa e più pacifica della nostra avrebbe scoperto le pieghe argheane in tempo. E se per assurdo una razza violenta l'avesse fatto prima di noi di certo ne avrebbe usata la conoscenza per autodistruggersi in un batter d'occhio».
«Sì, sì! Condivido ogni parola. Evidentemente esistono delle costanti universali nella storia evolutiva delle razze del cosmo».
Il monolito emise una pulsazione a-orizzontale che i computer analizzarono e registrarono, quella stessa pulsazione che era stata registrata decenni prima dal team italiano occupato a testare il primo sensore multiplanare. Il primo indizio. Il primo suggerimento. Poi la scoperta della sua origine, il ritrovamento del monolito nascosto sotto uno strato di basalto nel bel mezzo dell'Africa.
«Sarebbe stato bello viaggiare tra le stelle». Disse Quinton.
«Con un po' di fortuna avremmo vissuto abbastanza da assistere ai primi esperimenti di salto». Stimò l'altro.
«Già».
Gerasimov emise un grugnito raddrizzandosi.
«Se solo l'iperdensità della materia esotica necessaria non richiedesse un campo di contenimento h-gravitazionale di simili proporzioni noi...».
Gerasimov l'interruppe ridendo. «Se non ho imparato nulla di fisica planare in settant'anni di vita si aspetta che possa farlo ora?».
«Posso confessarle una cosa?».
«Sicuro».
«Lei, professor Gerasimov è un emerito stronzo».
Il russo rise di gusto.
Quinton gettò via la cenere accumulata. Poi sbuffò.
«Quanto manca?».
«La matematica degli dei è il mio forte. Credo che

z- , , pf( #
. +

L'entità chiamata Zero emerse dal multipiano negativo del Nulla inghiottendo lo spaziotempo attorno alla stella chiamata Sole per un raggio di mezzo anno luce. L'onda gravitazionale trasformò in plasma ogni atomo all'interno del suo non-corpo. Ventiquattro millisecondi dopo il suo rientro nel piano materiale iniziò a nutrirsi. In quel sistema vi era abbastanza massa da consumare per i prossimi ottocento milioni di anni. Il processo di trasformazione generò due getti relativistici di polvere quantizzata.
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Re: [#3] Stelle come polvere (racconti) 31/03/2014 18:40 #11397

Arie universali

"La vita e na scoregia nel universo".
Lucia aspettava la metro come tutti i sabati degli ultimi tre anni quando lesse quella frase graffiata su uno dei piloni della linea B.
Era un'accozzaglia di errori incredibili e nessuno poteva davvero immaginare che proprio il sapore di quelle parole le sarebbe rimasto appiccicato addosso per il resto della sua vita.

Nonostante fosse al primo anno di Università ed avesse cambiato un po' le sue abitudini ed i suoi orari rispetto agli anni dell'Istituto Tecnico, Lucia aveva deciso di continuare a frequentare la stessa compagnia ritrovandosi con loro principalmente al sabato pomeriggio presso l'oratorio dei salesiani dotato di un bar interno dai prezzi modesti.
La compagnia di Lucia era piuttosto numerosa ed in taluni sabati arrivava a raggiungere anche più di venti elementi, la maggior parte dei quali di sesso maschile. Nonostante questo, Lucia aveva stretto una sincera e duratura amicizia con Fabio detto "Panda" (soprannominato così in virtù della testa sproporzionata e d'un paio d'occhiaie nere) e Kristoper detto "Santo" (soprannominato così perché chiamare qualcuno solo "Kristo" dentro l'oratorio dei salesiani poteva portare a spiacevoli conseguenze). Lei invece era conosciuta come "la Zia" in quanto tutti le riconoscevano una certa maturità non comune per l'età. A loro tre s'accompagnava "Circe", soprannome di Costanza, detta così per il semplice fatto che le toccò quel ruolo in una recita di terza superiore.
Loro quattro erano veramente cresciuti assieme nei periodi della prima adolescenza. Erano nella stessa classe salesiana delle medie e nonostante i loro percorsi si fossero divisi durante gli anni delle superiori erano rimasti molto in contatto. Lucia era stata poi l'unica a continuare con l'Università.

