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Disumanità. Caratteristica tipica degli esseri umani. (Ambrose Bierce)
Disumano è il secondo tema di questa quarta edizione di UniVersi. C'è tempo fino al 31 Gennaio 2012 (compreso) per postare i propri elaborati. Ricordo che è ammesso un solo racconto per autore. Se al 31 Gennaio non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine ultimo sarà prorogato al 14 Febbraio. Se al 14 Febbraio non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine definitivo e improrogabile sarà portato al 29 Febbraio. I racconti vanno postati in forma anonima (gli autori saranno svelati a fine concorso, dopo le votazioni) effettuando il login con l'account "Titivillus", password "universi". Ricordatevi di controllare il numero di caratteri prima di postare. I racconti che supereranno i 12000 caratteri (spazi compresi) saranno considerati fuori concorso. Ricordatevi anche di postare un sottotitolo per la vostra opera. Fatele lavorare le tastiere a questo giro! Superate voi stessi, superate i vostri limiti umani, non abbiate pietà, siate... disumani! REGOLAMENTO COMPLETO RACCONTI IN GARA
È possibile scaricare il pdf contenente tutti i racconti in gara, per una lettura più agevole. |
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"Le Poète est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l'archer; Exilé sur le sol au milieu des huées, Ses ailes de géant l'empêchent de marcher."
Ultima modifica: 03/02/2012 18:52 Da TheKaspa.
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BETH
Tredici anni ed un sol giorno bastò abominevole è il destino dei puri ma vi starete chiedendo maggiore chiarezza ebbene così non sarà ché nulla è chiaro nel come nel perché forse nel quando ma quando maturò ciò che poi sembra inevitabile forse non ieri forse tutto concorre impercettibile ed affiora alla nostra attenzione quando varca una soglia misteriosa Ebbene Ognuno di noi posseduti da un'anima saturnina conosce la bellezza dei grigi meriggi d'autunno e mi crogiolavo nel presagio della sventura e la cercavo come un navigatore folle di assoluti cerca la tempesta perfetta che lo sleghi dai suoi confini misi me nell'impossibile come misi lei nell'incomprensibile la voce metallica amica di tempi sereni ciondolando all'ora del tè nell'esausto vibrare ormai ed è già sfocato come nebbia densa prossima a celarsi nel presto buio il gusto di gocce melliflue che mescola il ricordo insistito nell'abbraccio che non comprende che brama che arde che risuona aulico sacro ma svanito Ora è svanita già parte e già troppa e mi rassegno alla vaghezza laddove non potrò mai lì per correre possedere questa lingua che si snoda e non s'annoda e non si placa in un palpito non si placa in un uno inumano desiderio estremo privo di stelle fosser purpuree se non fulvide O come poté l'intreccio che procede nascosto alle mire del giorno colpire in una strada già riempita di volere il fragile segno di anni che parevano tali Ed erano altro Troverai nei labirinti quei labirinti dove la pietra odora di muffe la notte non percorre passi che l'imbuto del tempo non abbia già divorato e credevi forse che nei motti ripetuti ed anche cantati sotto archi di pietra con archi giacesse una forza capace amorosa laddove si dimostrò vuota la preghiera del prigioniero ignaro delle sue proprie illusioni condannato non da sé ma per se stesso all'oscurità di ciò che si mostra Mentre l'armonia canta da pietre selvagge un vizio di curve sostenute da un carro ventoso che reclama imperioso l'unico respiro conclusivo Ed il cosmo non è fermo nell'atto la freccia sibila e la saggezza declama compiaciuta il sonno di Visnu forse della ragione forse la Musa silente di bianche rocce arcane sepolte non più sufficienti a placare un suono terribile come il suono che presto esploderà uccidendo gli equilibrii Disse ed in Arcadia e su danze fu rapido il ritorno e fu o furtivo lo iato ed è - ma prima al punto che necessitò di sincerarsi dell'esistenza - è ormai sopito Quasi fiala di pazzia dei segni attorcigliati in un racconto intessuto su antiche vestigia Non può lo spirito libero accettare il ricatto dell'amore come per campi su alture cavalca una figura priva di sostegno e vicina ai segreti delle coste e come d'altronde ben sai che se una pellicola sfocasse la cortina argentea della pioggia di racconti marciti che sarebbe In foreste non più definite Neppure un libro perduto è più perduto di una foresta dunque vorrei riassumerti davanti ad un fuoco amico crepitante di legna dolcemente intorpidito dal tepore del consorzio umano ciò che nulla potrebbe riassumere se non bastarono tredici anni di peregrinazioni ed ancora nascondono dentro armadi vetusti candele ed ancora nascondono gli uomini ciò che non trovano ancora le montagne vengono scalate mentre la nebbia intacca la linea nitida ed i mostri disumani premono dalle porte del caos per assoggettare i sopravvissuti alle prime orde Una volta non fu bastante sì che ribadii lo strazio Ma se bene ho lavorato il mondo non sarà così oscuro per qualcuno una fiammella guida gli intrepidi che ascoltarono la mia voce verso la beatitudine della pienezza Ora come sia essere e non più ciò che svanì e susseguirsi di continuità che stridono con la deflagrazione puntuale incessante del momento fosse dato sapere né pare dato gustar se non in parte in disparte senz'arte Ed artatamente sotto spoglie di cari resti il resto non fu che un attimo un ricordo nello svanire della coscienza vinta dalla chimica della materia Ma poi si disse forse illuminato - un'aureola abbacinante velava prepotentemente la figura di un fico - che poteva cominciar la guarigione da quell'imprevisto episodio guarendo da o cominciando comunque non s'inganni il lettore che troverà l'incrocio nei meandri barricati La morte in ogni respiro di un lento trascinarsi gli uomini non sanno più dare se non hanno dopo anni ed anni per un'altra volta rivivo e benedetta fu la conoscenza come non si viene a sapere se non perduti Devi sapere caro lettore che se ardisti giungere fin qui meriti ulteriori dettagli che le vite sono ripetute e contorte si susseguono nella creazione dove un filo sottilmente unisce perle tintinnanti Ordunque non ti stupirai nell'apprendere che in virtù di tal principio come ramo si pota facondo decisi me anche se inconsapevole però intimamente sicuro - per esperienze maturate ed una lunga sequenza d'impronte - né ti sorprenderà scoprire che nonostante tutto aspettai la fine dell'inverno nel letargo confortante della tana Maledicendo con giaculatorie come stregone infiammato da quel calor che nel paese della melarosa chiamano tapas Solo alla quattordicesima luna uscii dal pertugio coperto di neve e sorrisi ad un raggio di luce che faceva capolino da dietro una collina allora con passo sicuro percorsi vie che non avevo mai esplorato ma sentivo mie e care per sangue giunsi senza fatica ad un crinale dove ancora non rimembravo di vertigini ed assaporai un frutto che parve più dolce di una fragola selvatica Poi non ero più coperto da nubi e spaziavo l'orizzonte con occhi tesi nel vento ed avvistai la valle che intendevo risalire Dopo giorni di cammino mi ritrovai a seguire un torrente ampio e quasi secco sopra le cui pietre volteggiavano rari pennuti ed uno alquanto si avvicinò ed era un falco Con ampi volteggi si era già levato oltre la mia percezione ed ero ormai in prossimità di un'ansa dove l'acqua più si radunava e l'acqua rapida gorgogliava tra pietre lisciate limpida Mi abbandonai al massaggio Ed ero acqua e ricordavo quando fui vento e rimembrai delle meditazioni che la fugace stagione della febbre aveva ammantato di miti e fui di nuovo brevemente caldo mi risi di me e del mondo e nuotai per un presente che sembrava eterno ebbro Un seme non ancora ricoperto e brezza nel mezzo del respiro un'onda di pace Forse un giorno ti racconterò del resto Ma non sii privo di pazienza perché la pazienza è il primo alambicco per distillare il succo dell'indicibile Troppo umano è l'istinto benché i dormienti lo dipingano ferino La fiera è saggia il totem custodisce la via al labirinto accedi o temerario non prima delle tredici stagioni erratiche Allora le porte del disumano potrai scorgere ed allora gli antichi esagrammi teratogeni individuerai tra le ombre Così era scritto e non mi bastò nemmeno il lungo mese successivo per venirne a capo tornai nel mio studio confuso e vagolando tra pergamene e tomi polverosi trascorsi coccolato dall'abbraccio affettuoso di comprensione della mia dolce metà il resto dell'anno intento a decifrare l'enigma ma più mi ci addentravo e più mi sfuggiva l'essenza che costituiva il grimaldello Mi presi una pausa e dopo la festa di mezza estate cominciai ad intravedere i contorni del mistero Ma ecco |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 20/12/2011 01:01 Da Titivillus.
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Un dolce amore
- Cos'è per te l'amore, Marta? - chiese Yuri alla donna che sedeva di fronte a lui, adagiata su una poltrona rivestita di velluto rosso che aveva tutta l'aria di essere decisamente comoda. - Oh, non è una domanda facile - rispose lei, tendendo impercettibilmente la schiena e piegandosi leggermente in avanti, come a sottolineare l'attenzione e l'impegno necessari - L'amore, almeno per come lo vedo io, da una prospettiva tutta femminile, è donarsi completamente all'altro; è abbandonarsi nelle mani del partner, riuscendo quasi ad annullarsi in lui, a farsi comprendere ed includere totalmente... - Sai che mi è sempre piaciuto questo tuo modo di vedere la cosa? Sento davvero di aver trovato tutto quello che ho cercato per una vita! Non mentiva, Yuri. Per una vita aveva cercato una donna come Marta, con scarsissimo successo; i suoi fallimenti nel cercare una donna così gli avevano procurato, oltre che una poderosa insoddisfazione, anche qualche piccolo problema con la legge, per via di qualche fanciulla che s'era sentita “perseguitata” dalla sua insistenza. Ma adesso quella era acqua passata. Yuri aveva conosciuto Marta grazie ad un annuncio che aveva pubblicato su un sito internet, distrattamente, quasi senza crederci più di tanto. Invece lei aveva risposto; e di lì era nata una relazione, o quantomeno un progetto comune. Il passo verso l'organizzazione del loro incontro era stato decisamente breve: si erano accordati per vedersi per la prima volta a casa di lui, una bella villa dei primi del '900, situata appena fuori città. Entrambi avevano convenuto che, nonostante a qualcuno le decorazioni in ferro battuto possano risultare spiacevoli o persino inquietanti (specie se illuminati dalla fioca luce della luna, nelle buie notti delle colline toscane), quel posto possedeva tutta la magia necessaria per poter ospitare quel loro incontro così speciale. Marta si era presentata con un bel vestito rosso, che anche grazie ai tacchi ne slanciava la figura. Forse sembrava appena sovrappeso, ma aveva ugualmente un aspetto molto piacevole (e, del resto, aveva passato ore davanti allo specchio per ottenere quel risultato, come ogni donna che si rispetti). E poi, aveva pensato Yuri, non sarebbe stato un problema: quando vai a possederle, è meglio che le ragazze abbiano un po' più di carne addosso; altrimenti, che gusto c'è? I due si erano accomodati nel salotto, una splendida stanza dalle pareti rivestite con pannelli di mogano; e, se non fosse bastato quel dettaglio a riscaldare l'ambiente, ci avrebbero pensato il fuoco che crepitava discretamente nel caminetto ed il vino, una buona bottiglia di Gewürztraminer stappata per l'occasione, ché quel retrogusto floreale fosse di buon auspicio per il loro incontro. Lì, sulle comode poltrone, avevano parlato del più e del meno, certo, come sempre si fa per rompere il ghiaccio, per giungere poi a parlare del vero amore. Ed era stato lì che Yuri aveva sentito di amarla, come aveva amato quelle altre donne nel suo passato; ma, come mai prima di allora era successo, aveva sentito anche di esserne corrisposto. Aveva lasciato la sua compagna nel salotto, con un bella compilation classico - operistica che aveva acquistato qualche anno prima e che conteneva molti dei brani che più lo emozionavano. Si diede, quindi, ad un'altra delle sue grandi passioni: la cucina. Sulle note soavi del Vide cor meum sbucciò le cipolle, poi le fece delicatamente rosolare in una padella ricoperta di un fondo di burro; intanto, con tutta l'energia ed al contempo la precisione che solo un Nessun dorma cantato da Pavarotti può dare, aveva provveduto a sgrassare il fegato e a tagliarlo in sottili fette. Ed infine, sull'Aria da capo delle Variazioni Goldberg mescolò il tutto, sprigionando un profumo esaltante. Con la padella in mano si diresse nuovamente verso il salotto, dove lo aspettavano la bella Marta ed una bottiglia di Chianti. Sul tavolo, il foglio di carta che Marta gli aveva mostrato qualche minuto prima, e che in due copie uguali lei aveva provveduto, nel pomeriggio, ad inviare a sua sorella ed alla Procura: “Io, Marta Rossi, in piena libertà, ho deciso di suicidarmi, e desidero che l'unico uomo che amo mi possieda completamente, cibandosi della mia carne...” Yuri si tuffò in quel piatto, ancora caldo, assaporandone il gusto intenso, con un retrogusto quasi caramelloso: il sapore di un sogno che si avvera, una dolcezza che solo l'amore poteva dargli. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Le docce austriache
Avevo appena chiesto a nonno di raccontarmi una storia. Lui, benché stanco e vecchio, senza più la forza che lo aveva accompagnato negli ultimi dieci anni, non si tirava mai indietro. Adoravo mio nonno, il suo modo di affrontare la vita. Da qualche anno s'era sottoposto ad un intervento che lo aveva privato di un rene; maledetto tumore. Ma questa è un'altra storia. Non perdeva mai la pazienza ed affrontava la vita con ammirabile ... ottimismo. "Vieni qui ti racconterò una storia vera. Sai, ormai sei cresciuto e credo le favole non facciano più per te. Per una volta voglio raccontarti qualcosa che possa farti capire quanto sei fortunato. Questa storia inizia tanto tempo fa. Correva l'anno 1944 ed io ero ancora un ragazzino. Ero su un treno con mio padre che tu, sfortunatamente, non hai avuto l'occasione di conoscere. Insieme a noi centinaia e centinaia di persone, accomunate tutte dalla stessa meta, dallo stesso destino. Ricordo che avevo paura in quel vagone, così stretto e vecchio. Ricordo ancor meglio l'odore dell'aria consumata che, da un momento ad un altro, sembrava potesse finire condannandoci ad una fine terribile. Me ne stavo steso nel limite del possibile, con la testa appoggiata al ventre di papà e le gambe ranicchiate. Mi guardavo intorno scrutando le facce delle persone. Dritto avanti a me se ne stava un uomo magro, con la faccia sciupata e gli occhi incavati nel volto. La pelle era color della cenere e vestiva in maniera semplice. Più semplice di tutti noi. Mi colpì in maniera particolare la parte inferiore del suo vestito: i pantaloni erano corti, benché l'inverno fosse nel pieno della sua furia. Mi chiedo ancora oggi il perché. Si ok, una volta eravamo poveri e ci stavamo dirigendo lì, però non capisco proprio la scelta di quell'uomo, sempre che di scelta si potesse parlare. Ai quei tempi non avevamo molte libertà e, sicuramente, quella di sceglierci i vestiti non era contemplata. Le vesti si passavano da padre a figlio e da fratello a fratello. Se ti andava bene potevi capitare in abiti più larghi del dovuto. Se t'andava male, potevi anche non averne di vestiti. Così era la vita per molti di noi. Forse era per questo che Frank - si ora ricordo, l'uomo dalla faccia smunta si chiamava Frank. Lo avrei rivisto un paio di volte. Il numero giusto per sentire il suo nome, e per non sapere più nulla di lui - aveva "scelto" tale abbigliamento. Vidi scendere una lacrima lungo le ossa sotto la pelle del volto di Frank. Avrei voluto chiedere a mio padre i perché di quell'uomo, ma non volevo rompere il silenzio che s'era creato da alcune ore a quella parte. Sia chiaro, non che ci fosse una grande conversazione tra le persone della mia carrozza, visto che non ci conoscevamo e visto che stavamo andando lì. Però in alcune occasioni, divenute appunto più sporadiche con il passare dei chilometri macinati dal nostro treno, quelli che si conoscevano si rivolgevano qualche parola di conforto, di forza oppure semplicemente uno sguardo per farsi coraggio. Ora nemmeno quello. Solo il rifrangersi del suono della ruota metallica che mangiava, masticava, digeriva e sputava ciclicamente il binario di turno. Ritmico. Ipnotizzante. C'erano altri ragazzini come me: chi era stato fortunato aveva anche la mamma con lui. Quella era la fortuna dei figli. Una vera e propria condanna, invece, per le madri. Mi mancava la mamma. Temo che la mamma che ebbi da quegli anni in avanti fosse solo un'idea della donna reale che mi aveva cresciuto. Una proiezione. Ecco si, una proiezione di mia madre. Questa proiezione, che s'era mischiata più e più volte con proiezioni precedenti e di principio con la vera immagine di mamma, in quel momento mi faceva ricordare questo: una donna non alta, molto giovane e credo bella. Mora, con gli occhi del medesimo colore. Magra, si molto magra. Parlava poco. Però conosci già tutto questo e non voglio starti ad annoiare con i particolari. Ricordo che per ammazzare il tempo ed evitare di assillare mio padre con le domande alle quali sistematicamente non rispondeva, o alle quali tergiversava con un "te lo spiego dopo", mi misi a contare le persone dello scompartimento. Puntualmente però perdevo il conto oppure, cosa peggiore, non ricordavo se la persona che stavo cercando di censire in quel momento fosse già stata contata. E così ricominciavo. Di nuovo, e di nuovo. Ancora una volta. Avevo allora trovato un gioco più divertente da fare. Il gioco era il seguente: fissare per qualche attimo una persona all'interno del convoglio e, isolando le sue peculiarità, assegnarli un nome. Pensavo che una volta a destinazione avrei potuto verificare di persona se i nomi da me attribuiti corrispondessero alla realtà. Così non sarebbe stato. C'era un uomo di colore alla mia destra, proprio nell'angolo in cui due scompartimenti andavano a dividersi e dove si formava una specie di ruggine color ocra. Aveva la testa rasata, grandi narici ed occhi chiari. Ero riuscito a cogliere quel contrasto nell'unico attimo dove i nostri sguardi, incrociandosi, s'erano parlati in una lingua universale. Quello sguardo mi parlò, improvvisamente, chiedendomi aiuto. Chiedendo aiuto a me, ad un ragazzino. Non so cosa gli occhi miei comunicarono a lui, così come non so se lui si rese conto di comunicare qualcosa a me. Difficilmente comunque, avrei potuto comunicargli un messaggio di speranza. Chiamai quell'uomo Abraham. L'alto ragazzo accanto a lui, carnagione scura - o forse oscurata dalla sporcizia accumulata durante quel lungo viaggio - e capelli mossi lo battezzai Yoel. Andai avanti per ore, fino ad addormentarmi cercando di associare un volto per il nome che