Era l'ultima settimana di Novembre e non s'era deciso ancora nulla per il Capodanno. Di solito era Lucia a portarsi avanti ma la prima vera sessione di esami prevista proprio a ridosso di quelle date le aveva instillato un pizzico di panico e, sinceramente, neanche aveva pensato a cosa si sarebbe fatto.
Sicché, vistisi quel sabato, Circe propose di festeggiare nella casa vicina al lago di proprietà dei suoi genitori. L’idea sembrò accontentare tutti e nel giro di una settimana il Capodanno era organizzato. Alla fine, oltre loro quattro, si aggiunsero altri cinque più o meno conosciuti da tutti. Tra i cinque c'era anche Hanna, una compagna di università di Lucia finlandese in Erasmus, che accettò di buon grado l'invito visto che non aveva minimamente voglia di ritornare al paesello per le feste.
Anche Panda, che probabilmente aveva quelle occhiaie a furia di masturbarsi, venne così accontentato. Hanna ero lo stereotipo che cercava dando per scontato che chi fa l'Erasmus è per forza «una che la molla a Capodanno...».
Gli altri quattro, due coppie, amici soprattutto di Circe, avevano accettato più che altro per esclusione. Per chi è fidanzato e non ha molte finanze quella era la soluzione ideale per iniziare al meglio ed insieme un nuovo anno.

Si ritrovarono tutti alle prime ore del mattino fuori dal cancello dell'oratorio. Lucia raggiunse la fermata della metropolitana, scrutò come suo solito il pilone per leggere qualche nuova composizione, rilesse la storia della scoregia e salì sul vagone.
Panda non perse l'occasione per tempestare di domande Hanna lungo tutto il tragitto e lei rispose gentilmente anche alle più bizzarre. La finlandese pareva non disdegnare le attenzioni del latin-lover.
Lucia s'era portata un libro universitario con se ma restò sigillato per l'intera durata della vacanza.
Arrivati in casa si sistemarono ed il primo passo fu fare la spesa.
Si misero tutti di buona lena a preparare chi l'una, chi l'altra specialità. Ne uscì fuori un degno cenone e l'alcool aveva sortito talmente bene il suo effetto che dalle nove in poi del trentuno di quella sera in pochi si ricordavano veramente i dettagli.
Lucia però ricordava bene un particolare. Era sicuramente prima della mezzanotte quando si diresse in bagno e beccò Santo e Circe quasi nascosti in una camera affaccendati a fare qualcosa. Lì per lì pensò subito a qualche storia passeggera tra i due.
“Strano che non si dica ancora niente in giro”, pensò.
Fece capolino un po’ più di quanto doveva e Santo s'accorse di lei. D'istinto fece per nascondere qualcosa. Anche Lucia, d'istinto, fece per andarsene sicché Circe le fece cenno di restare che non c'erano problemi di sorta.
Santo tirò fuori cosa stava nascondendo. Cominciò a sistemare il contenuto della bustina su di un piatto nero. Preparò tre strisce, arrotolò una banconota da dieci e tirò su. Lo seguì Circe e passarono il piatto a Lucia invitandola a provare.
«Dai, è Capodanno... una volta nella vita ti vuoi divertire un po’?»
Lucia, che fino a quel momento non aveva neanche mai fumato una sigaretta, non ci pensò su più di tanto, forte anche del coraggio fornito dall'alcool e tirò su anche lei.
Un retrogusto amaro le si attaccò in gola e fu la stessa risposta che diede al Santo quando le chiese «che gusto ha?».
Passò la mezzanotte, girarono almeno tre locali dove continuarono il tour alcolico e Lucia rimase sconcertata dal fatto che nessuno, nonostante tutto quel bere, fosse stato ancora male. Le due coppie così come Hanna col Panda, rientrarono prima di loro in casa. Quanto tempo prima era veramente difficile definirlo. Tutto pareva oltremodo dilatato.
Una volta rientrati, Lucia si distese nel letto; l’effetto dell’alcool aveva cominciato a scemare ma i suoi occhi erano sbarrati. Sentiva addosso un'energia incredibile. Si sentiva invincibile, non riusciva a dormire e ruppe le scatole a Circe che invece pareva più provata. Dopo qualche tentativo la lasciò in pace e si diresse nella stanza dei due amici. Panda era collassato nel suo letto senza riuscire a concludere niente con Hanna mentre Santo sembrava in dormiveglia.
«Non hai sonno?»
«No, per niente»
«Ma da quanto tempo è che la usate te e Circe?»
«Circe da poco e solo se ci sono feste così. Io da almeno due anni. Me l'hanno fatta provare prima di una partita, dopo che avevamo fatto serata. Da allora, per fare serata, la uso»
«Ma non fa male?»
«Cos'è che non fa male in sto mondo?»
«Ne hai ancora?»
«Si, almeno altre 10 strisce dovrebbero uscire, perché?»
«Non vorrei finissimo nei guai»
«Tranquilla Zia, non sono un coglione su ste cose»