m'era appena balenato in testa: Yosseph." Osservavo rapito il movimento della bocca di nonno. La sua voce non tradiva troppe emozioni e, benché avessi intuito di cosa si stesse parlando, non capivo come potesse mantenere una tale tranquillità. Sotto quella coperta di pile a scacchi bordeaux e blu - accostamento cromatico non troppo fortunato - se ne stava uno dei pochi sopravvissuti. Forse è per questo che affrontava la sua vita come se ogni giorno fosse un regalo e non si perdeva mai d'animo. Sapevo che nella vita aveva affrontato avventure - passatemi il termine - di ogni genere, ma non immaginavo potesse aver visto QUELLA cosa. Avevo appena appoggiato la mano al mento afferrando tra l'indice e l'anulare un ciuffetto della mia corta barba, chiaro segnale d'interesse. Stavo per domandare qualcosa, quando incrociando lo sguardo a quello del padre di mio padre, capii che le risposte sarebbero arrivate senza bisogno di chiedere. Distolsi per un momento lo sguardo, fissando l'autocarrozzeria abbandonata davanti casa e, salendo sempre più in alto, il cielo divenuto grigio. Mi persi nella parole che ruppero il silenzio. "Il suono delle ganasce del treno contro la ruota mi aveva svegliato. Frenata brusca e conseguente odore sgradevole tipico dei treni in arrivo. Scivolai lentamente fuori dal sogno precipitando letteralmente dall'altra parte del vagone. Frank non aveva fatto una piega benché gli fossi andato praticamente contro. Inutile dire che mio padre si era profuso in una serie di scuse fin troppo sommesse per essere sentite. Non importava comunque a nessuno. In un attimo si era aperto il vagone e davanti ai miei occhi impauriti, era apparso un soldato in divisa che parlava una strana lingua, mai sentita. Lo fissai, smarrito. Una divisa verde oliva, sostanzialmente monocromatica, lo cingeva dalle caviglie al collo ed era allacciata fin sotto il mento. Le uniche vie di fuga da quel colore asfissiante erano offerte da una spilla a forma di aquila che riluceva all'altezza del taschino, situato all'altezza del cuore, e da quelli che mi spiegarono anni più tardi, essere riconoscimenti e gradi militari. Aveva anche un cappello nero. Non fissava nessuno in particolare, ma ci guardava tutti con aria superiore. Una rapida contata al gruppo e poi, urlando qualche cosa in quella strana lingua, aveva convocato quelli che avevano l’aspetto di essere i suoi subordinati. Con grande veemenza questi erano saliti sul vagone e ci avevano spinti fuori. Con le cattive. Qualcuno era caduto e s’era aperto una ferita, qualcun altro era in evidente stato di shock. Ben presto il quadro della situazione mi fu chiaro: voltando la testa a destra e a sinistra vidi centinaia di anime come la mia, in riga. Si faticava a vedere la fine della fila. Loro erano tutti vestiti con la stessa divisa mentre noi, poveri schiavi, eravamo vestiti alla bell’e meglio. Da lì a poco saremmo stati come i soldati. No, non liberi – anche se in un certo senso anche loro erano schiavi. Ricordati di questo nome: Hans – intendo dire depersonalizzati, ridotti ad un numero, un’unica entità. Ci divisero in base al nostro sesso. Donne e bambine da una parte, bambini e uomini dall’altra. Ecco la vera disgrazia delle madri del campo: doversi separare dai loro figli di sesso maschile. Alcune di loro avevano provato ad opporre resistenza calciando e sbattendo i piedi a terra, ma non era valso a nulla. Una di loro era stata freddata sul colpo con un colpo di manganello: il cranio s’era aperto in un attimo e lei, senza emettere un fiato, era stramazzata a terra. Alla vista di tale crudeltà un uomo lì a fianco aveva rotto la fila e s’era scagliato contro il militare. Forse era suo marito o, forse, non sopportava un sopruso del genere. Forse aveva capito prima di tanti altri come sarebbero andate le cose, e allora tanto valeva fargliela pagare a quei vermi. Mi ricordo distintamente che s’era avvicinato di tanto così” – e nonno apriva il pollice e l’indice nell’aria, separandoli fino a raggiungere una distanza, probabilmente esagerata, di qualche centimetro – “alla pistola del soldato: la stessa pistola che lo aveva privato della libertà più bella che esista: quella di vivere. Quella scena fu come leggere il finale di un libro. La maggior parte di noi, in quel momento, aveva capito che la vita era finita, andata…svanita. Giorni dopo avevo conosciuto un bimbo del quale però fatico a ricordare il nome e il volto. Nei pochi momenti di libertà dai nostri genitori, mentre questi si riposavano, noi uscivamo e parlavamo. Ci raccontavamo delle storie. Poi, un giorno, era arrivata una guardia e lo aveva preso di forza. Avevo chiesto a mio padre dove lo avrebbero portato. Lui mi aveva detto che lo accompagnavano a farsi una doccia: fu una cosa terribile quando, anni dopo, scoprii cosa fossero quelle docce. Non rividi più il mio compagno di giochi. E come lui non rividi più tanta gente. Con il passare del tempo gli alloggi divenivano sempre meno affollati e sapevo che, prima o poi, anche noi saremo andati a farci una doccia o qualcosa del genere. Di notte, quando il vento soffiava e riusciva a penetrare, prepotente, tra le fessure del posto dove riposavamo e che provo vergogna a chiamare alloggio, la porta sbatteva. Allora io mi tiravo su di colpo dal mio letto, con il cuore in gola per la paura, perché pensavo che le guardie fossero venute a prenderci per farla finita. Mio padre aveva appena la forza di alzare la testa: era stremato. Faticavo a riprendere sonno. Ricordo persino che un giorno avevo sentito delle guardie litigare tra loro: difficile capire quello che si stavano dicendo. Mi ero appostato dietro un muro e, tremando, avevo iniziato a guardare la scena. C’era anche Hans. Giorni dopo sarebbe stato trovato con una corda al collo, penzolante da una doccia. Forse non poteva sopportare tutto il dolore che erano riusciti a creare o, forse, Dio opera per vie misteriose ma non gioca a dadi. D’altronde, finita la guerra, tante guardie naziste decisero di farla finita.” Avrei voluto chiedere di più a nonno, ma lo vidi abbastanza provato. Aveva appoggiato la schiena alla poltrona e socchiuso gli occhi, alzando la testa in direzione del soffitto. “Perché nonno? Perché tutto questo?” “Non lo so. A volte le persone si comportano in modo stupido. Altre volte credo che se è esistito Auschwitz, allora non può esserci un Dio” |
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Ultima modifica: 24/01/2012 13:01 Da Tavajigen.
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Francesco
LUCE Il bianco assoluto dei primi istanti veniva lacerato da qualche tinta di colore, davanti a se si stavano delineando delle sfumature grigio/verdi che contornandosi assomigliavano sempre più ad un riquadro, all'interno di esso una miriade di colori confusi ci misero di più a farsi capire, e l'immagine di sua moglie insieme ad un gruppo di perfetti sconosciuti arrivò solo dopo alcuni secondi. Cosa succede, dove sono? Marina cosa ci fa li davanti? Ed io cosa sto facendo? Non capisco. Lei aveva un'aria tesa, un sorriso forzato le increspò le labbra rendendo la situazione ancora peggiore. Guardando meglio capì che vedeva le persone attraverso un vetro e che quello era l'unico lato visibile. Le altre pareti, metalliche, erano strette intorno al suo corpo, soffocante! BUIO LUCE Il bianco ora si dissolse in un attimo e le forme si mostrarono subito. Sempre Marina davanti ma con degli altri vestiti. Ma come ha fatto in un attimo? E sempre tutta quella gente intorno ma non come un attimo fa, gente diversa. -Amore che sta succedendo, dove sono?- Ma non usciva parola dalla sua bocca, ne poteva ascoltare quelle che gli dicevano, la moglie provava a parlargli ma non sentiva niente, si agitava lei, sbracciava per fargli capire qualcosa che lui non aveva minimamente compreso. Questa nuova sensazione di claustrofobia non gli impedì di guardarsi attorno, questa volta in maniera accurata: vetro davanti e lastre metalliche sugli altri lati. La completa assenza di giunture e saldature gli fece capire di trovarsi dentro un unico blocco probabilmente di acciaio, e voleva dire una sola cosa: era dentro il modulo del biotrasporto. BUIO LUCE Ancora un altro abito per la moglie e sempre il disordinato capannello di persone intorno. Dove sono? Ah sì, il biotrasporto! E che ci faccio? Marina appena incrociò lo sguardo del marito mise in mostra un cartello, il suo stampatello era inconfondibile: SEI RIMASTO INTRAPPOLATO NEL BIOTRASPORTO, STANNO CERCANDO DI LIBERARTI. Eh? Come intrappolato, che cazzo significa? Fatemi uscireeee! BUIO LUCE Questa volta non fece neanche caso al bagliore, la sua mente lucida era già proiettata alla ricerca di risposte mentre schiarivano le immagini. Sono chiuso nel biotrasporto e non riescono a tirarmi fuori ma ci deve essere altro, vedo le cose a scatti, sembra un film con dei pezzi tagliati. Marina ha un altro cartello: IL TUO CORPO NON RIESCE A COMPLETARE LA MIGRAZIONE, UN AGENTE INQUINANTE STA INTERAGENDO CON LE TUE MOLECOLE. SEI INTEGRO E COSCIENTE PER MEZZO MINUTO A SETTIMANA POI TORNI IMMATERIALE. Mio Dio, mezzo minuto a settimana, ma com'è possibile? Marina.. Marina! Quindi ogni volta che vedo quel bagliore un realtà passa una settimana? BUIO Marina rimase li davanti ancora per qualche secondo stringendo il cartello con forza, piena di pena e di paure, mentre guardava il posto dove un attimo prima c'era Francesco, ritornava a quando il destino le aveva messo davanti questa penosa situazione. La sua vita era stata stravolta da una semplice chiamata di un operatore del biotrasporto; il marito era rimasto li dentro smaterializzato non si sa bene come. Il caso divenne subito di portata nazionale; il biotrasporto, modello rivoluzionario del collaudatissimo teletrasporto, ora aveva dato il primo grosso problema. C'erano stati degli inconvenienti anche col teletrasporto, merce mai più trovata, materializzata dentro un muro o a cento metri di altezza in caduta libera ma nessuna persona fu mai coinvolta e con una bella assicurazione si chiudevano presto le lamentele. Il biotrasporto invece poteva muovere anche forme di vita, di qualsiasi tipo, dal fiore fino al più complesso essere umano e gli eventuali errori avrebbero presentato un conto ben più salato. I soliti discorsi e tutte le chiacchiere che ne erano venute fuori neanche si erano avvicinate a Marina, troppo afflitta per poterle ascoltare, sapeva bene però che tutta questa attenzione avrebbe messo in allerta la ditta proprietaria del biotrasporto e ne era contenta, non perché tenessero a cuore le sorti del marito non era cosi sciocca, per loro si trattava di una ventata di popolarità da gestire al meglio, cioè con il recupero di quello che per loro era soltanto un cliente. In breve tempo un team di esperti aveva subito trovato la causa dell'anomalia, un agente inquinante non dava la possibilità alle sue molecole di ricostituirsi correttamente ed esse vagavano, tutte integre singolarmente ma non coese tra loro; e dopo neanche due settimane sempre lo stesso team annunciò che si poteva provare a materializzarlo, seguendo una nuova teoria ancora non sperimentata e quindi rischiosa ma, alla luce dei fatti, l'unica rimasta. L'idea era quella di provare a forzare la materializzazione, correndo però il rischio di disperderlo definitivamente, o almeno così avevano detto semplicemente a chi non poteva capirne di più. Erano anche molto cauti, non sapendo comunque ne se potesse funzionare, ne come potesse funzionare, l'unica cosa sicura era che il tentativo era una tantum: riprovarlo sarebbe stato come ucciderlo direttamente. E l'esperimento, seguito in diretta da decine di network, ebbe parzialmente successo: Francesco rimase integro per 32 secondi prima di tornare nell'oblio; durante questo breve tempo ogni tentativo di comunicazione era fallito. Studiando i dati a disposizione il team venne a capo di una nuova variante inattesa, dichiarò quindi che l'esperimento aveva innescato una sorta di reazione ciclica e che quindi sarebbe riapparso periodicamente ogni 168 ore, una settimana in pratica, nel frattempo avrebbero cercato di elaborare un'altra soluzione definitiva. Mezzo minuto era un tempo insufficiente per attivare tutti i sensi, la voce e l'udito, che avrebbero avuto bisogno di un paio di minuti anche nei normali viaggi per riattivarsi, non funzionavano, da qui le venne l'idea di comunicare per mezzo dei cartelli. Settimana dopo settimana l'equipe tecnica riempiva di belle possibilità i mezzi di comunicazione, parlando di probabile successo, lei ogni giorno sperava che la chiamassero per darle la buona notizia ed ogni giorno andava a dormire illusa; non succedeva più niente. Erano sposati da qualche anno ormai, talmente bella la loro unione che non avevano mai desiderato altro all'infuori dello stare insieme, ora sentire la possibilità di perdere la persona più bella che avesse mai conosciuto l'aveva fatta a pezzi e difficilmente riusciva a darsi un tono il giovedì, il giorno della “visita” con Francesco. Fu proprio un giovedì mattina che il responsabile del team si presentò direttamente a casa sua per informarla di una variazione, e non era un miglioramento. Avevano constatato una piccola discrepanza nei tempi, le spiegarono cosa significasse. Mentre ascoltava in silenzio la terribile novità piangeva, pallida come non mai iniziava a scrivere un cartello per l'imminente contatto con Francesco, con il pennarello che sembrava di pietra talmente era difficile scrivere questa volta. LUCE Francesco mise subito a fuoco l'immagine di un altro messaggio e lo lesse: LE TUE MATERIALIZZAZIONI NON SONO A PERIODICITA' FISSA, I VALORI TEMPORALI SEGUONO L'ANDAMENTO DI UN IPERBOLE L'orrore si fece largo, da matematico sapeva benissimo cosa significasse quella frase. La prima volta una settimana di intervallo, poi appena di più, inizialmente l'aumento sarebbe stato impercettibile ma avrebbe presto subito un aumento vertiginoso, tra una materializzazione e l'altra alla fine sarebbero passati dei mesi ed in un solo colpo molti anni, fino a che un giorno questa disumana situazione gli avrebbe improvvisamente messo difronte una vecchia, con mezzo minuto per ammirarla un'ultima volta e per leggere: ADDIO AMORE BUIO |
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Ultima modifica: 23/01/2012 00:34 Da Titivillus.
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La teoria binaria
È quando ti ritrovi sulla tazza del cesso che capisci. Tra le mani della carne in scatola e una forchetta, ai piedi, invece, il portatile con una puntata di Futurama. Capisci che qualcosa, nella tua vita, non quadra. È una questione di tempi, sempre troppo stretti, che ti costringono ad ottimizzare tutto. Compresa quella porcheria che mangi; compresa la tua voglia di visionare tutte le puntate della serie in tempi brevi dato che hai deciso che quella è la tua nuova, prioritaria passione. Il tutto nell'unico momento morto che t'è rimasto. Perché limitarsi solo ad evacuare buttando così nell'inutile spazio un pezzetto importante di quell'esistenza? Ci stavo riflettendo perdendomi, tra l'altro, tutta la trama dell'episodio 72, "Musica dal profondo". "Come cazzo c'ero finito qui?" finii per pensare... Sette anni prima Che bella la festa di laurea. Me l'ero goduta fino all'ultimo secondo consapevole che di lì a poco avrei intrapreso una strada interessante quanto ardua che mi avrebbe costretto al confine, quasi come un esiliato, in una terra lontana a far si che i miei studi economici divenissero ancor più specializzati e, quindi, ricercabili dal mercato del lavoro. Mi aspettava l'America laddove l'Università di Stanford avrebbe accolto l'ennesimo cervello in erba pronto a mettersi sui quei banchi ad imparare, il più possibile, nel più breve tempo possibile. Un MBA di due anni. Cinque anni prima Anche l'MBA era passato e stavo di nuovo festeggiando, in patria, con parenti ed amici. Era stato travolgente come una cascata, appena il tempo di un battito di ciglia a ripensarci. Non avevo visto nulla. Meglio; mi avevano fatto girare e anche parecchio i vari colleghi conosciuti ma oggi ne ricordavo a malapena i nomi e i lineamenti cancellandone dalla memoria i contorni e i luoghi che li accompagnavano. D'altronde, ciò che mi accompagnava sempre, era la loro foto, raramente aggiornata, sui vari instant messenger. Lì c'eravamo scambiati i contatti. E lì e lì soltanto, finivamo per fare qualche chiacchiera virtuale perlopiù aggiornandoci sul nostro status sociale e lavorativo del momento. Un minuto dopo Lo sciacquone fece l'unico compito per il quale era stato creato. Eliminare le tracce. Ma lui non lo sapeva che ogni volta che si scaricava ne faceva anche un altro di lavoro. Mi resettava il cervello facendomi ripartire. Meglio di qualunque caffè mai assaggiato prima. Il Blackberry pareva impazzito. In quel misero quarto d'ora m'aveva bombardato con una cinquantina di nuovi messaggi e-mail. Quasi tutti di congratulazioni. Infatti, di lì a poco, avrei raggiunto il grado massimo di questa società. Era una compagnia con sede legale in USA ma con gli studi in India e altri più piccoli in altri paesi limitrofi alla grande penisola asiatica. In USA venivano progettate le idee, nel resto del mondo venivano 'disegnate' e fatte 'concrete'. Era una compagnia giovane che creava nuovi cartoni animati, nuovi personaggi oltre a collaborare con altre più importanti case di produzione per lavori 'secondari' al fine di rendere i loro capolavori tanto belli quanto più economici possibili. Il tutto affinché rendessero al massimo sotto tutti gli aspetti. Compreso quelle economico. Certo che, a trentuno anni, la prospettiva di guadagnare già 450,000 US dollars all'anno, non è affatto male. Anzi, credo manderebbe in pappa il cervello di tanti altri coetanei non abituati a cotanta manna piovuta dal cielo. Ma la differenza tra me e quasi tutti loro era questa. Io non avevo tempo. Per arrivare a ciò avevo dedicato ogni sacrosanto istante della mia vita al lavoro come se io fossi la macchina che teneva in vita il corpo moribondo che, senza di me, sarebbe morto. Non mi restavano che le pause al cesso per ritornare umano. E tutto solo perché nessun'altra multinazionale aveva ancora inventato un sistema diverso per espellere gli scarti. D'altronde, fare delle videoconference (ma anche solo delle conference call), durante quel momento, non era propriamente facile anche se m'era capitato, non lo nego. Avrei potuto leggere e rispondere alle mails del Blackberry ma ero ancora riuscito a mantenere la dignità di tenere quello strumento diabolico al di fuori delle mura del bagno. Quello era il mio momento e il mio momento soltanto. Cinquantacinque anni dopo Sono cinquantacinque anni ormai che elaboro questa teoria. Proprio io, che m'ero sempre sentito la macchina che teneva in vita il 'corpo globale' ora, invece, ero attaccato al macchinario della multinazionale della quale ero amministratore delegato (e con la quale guadagnavo 151,000,000 Global dollars) che respirava per me. Senza quel polmone artificiale portatile sarei morto. Uno spettacolo pesante poco meno di 400 grammi. Avevo dedicato tutte le restanti pause cesso dopo quella folgorazione a questa teoria. Nessuno me lo aveva imposto. Era il mio talento e tale doveva essere. L'ho chiamata, infine, “La teoria binaria”. Ho cercato di sintetizzare quanto più possibile la mia esperienza di vita. Secondo la mia teoria, nel mondo, esistono i numeri 1 e i numeri 0. Esistono anche delle figure 'ambigue' che sono le ,(virgole) e i .(puntini). I nostri ruoli non sono sempre gli stessi ma cambiano da contesto a contesto. Era inevitabile, ad esempio, che io ero un numero 1 sotto il mero aspetto lavorativo. Organizzavo il lavoro alla grande, coordinando tutta la schiera di 0, di ,(virgole) e di .(puntini) facendo si che il numero binario che si creava diventasse sempre più importante. Io prendevo una società cosi strutturata 1,00000,000.010,0,00,0.000010000010 e la facevo diventare così ad esempio. 