Lucia non riuscì a prendere sonno e fu la prima a prendere atto delle condizioni della casa dopo quella serata. Si mise a sistemare la cucina, sparecchiò, lavò. Sembrava una macchina. Quando una delle due coppie si alzò rimase interdetta nel vederla lì, a sistemare come la più brava delle casalinghe. Diedero una mano nelle ultime faccende e nel primo pomeriggio la casa era come nuova. Fu in quel momento che Lucia, sedendosi sul divano, prese atto di cosa le stava succedendo. Sentiva le forze svanire come se un'entità esterna la svuotasse da ogni energia. S'era letteralmente inebetita e, pur mantenendo una certa compostezza, si rese conto di quanto fosse stanca. Aveva ampiamente superato le 30 ore di veglia ed ora il suo corpo pareva essere totalmente distaccato dal suo cervello come se non rispondesse più ad alcun comando. Aveva bisogno di altra coca e subito. Passò davanti a lei Santo, gli fece un cenno e quando s'avvicinò sul divano gli chiese:
«Ne hai ancora? Ne ho bisogno altrimenti oggi dormo tutto il giorno»
«Sicura? Guarda che è meglio che non ti abitui...»
«Tranquillo, son mica cogliona? Ce l’hai?»
Santo la tirò su per le braccia, andarono in stanza, scaldò il piatto nero con un accendino per qualche minuto e preparò due strisce. Lucia aspirò con molta più foga della prima volta come a dimostrare a Santo che non c’erano problemi. Dopo un quarto d'ora, quella che sembrava una ragazza investita ripetutamente da un trattore era invece ritornata come una guerriera pronta a spaccare il mondo.

Passarono indenni gli altri giorni e Santo riportò tutti a casa rimanendo con Lucia per ultima.
«Me ne lasci un po’? Magari mi serve qualche sera per riuscire a studiare visto che ho gli esami»
«Tieni ma non farti beccare e non farci l’abitudine»
«Stai sereno Santo»
«Ok. Ti scrivo quando sono a casa»
«Grazie»
Santo diede a Lucia una scatolina a forma di stella che lei si mise in borsa. Innestò la prima e si rimise in strada.
Lucia entrò in casa, salutò velocemente e corse in bagno. Apri la stella e dentro c'era una bustina con la polverina. Non aveva idea di quanta fosse. La richiuse e la ributtò in borsa dove rimase fino al sei gennaio.
La sera del sei si ritrovò con Hanna ed altre sue amiche in Erasmus in Italia. Finirono in un locale universitario a bere birra a prezzi scontati. Si raccontarono dei loro Capodanno e poi, in preda ad un po' di euforia, una delle amiche di Hanna tirò fuori un paio di canne. Lucia rifiutò di fumare. Si spostarono in un altro locale, una specie di club e quando vide l'amica di Hanna andare in giro a fare domande la fermò.
«Che ti serve?»
«Ho finito il fumo. Tu conosci qualcuno che sai che vende?»
«Vieni con me»
Si diressero in bagno e quando Lucia estrasse dalla borsa la stella, Janika non capì.
La svitò e quando vide la polvere bianca le si dilatarono le pupille?
«Ma è buona? Sei sicura?»
«Certo! Tu la sai preparare?»
«Si ma facciamo insieme o niente»
«Ok»
«Quanto vuoi?»
«Ma niente, figurati. Non vedo l’ora di liberarmene...»