10,000,000,000.000000000000000000000000000 Non solo, ero bravissimo anche a scovare i numeri 1 all'interno dei vari reparti e creavo un'organizzazione a piramide perfetta di questo tipo Società globale: 10,000,000,000.00000000 Ufficio amministrativo: 1,000,000.000 (e quell'uno non ero io. Quell'uno non era altro che uno zero nel globale che diventava l'1 nel suo spazio). Ufficio commerciale: ecc... e via discorrendo fino all'organizzazione più piccola che, di solito, era la 'portineria'. Il portinaio era il numero 1, gli strumenti che usava erano le virgole mentre gli ospiti, di qualunque tipo, altro non erano che i numeri 0. Ed era per questo che il portinaio era sempre motivato. Lui, nella sua area, era il numero 1. E lo era anche con me. Mi doveva controllare per accertarsi che fossi davvero io e non chiunque altro. All'inizio non ci credeva e mi diceva 'passi pure'. Quando gli feci un richiamo scritto chiedendo esplicitamente d'essere controllato esattamente come tutti gli altri potenziali ospiti e dipendenti capì quanto grande era il suo lavoro. E mi controllò sempre, con un sorriso fiero e la fermezza di un agente dei servizi segreti. Ma la vera differenza io la facevo con gli ambigui. Mettere le virgole al punto giusto era importante perché erano quelle persone (o quel gruppo di persone o quelle tecnologie) che coordinavano le varie gerarchie facendo si che chi era più in basso rispettasse chi era più in alto mantenendo un ordine che era fondamentale affinché il numero binario non si trasformasse in caos di questo tipo 1,00000,000.010,0,00,0.000010. Ma erano i puntini che rendevano perfetto il quadro. Anche perché in ogni macrostruttura, come era 'preferibile' un solo numero 1 (ma non obbligatorio, perché il numero funzionava uguale anche se non al massimo dell'efficienza) era invece obbligatorio un solo puntino. Il puntino aveva la forza, la capacità, il carisma e la leadership affinché gli 0 di poco conto evitassero di generare il caos. Era il collante sociale, la linea di confine, il segno che distingueva i ricchi dai poveri se tentiamo di applicare la teoria binaria al mondo. La bellezza della teoria binaria è proprio questa: la si può applicare al proprio nucleo famigliare, all'interno di un qualsiasi gruppo di essere umani, di una società di capitali, di una classe scolastica, di un partito politico, di un aereo in volo e via discorrendo. C'è sempre almeno un numero 1. Ci sono sempre dei numeri 0. Talvolta ci sono delle virgole e raramente ci sono i puntini. La differenza tra un uomo realizzato e uno non realizzato è la capacità di trovarsi il ruolo adatto in ogni situazione corrente. Fare il numero 1 replicante all'interno di una struttura che ne prevede già un altro, vuol dire irrimediabilmente cercare uno scontro dove, alla fine, solo un numero 1 resta accorciando la 'catena' ma, chissà se, perché destinato ad allungarla ancora. Così come, dare a uno 0, un ruolo inadeguato può inevitabilmente portare al collasso del numero binario o, peggio ancora, ad una scissione, non prevedibile che porta sicuramente solo una temporanea inefficienza. Come in tutte le teorie, anche in questa, c'è un difetto. L'uomo, tendenzialmente, fatica a considerare se stesso uno 0. Gli rode, è infastidito, si sente superfluo. Ma è da stolti. Non capisce che proprio laddove sa fare bene lo 0 che permette al mondo di funzionare. Fare dei bravi 0 è veramente difficile. Lo so e lo dico con cognizione di causa. Perché io, da sempre, son stato il numero 1 nell'ambito lavorativo. Ma solo perché in tutti gli altri contesti m'impegnavo a fare il bravo 0. Ero riuscito ad assopire la mia brama di potere concentrandola solo sul lavoro. Questo era il mondo per me. Un mondo talmente lontano dai miei sogni che solo una teoria binaria poteva giustificarla. Solo una teoria basata su un linguaggio che è, fondamentalmente, il linguaggio della robotica, il linguaggio dell'informatica, il linguaggio della perfezione. Perfezione che non è umana e che non sarà mai umana. Provate a pensare alla vostra famiglia, alla vostra squadra sportiva, alla vostra classe, al vostro gruppo lavorativo, al gruppo occasionale per le vacanze estive. Poi, dite a voi stessi: 'chi è il numero 1? chi lo 0? ci sono puntini e virgole?'. Solo rispondendo a queste domande potrete minimamente pensare di aumentare l'efficienza del numero binario che rappresenta quel gruppo d'essere umani che state immaginando. Disimparate a fare gli umani. Ragionate da 0 per trovare la soluzione efficiente. Potrebbe essere lo slogan di una dittatura fantascientifica. Cinquantacinque anni e un minuto dopo Il magnifico dispositivo di 400 grammi, dopo sette anni di onorato lavoro, aveva fatto cilecca. S'era bloccato. Sentii bruscamente mancare il respiro, i polmoni appiccicati e l'asfissia assalirmi. 'Forse un conflitto tra numeri 1' feci solo in tempo a pensare. Giusto un istante per battere ancora le ciglia e chiudere gli occhi: ma stavolta, per sempre. |
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Buio umido.
Oscurità unta quasi appiccicosa. Pochi suoni ovattati: uno smussato brusio di sottofondo interrotto da irregolari ma costanti tonfi sulla volta invisibile. Di tanto in tanto un vecchio cavo elettrico tranciato scoppiettava sprizzando qualche scintilla giallastra che si rifletteva sul rigagnolo a metà galleria. Qua e là rare zone illuminate, un neon indeciso tra morire subito o soffrire un giorno in più, il debole cono di luce filtrante da un tombino mezzo otturato e poco più avanti una una pozza di liquame fosforescente. Alcuni funghi erano spuntati proprio lì in mezzo e in poco tempo si erano moltiplicati crescendo su una delle pareti fino a formare uno spugnoso altare avvolto da una invitante nebbiolina verde. Quello però era un luogo pericoloso: quando, ingolosito dalla loro morbidezza, ne aveva assaggiato uno era crollato esanime a ridosso della pozza e al suo risveglio, impossibile sapere quanto tempo dopo, alcune spore avevano attecchito sul suo avambraccio. Ancora adesso gli davano un gran prurito. Per fortuna il cibo non era mai un problema laggiù perché quantità e qualità erano assicurate da innumerevoli fattori ambientali. Inoltre a lui bastava poco per mantenersi in forma. Con quella passeggiata aveva già assaggiato diverse prelibatezze: una gomma da masticare usata (al lampone), la crosta di una pizza bagnata di birra e due cubetti di ghiaccio chiusi in un bicchiere di plastica che sapevano ancora di buono. Sapori avanzati, gusti di seconda mano. Era abbastanza. Quando giunse al crocevia abbandonato un profumo inebriante gli fece venire l'acquolina in bocca. Seduto su uno dei binari annusò l'aria in tutte le direzioni, ma era difficile capirne la provenienza così approfittò del tempo impiegato a prendere una decisione per grattarsi via le croste di sporco sulla testa pelata, e con le spesse unghie che si ritrovava non fu un compito facile. Non ebbe più dubbi. S'incamminò lungo la galleria in salita e in breve individuò il succulento cadavere di un piccione disteso su un letto di filtri di sigarette. Il ratto che aveva trascinato laggiù i resti del volatile, spaventato dal suo arrivo, si era infilato in una buca poco distante e per un attimo lo fissò con disappunto. Che pacchia. Impacciato dall'emozione sollevò delicatamente il piccione tenendolo per le ali, le aprì più che poté e soffiò forte per dar loro una ripulita da tutta quella cenere speziata infilata tra le piume. La detestava, era quasi allergico. Era il momento. Un po' di saliva gli colò sul mento. Spalancò la bocca e... Un inaspettato verso animale lo fece sussultare. Perse la presa sul corpicino che cadde sporcandosi di nuovo. Gli sfuggì un grugnito contrariato. Un altro barbone? Proprio adesso? Il ratto approfittò dell'esitazione e come un fulmine si precipitò sul pennuto addentandolo a tradimento. Fuggì via però solo con un paio di penne in bocca. Il suono si ripeté meglio definito. Un gemito. Inaccettabile. Quello era il suo territorio! Indispettito dall'invasione decise di avvicinarsi, con cautela, perché se qualcuno aveva avuto il coraggio di scendere così in basso nelle vecchie gallerie poteva essere molto pericoloso. Per fortuna nessuno conosceva quel luogo meglio di lui e una vita trascorsa laggiù gli aveva insegnato a spostarsi silenzioso come un fantasma. Nessuno lo avrebbe sentito arrivare. Un centinaio di passi dopo li vide. Due uomini stavano grugnendo come ossessi, sagome scure accanto a una pila di libri incendiati per rischiarare l'ambiente. Si fermò nel cono d'ombra tra due pilastri di cemento dove gli intrusi non potevano individuarlo. Udì di nuovo quello strano verso acuto e attutito. Sentì uno schiaffo, poi un altro. Era difficile vedere bene con tutta quella luce perciò impiegò parecchio prima di individuare la terza persona, una donna, immobilizzata sotto uno dei bruti. Sapeva bene cosa stava accadendo: nei sotterranei non era certo la prima volta. Non erano fatti suoi. Arretrò di un passo sprofondando ancora di più nell'oscurità, ma per un istante i suoi occhi di fuoco incontrarono quelli di lei, disperati. Disperati al punto di invocare l'aiuto di un reietto come lui, uno dei dimenticati, uno degli indesiderati. Chiuse le palpebre e tornò a essere tutt'uno col vuoto. Espirò forte delle narici. Uno scatto, tre falcate. Con un manrovescio investì l'uomo dai pantaloni calati scaraventandolo lontano e prima che l'altro potesse gridare di terrore gli prese la testa tra le mani callose facendole fare un intero giro sul collo. Con un solo schiocco osseo il secondo aggressore si afflosciò come un pupazzo. Sei tremendi scoppi rimbombarono nella galleria, due proiettili rimbalzarono sul cemento mentre gli altri andarono tutti a segno su un bersaglio troppo grande per essere mancato. Un calore mai provato prima gli esplose nella schiena e gli cedettero le ginocchia. Cadde. E... E ruggì di rabbia come non aveva più fatto da tempo immemorabile. Fu questione di un attimo. Il dolore scomparve, scattò in piedi e piombò addosso al primo uomo che in preda al panico stava ancora premendo il grilletto a vuoto. Il pugno che gli sfondò il torace fu sufficiente. La donna giaceva su un fianco accanto all'altro cadavere, troppo sconvolta per far altro che fissare la sagoma primitiva eretta al limitare delle tenebre. Con un dito ricoperto di muschio il troll le indicò l'uscita e poi arretrò, scomparendo nel buio senza neppure un fruscio. Forse quel dannato ratto non aveva ancora mangiato tutto il piccione. Disumano - Il troll |
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Ultima modifica: 30/01/2012 21:51 Da Titivillus.
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“Aspetta un attimo, figliolo. Davvero vuoi continuare a scrivere questa storia?” Il ragazzo spense la penna laser che stava usando e la appoggiò sul foglio di carta che aveva di fronte. “Certo padre, tutti devono sapere. Tutti devono conoscere la vita dell’uomo che ha permesso all’umanità di riscoprire la magia di ricamare i pensieri con la scrittura a mano, dopo essere stati schiavi della tecnologia per centinaia di anni.” Il vecchio uomo fissò per qualche secondo suo figlio, poi si lasciò scappare un sorriso e gli disse: “Ma quanto ero sciocco a quel tempo? Non conoscevo neanche il significato di disumano…va bene ragazzo, però se davvero vuoi scrivere la mia biografia, e vuoi farlo a mano, allora per favore, continua con questa.” Con grande abilità, Eddie Holmes afferrò con l’incavo del pollice la penna stilografica d’oro che teneva nel taschino della giacca e la porse a suo figlio. “Adoro il grattare del suo pennino sulla carta.” ----- Fine ----- Nota dell'autore: scusatemi, ma il racconto avrebbe assunto il suo senso solo scritto in questo modo. Per esigenza di regolamento lo posto qui di seguito anche tutto in versione digitale, così che possiate contare i caratteri (a me risultano essere 4605) e così che possiate rileggerlo se la mia scrittura vi fosse risultata incomprensibile o comunque di difficile lettura. LA MERAVIGLIOSA STORIA DI EDDIE HOLMES Capitolo 1: Infanzia Eddie Holmes nacque a New Chicago il 23 febbraio 2705. Suo padre era morto durante la nuclearizzazione della città, follia finale di quella guerra che aveva provocato milioni di morti in tutto il mondo. Il gelido inverno di quell’anno aveva portato in dote una tormenta di neve mista a fallout radioattivo; la bomba aveva fatto un bel regalo anche a Eddie: sua madre era stata investita dalle radiazioni durante la gravidanza e Eddie era nato focomelico. Le sue mani non avevano dita, un residuo di pollice opponibile era l’unica cosa che dava una parvenza di mano ai due monconi che si ritrovava in fondo alle braccia; dall’altra parte poco da dire: una carrozzina gli avrebbe fatto da gambe per tutta la vita. Eddie però aveva sua madre e i primi anni di vita furono una gioia, lei gli faceva vivere la felicità che ogni bambino desiderava…felicità che si incrinò uno dei primi giorni di scuola, quando Eddie, subito dopo pranzo, disse a sua madre: “Mamma, cosa vuol dire disum-mano?” La madre stava finendo di lavare i piatti; chiuse il rubinetto, si asciugò le mani e frugò nel primo cassetto della dispensa. Quindi tirò fuori il suo portagioie, lo aprì ed estrasse due pasticche, le due maledette pasticche che avrebbe dovuto prendere ogni giorno della sua vita, finché il suo fisico avesse retto. Le inghiottì velocemente, poi si sedette accanto al figlio. “Eddie caro, dove hai sentito questa parola?” “Roland Dean me lo dice sempre a scuola, mi dice che sono disum-mano, e tutti gli altri bambini ridono con lui.” La donna vide scurirsi il volto di suo figlio e, come sempre aveva fatto, cedette al desiderio di proteggerlo: “Si dice disumano Eddie, con una m sola, e non vuol dire niente di importante, significa che sei un bambino speciale e che hai una vita meravigliosa davanti a te.” Poi lo abbracciò forte, trattenendo le lacrime. La madre di Eddie morì il mese seguente, vinta dal male delle radiazioni; il ragazzo fu assegnato ad un orfanotrofio. Capitolo 2: Disu-mano Con il passare degli anni Eddie cresceva e si rendeva conto sempre di più che la sua vita sarebbe stata tutt’altro che meravigliosa. Restava continuamente indietro rispetto ai compagni di scuola e capì ben presto che il suo handicap era il fattore determinante: non riusciva a digitare bene le lettere nei suoi quaderni touchscreen, non riusciva neanche a compiere azioni semplici come girare le pagine dei suoi libri multimediali. Dopo cena, nella solitudine della sua stanza all’orfanotrofio, pensava spesso a sua madre, rievocando tra le lacrime il ricordo della bellissima vita che passavano insieme. “Sono speciale!” Si ritrovò a gridare tra sé una sera. “Avrò una vita meravigliosa…e…e non sono disu-mano!” Chiedendosi di nuovo dopo molti anni cosa significasse quella strana parola, si guardò la mano destra. Sì, pensò, in effetti quella mano era decisamente disu, qualsiasi cosa significasse. Del resto non era normale, era la mano di uno storpio. Spostò lo sguardo sulla scrivania, nel punto in cui era collocato il vecchio portagioie di sua madre, il suo ricordo più caro. Si avvicinò e, dopo cinque minuti di tentativi, riuscì ad aprirlo. Vide la scatola di medicine, alcuni oggetti da trucco, una foto di loro due insieme, un’altra del padre che non aveva mai conosciuto…poi la sua attenzione fu attratta dal rossetto rosa che tanto adorava sua madre. Lo impugnò nell’incavo del pollice della mano destra e lo stappò con l’incavo della sinistra. Era una sensazione strana tenerlo in mano, sembrava quasi un’arma, se lo sentiva calzare perfettamente. Si avvicinò alla finestra e gli venne in mente un’idea: cominciò ad usare il rossetto sul vetro, cominciò a…scrivere. “Aspetta un attimo, figliolo. Davvero vuoi continuare a scrivere questa storia?” Il ragazzo spense la penna laser che stava usando e la appoggiò sul foglio di carta che aveva di fronte. “Certo padre, tutti devono sapere. Tutti devono conoscere la vita dell’uomo che ha permesso all’umanità di riscoprire la magia di ricamare i pensieri con la scrittura a mano, dopo essere stati schiavi della tecnologia per centinaia di anni.” Il vecchio uomo fissò per qualche secondo suo figlio, poi si lasciò scappare un sorriso e gli disse: “Ma quanto ero sciocco a quel tempo? Non conoscevo neanche il significato di disumano…va bene ragazzo, però se davvero vuoi scrivere la mia biografia, e vuoi farlo a mano, allora per favore, continua con questa.” Con grande abilità, Eddie Holmes afferrò con l’incavo del pollice la penna stilografica d’oro che teneva nel taschino della giacca e la porse a suo figlio. “Adoro il grattare del suo pennino sulla carta.” |
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Ultima modifica: 31/01/2012 11:08 Da Titivillus.