Dopo quella sera, Lucia e Santo, cominciarono a sentirsi e vedersi sempre più spesso. Quasi involontariamente Lucia s'era aperta un mercato ed aveva cominciato ad assaporare il gusto dei soldi e delle serate. Soprattutto tra i ragazzi Erasmus s'era sparsa la voce che lei riusciva a recuperare roba buona e, a quanto pare, era praticamente l'unico fornitore fidato dell'Ateneo.
Passarono le settimane, i mesi e poi gli anni. Lucia però, nonostante gli affari andassero bene, non riusciva a mettere da parte più niente. In sostanza quello che lei vendeva era diventato sufficiente a malapena a garantirsi la sua parte da sniffare. Così, mentre gli altri avanzano con gli esami, mentre i ragazzi Erasmus andavano e venivano, lei continuava a fare la pusher universitaria ferma al palo.
L'attività che aveva intrapreso l'aveva allontanata un po' da tutti. Tolto il Santo, che ormai vedeva solo più per ricaricare di polvere le stelle, gli altri erano pressoché spariti impegnata com'era a stare appresso ai sempre più numerosi clienti che doveva seguire.
Quella scritta, che ancora troneggiava sul pilone della metro della linea B, da semplice e divertente cazzata si stava trasformando in un incubo. Lucia stava cambiando. La sua vita le stava sfuggendo di mano e si sentiva proprio come quell'inutile getto d'aria sparso in un posto troppo sconfinato da comprendere.
“Forse aveva ragione chi l’aveva scritta tanto tempo fa. Non importa chi siamo e cosa facciamo. In fondo noi, in questo universo, non contiamo davvero un cazzo”. Questo era divenuto ormai un suo pensiero fisso soprattutto quando l’effetto euforia della coca andava a svanire.
Aveva anche provato a smettere ma proprio non ci riusciva più. Ormai quel ruolo da pusher era l'unica cosa che la faceva andare avanti. S’era auto-assegnata quel ruolo sociale e nessuna strada nuova pareva percorribile.
Finché in un pomeriggio caldo di fine marzo qualcosa non funzionò.
La trovarono sul letto priva di vita. Quell’ultima dose le fu letale, forse tagliata male, forse semplice overdose dopo un breve periodo di astinenza.
A ventotto anni era morta da sola, in qualche breve istante come se fosse davvero normale ed inevitabile.
Alcuni amici di quella storica compagnia presenziarono al suo funerale. Qualcuno anche ad alcune interviste di giornali e TV locali.
«Era una brava ragazza che studiava anche all’Università. Nessuno poteva immaginare finisse così. Avrebbe dovuto laurearsi a breve ci diceva. Che peccato. Ci mancherà tantissimo»
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Re: [#3] Stelle come polvere (racconti) 31/03/2014 23:44 #11406

MODULO C-09

La porta si apre, due guardie trascinano il Dottor Roman al cospetto dell'agente Vadim.

- Buongiorno dottore - esordisce Vadim - Come andiamo oggi?
- Come ieri o il giorno prima o quello prima ancora. Non ci sono molti cambiamenti qui a all'Hotel Ambassador cinque stelle - Roman sorride a denti stretti.
- Bene, vedo che siamo di buon umore. Questo ci aiuterà a fare presto e dopo che mi avrà raccontato i fatti di Tunguska la lascerò andare.
- Ancora? Ho già spiegato tutto più di cinquant'anni fa e mi hanno rinchiuso qua dentro per poi buttare la chiave. Ora spunta fuori lei e vuole ancora informazioni su Tunguska? Dove è stata la madre russia in tutti questi anni?
- Dottor Roman, capisco la sua frustrazione, ma qui le domande le faccio io. Non le deve interessare il motivo per cui sono qui e perchè voglio informazioni da lei. Allora, mi ripeta quando si è fatto quel tatuaggio e cosa rappresenta.