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Una splendida giornata
Quella mattinata invernale era tersa e pungente. Il vento della sera prima aveva spazzato tutte le nubi, concedendo all’azzurro del cielo di farsi largo e prevalere sulle grigie forme tonde e irregolari che la settimana precedente gli avevano prepotentemente tolto il proscenio. Ora era lui l’assoluto padrone del palco, e la sua felicità si percepiva chiaramente dal magnifico e abbagliante manto blu ceruleo che stendeva infinito sopra le piccole teste di migliaia di persone, infinitesime formiche operose intente ad affannarsi, chi più chi meno, alle prime luci del nuovo giorno. Il prolungato, insistente e usuale suono emesso da un’upupa lo svegliò a mattinata inoltrata. Gli riportava alla mente un suono familiare che non riusciva a catalogare, ma che risaliva di certo alla sua infanzia: gli sembrava il rumore di un apparecchio che non riusciva proprio a ricordare, come se lo avesse sempre davanti agli occhi sfocato, senza la possibilità di distinguerlo chiaramente tramite lenti appropriate. Aprì gli occhi e la luce che inondava la stanza lo costrinse a serrare le palpebre e farsi schermo con il palmo delle mani. Rimase così per alcuni minuti. Quando si abituò alla luce scostò le coperte e si alzò in piedi, stiracchiando le esili e nervose membra. Diede un’occhiata fuori della finestra e non potè trattenere un suono emesso a labbra serrate a sottolineare il trionfo di colori che emergeva dal parco sotto casa sua. I colori autunnali, inusuali per quella stagione, permanevano nonostante l’inverno inoltrato, a cagione di una temperatura mai eccessivamente rigida che consentiva molte vite extra e infiniti altri bonus alle specie vegetali e animali che affollavano il grande giardino antistante casa sua. La giornata prometteva bene e il piacere dell’attesa cominciò da subito a pervadergli il corpo. Quella tipica sensazione di tiepida impazienza che lo incalzava, partendo dalle estremità dei suoi arti: un formicolio impercettibile sotto le dita dei piedi e sui polpastrelli. Fece capolino anche il solito triplice inconsulto tremolio del sopracciglio sinistro, percettibile e invadente spia di infantili disagi. Si vestì con la solita cura, scegliendo meticolosamente abbinamenti di colori e tessuti, non prima di aver però pensato alla toeletta giornaliera, radendosi con cura maniacale e sistematica, senza tralasciare alcun millimetro quadrato del suo viso. Dopo la rasatura l’immancabile dopobarba, lo stesso da anni, capace di risvegliare in lui odori e sensazioni della sua giovinezza. Infine il borotalco per dare sollievo alle parti più sollecitate dalle lame del rasoio. Poi il passaggio alle unghie, sempre corte ma perfette: linde, ordinate e lucenti. Uscì di casa con anda manierosa e a passi misurati raggiunse prima l’edicola all’angolo e poi, dopo aver costeggiato l’ampio parco coi suoi antichi abitanti dalle possenti braccia protese vanamente al cielo blu e sornione, si diresse verso la macelleria, da cui uscì dopo un po’ per sedersi nella sua panchina preferita, in un’accogliente e discreta penombra nei pressi di una sughera nodosa, bitorzoluta e imponente. Se la immaginava una vecchia bisbetica che rimbrottava tutti gli altri alberi del parco, più giovani e quindi poco rispettosi di quiete e silenzio, con le loro fronde fruscianti e sgargianti, a causa del prolungarsi di un autunno tutt’altro che arrendevole nei confronti di questo mite e tollerante inverno. Gli piaceva pensare che la sughera godesse della sua fugace compagnia dalla panchina, perchè silenzioso lettore di quotidiani, rispettoso della pubblica quiete e amante dei giochi di luce offertigli da quell’antica compagna silente e imperiosa. Rincasò senza fretta, col giornale perfettamente piegato sotto il braccio e il sacchetto della carne in accurata sospensione, per evitarne dondolii o, peggio, sbatacchiamenti inutili e pericolosi. Si mise ai fornelli solo dopo aver debitamente posato soprabito e cappotto, e solo in seguito all’aver indossato le morbide pantofole dall’inconfondibile profumo di cuoio lavorato. Affettò con precisione uno scalogno e fece un soffritto dal profumo delizioso. Poi vi cucinò il filetto, che lasciò ben al sangue. Si apprestò a mangiarlo dopo aver stappato una bottiglia di rosso d’annata. Adorava il gusto di quella morbida e succosa carne che gli accarezzava il palato. Mangiare era un rito, tanto più meraviglioso e affascinante quanto il piacere di poterlo ripetere ogni giorno, seguendo istinti viscerali a volte molto difficili da soddisfare. Fuori intanto la frizzante luce del mattino lasciava spazio ad una luminosità ovattata, più discreta, tipica del meriggio più avanzato, che smorzando accenti e gradazioni cromatiche, pur sfoggiando un insieme di tonalità cangianti splendide e variopinte, quasi a cercare una disperata resistenza contro il solenne incedere del buio, declina inesorabilmente, fino ad arrendersi al cupo crepuscolo, ingordo divoratore dei colori e delle sue declinazioni. Lesse fino a quando la luce esterna glielo permise, dopodiché mise da parte il giornale e accese la radio sulla stazione "classika", che diffuse nell’aria una serie di note solenni, che conferivano all’aspetto di quella stanza e di quella casa un che di sinistro ma allo stesso tempo intrigante. Si trattava di una composizione sacra di Bach. Sublime. Alzò il volume e si preparò alla successiva fase della sua giornata. Scese le scale e infilò i guanti. Entrò in una stanza al semi interrato, lungo il perimetro tante finestrelle che permettevano alla luce di entrare. Temperatura pressochè costante durante tutto l'anno viste le pareti spessissime in pietra. Prese da un mobiletto un tronchesino, le forbicine e una lima. Lavorò a lungo, per quasi due ore, con la musica in sottofondo a scandire i suoi gesti, e il tic al sopracciglio più invadente, quasi a marcare le note e il piacere che provava nel prendersi cura delle sue piccole piantine. Possedeva quattordici bonsai e li curava come cuccioli indifesi. Vivevano con lui da decenni ormai, e ogni anno erano più rigogliosi e riconoscenti al padrone che si prendeva amorevole cura di loro. Lo rilassava del resto, era un suo hobby a cui non avrebbe potuto rinunciare. Lo distendeva moltissimo ed era fondamentale per il suo equilibrio nervoso. Ogni volta che vi si dedicava si tranquillizzava, gli sembrava di oltrepassare una soglia invisibile oltre la quale poteva raggiungere una sobria pacatezza, quasi un'estasi dei sensi che gli donava una sensazione di benefica potenza. Il prurito alle estremità degli arti era più silente dopo le due ore di training sui suoi adorati bonsai, ma tuttavia permaneva e lo poteva cogliere chiaramente, isolandolo dal resto del corpo. Era una sensazione stupenda. Il piacere che deriva dall'attesa del piacere. Senza fretta scese ancora un piano e si accostò a una porta chiusa da un pesante chiavistello. Origliò in trepidante attesa. Sghignazzò un poco e aprì la serratura. Entrò in punta di piedi senza accendere la luce. Allargò lievemente le braccia e sentì i polpastrelli delle mani a contatto con leggerissimi veli. Arrivò ad un'altra porta, simile alla prima. Era chiusa. Tic del sopracciglio. Girò la chiave piano, con enorme cautela. Tic del sopracciglio. Richiuse dietro di sè la porta e vi si appoggiò quasi sopraffatto dall'emozione. Trattenne il respiro e rimase in attesa di suoni... un flebile gocciolio, ancora. Tic del sopracciglio. Forse un fruscio. Aveva una resistenza incredibile. E il profumo della pelle e del sangue. Stupendo. Accese l'interruttore e fece luce. Si avvicinò al centro della sala dove il raggio dei neon concentrava la più luminosa fascia di luce. Se aveva resistenza. Mancava però ormai poco. Però non avrebbe detto che aveva tutto quel sangue in corpo. Le accarezzò furtivo una guancia. Sembrava svenuta ma dall'irregolare movimento delle iridi sotto le palpebre poteva cogliere un refolo di vita. Tic del sopracciglio. Afferrò il bisturi e praticò chirurgici piccoli tagli sull'addome. Ormai gambe e braccia ne avevano a sufficienza. Ma non ancora per togliere tutto il sangue che aveva in corpo. I secchi alla base della fredda struttura metallica su cui giaceva legata orizzontalmente la ragazza erano quasi di nuovo pieni. Incredibile. Ma sapeva che era alla fine. Stanotte ce l'avrebbe fatta. Era ormai prossimo alla meta. Con questi ultimi tagli avrebbe dato la definitiva via di fuga a tutti i liquidi vitali della sua Sofie. Finalmente. Dopo le incisioni ripose il bisturi e rimase in attesa sopra al corpo nudo, estatica visione che gli infondeva un piacere profondo. Tic del sopracciglio. Piccolissime gocce di sangue distillarono, prima timorose poi sempre più decise e marcate. Scesero lungo i fianchi e si incanalarono mansuete nei vari secchi predisposti sotto per la raccolta. Gocciolio, gocciolio, odore di sangue e pelle, tic del sopracciglio, gocciolio... Sarebbe tornato in nottata a riservare a Sofie il definitivo trattamento di bellezza che l'avrebbe resa sua eternamente e che lo avrebbe fatto sentire felice di renderla immortale e serena, affidata alle sue esperte e amorevoli cure. Spense i neon e richiuse la stanza. Si ritrovò nella stanza buia da cui era entrato una volta scese le scale. Non potè trattenersi dallo sghignazzare. Tic del sopracciglio. "Dove siete?" bibigliò. "Dove pensate di nascondervi eh...?". Accese una abat jour su una piccola mensa ed esclamò: "Ecco dove siete, vi ho trovato tutte piccole mie!". E ridendo si avvicinò alla parete di destra e col dorso della mano accarezzò i radi capelli di Sylvie, tic del sopracciglio. Poi indugiò sulle diafane e fredde labbra di Stephanie, tic del sopracciglio. Infine si inginocchiò ai piedi di Sue e allungò le mani sui suoi seni irrigiditi e gelidi. Tic del sopracciglio. Per ultima raggiunse Susan e le si fermò a lato in piedi, col cavallo dei pantaloni pericolosamente vicino al profilo inane e ceruleo di lei. Tic del sopracciglio. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Konradin