Roman ha la parte superiore del corpo completamente tatuata. E' tutto nero tranne che per una miriade di puntini bianchi fittissimi.

Il dottore ricomincia la solita solfa. Per l'ennesima volta racconta del suo tatuaggio - Questo tatuaggio me lo sono fatto qui a Broho. Due anni dopo i fatti di Tunguska. Me lo fece il mio compagno di cella Vissarion Petroviek, pace all'anima sua. Rappresenta quello che ho visto quando ero rinchiuso all'interno del modulo C-09 durante gli esperimenti di quel giorno, quando stavamo tentando di teletrasportare della materia da un luogo all'altro usando una grande quantità di energia estrapolata dall'antimateria.

Vadim si agita sulla sedia, gli scappa ancora una volta quel sorriso beffardo. Non crede ad una sola parola di Roman ma prosegue - E cosa vide dottore all'interno di quel modulo?

- Stelle. Stelle ovunque potessi volgere il mio sguardo. Tante stelle come non ne avevo mai viste. Sembrava di essere all'interno di una grandissima stanza illuminata a giorno ma ero nello spazio. Sono convinto che in quel momento mi trovavo al centro dell'universo. Vedevo così tante stelle, così tanti puntini luminosi da sembrare polvere luccicante che avvolgeva ogni cosa. Era una visione al contempo affascinate e angonsciante.

- E'per ricordare quel momento che si è fatto tatuare tutti quei puntini sul corpo?

- No, non per ricordare. Non potrei mai scordare quel giorno. Fu un valido passatempo. Cinque mesi di dolore e bruciore costante. Ma lo rifarei ancora, tutto pur di rompere la monotonia di questo posto. L'essere umano per fortuna si abitua a tutto dicono. Sono ancora indeciso se si tratti davvero di fortuna.

- Come fa a dire che si trovava al centro dell'universo? Voglio dire, è difficile da credere. Molto difficile. Sono certo che anche lei sarebbe dubbioso al mio posto.

- Come faccio a dirlo? Beh, vede, non so come altro spiegarlo. Riguardo all'altra sua considerazione direi che non crederei nemmeno ad una parola di quello che racconto.

- Non potrebbe darsi che l'esplosione avvenuta a Tunguska l'abbia sconvolta a tal punto da non rendersi più conto di quale sia stata la realtà dei fatti?

- Beh, signor agente segreto, il motivo per cui mi trovo qua dentro da più di cinquant'anni sta a dimostrare che nessuno mi ha creduto. Anzi, sono stato ritenuto colpevole di quello che è successo. Anche se nessuno sa bene cosa sia realmente accaduto. Sono l'unico sopravvissuto.

- E cosa è successo dottore?

- Se io fossi stato con gli altri al momento dell'esplosione non potrei essere qui con lei a parlarne. Immagino abbia letto il fascicolo riguardante quel giorno?

- Certo.

- Bene, questo le dovrebbe far comprendere che ottanta milioni di alberi abbattuti su una superficie di duemila km quadrati è un evento di difficile attuazione per un essere umano che poi intenda anche sopravvivere. Non ci sarebbe stato modulo che tenga a potermi salvare se fossi stato in grado di perpetrare una distruzione simile. Infatti tutto il laboratorio e i miei colleghi furono spazzati via. E di moduli ne avevamo progettati ben dieci. Ne è stato trovato qualcuno a parte quello in cui mi hanno recuperato?

- Sembra di no.

- A seicento km dall'esplosione l'onda durto provocata fece deragliare i vagoni della transiberiana. Si rende conto? Fu come se la bomba scagliata su Hiroshima fosse esplosa mille volte. Niente poteva sopravvivere quel giorno. Perchè mai avrei dovuto fare una cosa simile? Se avessi voluto sabotare il laboratorio per qualche strana ragione, bastava un'infinitesima parte di quella potenza. E soprattutto come sarei riuscito nell'impresa?

- Non lo so, me lo spieghi lei.

- Non ho nulla da spiegare in merito, visto che non sono l'arteficie di quel disastro. Il nostro esperimento si basava su qualcosa che a quel tempo tutto il mondo ignorava e come si è potuto vedere, per quanto avanti fossimo rispetto a tutti gli altri, non eravamo pronti a controllare un'energia di quella portata. Nè sapevamo che il nostro esperimento sarebbe sfociato in tutt'altra direzione.

- E quale sarebbe quest'altra direzione? Ha qualche idea del come e del perchè l'esperimento sia sfuggito totalmente al vostro controllo?

- Ho già spiegato secondo me cosa avvenne quel dannato giorno.

- Me lo ripeta un'altra volta.

- Quel giorno avevamo isolato delle particelle di antimateria. Erano altamente instabili, ma per tentare di raggiungere il nostro obiettivo ci serviva una quantità di energia non ricavabile a quel tempo da nessun'altra parte.

- E nemmeno oggi se è per questo. Qual'era il vostro obiettivo?

- Trasportare della materia da un luogo all'altro. All'interno di quei moduli di piombo, nichel, acciaio e kadmio avremmo riversato un concentrato di energia tale a scomporre la materia e a farla rimaterializzare in un altro involucro distante 3 km dal laboratorio. Erano studi condotti da anni e grazie alla mente geniale del Dottor Piotr Svetrijkov tutto sembrava avere un senso. Tutto sembrava collimare con i calcoli fatti e rifatti migliaia di volte da tutti noi.

- E invece?

- E invece mentre stavo approntando gli ultimi preparativi all'interno del moduloqualcosa nel controllo dell'antimateria deve aver ceduto e si è liberata inaspettatamente. Io da dentro vidi una luce abbagliante, la porta si chiuse all'istante e poi mi sveglia al centro dell'universo.

- Avanti dottore - sbotta in quel momento Vadim - la smetta con questa pazzia. Non ha più alcun senso mentire. E' vecchio, sta per morire. Mi dica cosa avvenne quel giorno!

- Beh, la versione ufficiale rilasciata al resto del mondo è stata quella dell'esplosione di un enorme meteorite a pochi km dalla superficie. Limitiamoci a questa versione e non pensiamoci più. O anche la versione della cometa è piuttosto interessante. Il perchè tutta la zona per migliaia di km fosse radiottiva e fosse morto qualsiasi animale della foresta rimangono dettagli di poca importanza. Un meteorite di nichel e ferro ho letto qua e la. - Roman sorride - Peccato non ne abbiano trovato traccia alcuna in tutta l'area.

Vadim ignora volutamente il sarcasmo di Roman - Mi parli ancora dei momenti in cui si trovava all'interno del modulo C-09 dopo che ha visto l'esplosione di luce.

- Mi sono rivesgliato dentro il modulo dopo qualche tempo. Non so esattamente dire quanto, il tempo non era di facile percezione non avendo alcun riferimento. Mi sono
alzato e ho guardato fuori dall'oblò ed ebbi quasi un mancamento. Stavo galleggiando nello spazio. Il modulo era pressurizzato e a tenuta stagna, ma non aveva certo una
quantità di ossigeno illimitata. Non era progettato per lavorare in ambienti senza ossigeno. Anche solo per quel motivo posso dedurre che non passò molto tempo dall'esplosione di luce al mio risveglio nel modulo. Comunque i miei pensieri non erano certo attratti dall'ossigeno in quei primi secondi. Ero completamente estasiato.
Un numero incalcolabile di puntini luminosi ovunque volgessi lo sguardo. Stelle come polvere, non ho altra definizione da poter dare allo spettacolo maestoso che mi si
parava di fronte. Non ero in nessuna parte dell'universo a noi conosciuto. Il fatto di dire che mi trovassi al centro dell'universo fu solo una mia deduzione, non avvalorata da dati scientifici. Semplice ipotesi in base all'osservazione del fenomeno a cui assistevo per chissà quale concatenamento di eventi. Dopo un po' però cominciò a farsi strada il panico e l'esasperazione di non capire come diavolo petessi essere finito li. Come diavolo sarei potuto uscire vivo da una situazione che dire paradossale era dir poco. Il problema dell'ossigeno cominciò a farsi strada nella mia mente, il respiro si faceva sempre più affannoso e il fatto di trovarmi all'interno di una scatola di metallo larga due metri per due in mezzo al nulla cosmico non aiutava certo a rilassarmi. Ma poco dopo fui preso da un fortissimo senso di vertigine e fui come risucchiato via dal luogo in cui mi trovavo dopodichè il nulla. Mi risvegliai quando dei militari in tuta antiradiazioni mi tirarono fuori dal modulo. Mentre mi trasportavano verso un mezzo di primo soccorso notai di sfuggita la devastazione in cui mi trovavo. Mai e poi mai avrei collegato quel luogo di devastazione alla zona dove si ergeva il laboratorio in cui lavoravo. Non c'era più nulla. L'apocalisse.

- Si è dato una spiegazione di tutto ciò.

- L'esplosione non avvenne quando fui spedito nello spazio, bensì quando fui risucchiato indietro portando con me una quantità di antimateria tale da causare l'esplosione che poi creò il mistero di Tunguska. L'esperimento di teletrasporto della materia che stavamo approntando probabilmente è sfociato in una apertura nello spazio tempo che mi ha spedito per pochi minuti tra le stelle per poi risucchiarmi indietro. Il collasso determinato da questa traslazione spazio temporale ha provocato l'armageddon di cui tutti siamo a conoscenza.

- Bene dottore, non posso negare di essere scettico e impressionato allo stesso tempo da quello che mi racconta. Ma ipotizzando solo per un secondo che lei non sia nè pazzo nè una spia nemica che ha lavorato per danneggiare il nostro paese, sono qua per capire da lei se riuscirebbe a riprodurre le dinamiche di quell'esperimento di tanti anni fa. Le alte sfere sono interessate a rimettere in piedi i progetti del geniale Dottor Piotr Svetrijkov. Quello di Tunguska è un caso ancora irrisolto che tormenta molti dei nostri superiori. Alcuni sono convinti che aver sepolto tutto non sia stata la scelta migliore. Da quello che stavate studiando potrebbero uscirne sviluppi molto interessanti.

E'quello che ho provato a dire a chiunque mi capitasse a tiro qua dentro. Chiunque avesse almeno un grado superiore a quello di prigioniero. - sbotta ridendo il Dottor Roman - Ci ho provato per trent'anni. Trenta fottutissimi anni, dopodichè mi sono arreso.

- Non ha risposto alla mia domanda dottore.

- Se riuscirei a ricreare quel tipo di esperimenti? Certo per dio! Per chi mi ha preso? Ero l'assistente capo ed il prediletto di Piotr. Mi aveva scelto lui all'accademia di Mosca. Tra mille candidati. Non ero mica un passacarte! Ero una mente geniale. E "loro" hanno voluto rinchiuderla e farla marcire qua dentro. Per mezzo secolo cristo santo! Che dio o chi per lui li faccia marcire all'inferno per l'eternità!

Dopo qualche secondo Vadim riprende - Non posso neanche lontanamente immaginare cosa si provi ad invecchiare inascoltato qua dentro. Ma questa è la sua occasione per uscire e provare a dare un senso a quello che successe tanto tempo fa. Cosa ha da perdere?

- Cosa ho da perdere mi chiede? Niente in effetti. Ormai mi è stato tolto tutto. Ma sa cosa le rispondo signor agente segreto o chiunque lei sia? Che no. Non uscirò da
questo buco dimenticato da Dio. Il Dottor Roman Kaspyerskij è morto tanto tempo fa, dentro quel modulo C-09. E' morto al centro dell'universo, avvolto dalle stelle!

Si alzo lentamente dalla sedia e con un gesto fece cenno alle guardie di riportarlo alla sua cella.
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 31/03/2014 23:50 Da Titivillus.
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