Apro gli occhi. Dove sono? Nella camera di un albergo direi. Non ne sono sicuro. C'è mio padre accanto a me. Sì, siamo seduti sul letto di una stanza d'albergo. Ma è un albergo? Non ho ricordo di questo posto. Entrambi siamo vestiti a festa: abito scuro e scarpe nere. Mio padre ha la cravatta. Io? Sì, anch'io. Non ricordo come siamo arrivati qua. Mio padre mi sta parlando. E' molto serio in volto. Da quanto tempo sarà, che mi sta parlando? Lo interrompo: «Come scusa?» gli chiedo. «Lo aspettiamo qui» mi risponde. «Aspettiamo chi?» «Konradin» mi dice. Al risuonare di quel nome mi s’illumina il volto. Reminiscenze assopite mi pervadono inebriandomi di coscienza. Come tante scintille che lampeggiano nel buio. Konradin: l'amico d'infanzia di mio padre. E' tedesco, un tipo colto. Un medico. Non l'ho mai conosciuto di persona ma mio padre un tempo ne parlava spesso. E ora eccoci qui, a cavalcioni su un letto, che lo aspettiamo. «Perché lo aspettiamo, papà?» «Come ‘perché’?» dice con aria perplessa «lo stiamo aspettando da sempre» Non capisco che cosa intenda. Ma non insisto. Meglio non insistere: se ho aspettato così tanto che non mi ricordo neppure io come sono arrivato in questa stanza, significa che posso anche permettermi di credere a mio padre. Lo aspettiamo dunque. Spero che faccia presto. Do un'occhiata fugace a mio padre mentre si sistema i polsini della camicia: mi pare più giovane di molti anni. Oserei dire che abbiamo la stessa età! Si volta verso di me e annuisce lievemente. Che mi abbia sentito? Ma come diavolo sono arrivato in questa stanza? «Tu la sai la differenza fra la paura e la codardia?» mi chiede con naturalezza. «Penso di sì, papà» rispondo. «Parla dunque: ti ascolto» «La paura è un sentimento umano. La codardia no. Tutti gli uomini hanno paura, ma non tutti sono dei vigliacchi. Per la verità, mi piace credere che la paura escluda la codardia. Chi prova paura e riconosce una propria debolezza è invero un individuo coraggioso, non codardo. Il codardo fugge di fronte alla paura» «Non mi hai convinto davvero: tu mi dici dunque che la paura esclude la codardia… eppure insisti sul fatto che il codardo fugge la paura… perciò esistono anche dei paurosi codardi. Eppure sostieni anche che tutti gli uomini hanno paura. Quindi sono anche tutti codardi? O non esistono i codardi?» «Io credo che sia la paura della paura stessa a far nascere la codardia. Di conseguenza, paradossalmente, il codardo non arriva mai ad avere paura poiché, fuggendola, evita di conoscerla. Il codardo si ferma appena prima della paura» «Ho capito che intendi dire adesso… è una domanda scomoda, lo riconosco. Eppure non hai risposto in effetti: mi hai parlato dell’uomo più che dei concetti medesimi» «E’ vero. Ma come faccio a non parlare dell’uomo?» gli sorrido «Credo che nessuna risposta ti possa andare bene finché sarà qualcun altro a suggerirtela» «Può darsi questo» risponde ridacchiando «O forse, molto più semplicemente, io già conosco la risposta» «E che cosa pensi tu? Dove sbaglio?» «Non tutti gli uomini hanno paura» Non sono d’accordo, ma non ne faccio motivo di sfogo. Mi pare già tutto molto confuso. «Scotch o bourbon?» squilla una voce, con fare garbato. Mi giro di lentamente. Un cameriere con guanti bianchi, bianchissimi, mi si para davanti. E’ giovane. Avrà non più di trent’anni. Ma da dove è mai sbucato, tutto d’un tratto? «Scotch» dico con voce ferma, e aria incredula. «Due» fa eco mio padre. All’improvviso, un gran rumore fuori la porta. Un rumore trascinato, come se una lastra di granito stesse sfregando contro il pavimento. La maniglia che si muove piano. «Bourbon per me» dice Konradin. Non ci hanno presentato a dire il vero. Ma non può che essere lui. Konradin. E’ più alto e magro di come lo immaginavo; e vecchio. Forse perché ho in mente l’unica fotografia che avevamo di lui a casa. In effetti sarà dei tempi del liceo. Come se il tempo non dovesse passare. Che sciocco! Incredibile come un vecchio possa essere stato giovane un tempo. Mentre mio padre ci presenta non posso fare a meno di notare che il rumore assordante sentito poco prima era provocato da una specie di statua, grande come una persona, che Konradin aveva effettivamente trascinato lungo il corridoio per poi posarla a terra, sul tappeto in mezzo alla stanza. Sembrerebbe fatta di bronzo. Ha un colore strano, scuro, con riflessi verdastri. Come avrà fatto a trascinare quell’enormità fino a qui? «E così hai intenzione di andare fino in fondo?» chiede mio padre a Konradin. «Certamente. Mi pare inoltre la cosa più giusta da fare» risponde con voce gelida, quasi che la domanda lo avesse infastidito. O ne avesse messo in discussione qualcosa che a me ancora non è dato sapere. «Karl, ti presento mia moglie» mi dice Konradin, indicando la statua. Guardo meccanicamente verso il tappeto. La statua raffigura una giovane donna; l’immagine abbozzata che ne fa intendere solamente in parte i lineamenti. «Moglie? Non sapevo che Lei fosse sposato» rispondo, tentando di evadere la perlomeno poco ordinaria situazione. «Infatti Konradin è vedovo, da molti anni oramai» sentenzia mio padre con voce calma. «Questa è una menzogna, amico mio.» dice Konradin posando vigorosamente il bicchiere sul tavolo che dà verso la finestra. «E ve lo dimostrerò» Con misurata calma estrae dalla tasca interna dell’abito una fiala contenente un liquido color turchese. La ammira in controluce e ne toglie il tappo senza far rumore. Avanza verso la statua e ne riversa una piccola dose nell’unico pertugio situato sull’avanbraccio della figura femminile. Tutto avviene in un istante: il liquido si espande con eleganza attraverso degli invisibili solchi, simulando il percorso del sangue all’interno delle vene e delle arterie nel corpo umano. La statua, la donna, prende vita e, lentamente, si alza. Il liquido inizia a brillare di un colore fluorescente. Una luce al neon avvolge ora l’intera figura, bellissima nella sua straordinarietà. «Questo non è possibile» dico ad alta voce, la bocca aperta dallo stupore. «Ancora non hai visto nulla, Karl» mi dice Konradin. Volge il suo sguardo verso la creatura e l’apostrofa: «Parlami Clara» sussurra con voce calda. «So che puoi sentirmi» La donna rimane immobile, non sembra percepire le parole del marito. Mi guarda con occhi profondi. Non riesco a staccarle gli occhi dal viso. E’ come se mi stesse ipnotizzando. «Parlami Clara. Sono io. Konradin. Non mi riconosci?» La donna continua a guardarmi. Ha un’espressione malinconica. Sembra che mi stia chiedendo aiuto. Ai miei occhi appare come una creatura spaurita, ultraterrena. Una creatura senza tempo. Quasi che fosse solamente l’idea di ciò che era stata in un passato lontano. Sono davvero tanto lontano dalla verità? I vasi sanguigni della donna iniziano a perdere colore. La luce si affievolisce. «Il siero sta perdendo effetto, dottore» interviene il cameriere. Che sia poi un cameriere? Mio padre guarda Konradin con aria perplessa: «Non lo fare, Konradin. La perderai per sempre» gli dice gentilmente. «So bene quel che faccio. Lascia che agisca a modo mio» e si accinge a versare nuovamente il contenuto della fiala. «Non farlo Konradin» insiste mio padre; questa volta con tono più convincente. Cerca di trattenerlo per un braccio. «Non hai paura di perderla per sempre?» Il medico si divincola dalla presa e versa il siero fino a che non ne rimane che una sola goccia dentro la fiala. «Io non conosco la paura» dice sprezzante. La donna ricomincia a brillare di questa luce bluastra, una candela al neon. E poi lievita da terra, piano, fino a sfiorare il soffitto. Si sente un ronzio provenire dalla luce, un rumore che cresce sempre più. «Parlami Clara!» urla Konradin, per superare il frastuono che oramai emana quella luce. La creatura continua a guardare me, questa volta con dolcezza. Il viso è disteso e bellissimo. Di una bellezza che fa quasi paura. La luce è molto più intensa di prima e illumina di blu tutta la stanza. Io continuo a fissarla con gli occhi spalancati. Non posso fare altrimenti. Faccio un passo avanti per guardarla più da vicino e noto che i suoi occhi stanno brillando. Sta… sta piangendo! Dai suoi occhi sgorga una lacrima che, come cade a terra, inizia a risucchiare tutta la figura verso il suolo. Clara si sta letteralmente sciogliendo su se stessa. I lineamenti del corpo iniziano a perdere di forma: la luce si opacizza mentre il rumore che la avvolge è diventato assordante. Guardo Konradin scagliare la fiala contro l’immagine della moglie, oramai divenuta quasi intangibile. Le sta urlando di non abbandonarlo. Si accascia per terra e rimane in ginocchio, singhiozzante, a guardare il pavimento. La donna continua a ignorarlo e si rivolge a me con delle parole che non riesco a comprendere. Il ronzio è troppo forte e forse le sue non sono nemmeno parole umane. Cerco di cogliere qualche cosa ma davvero non sono in grado nemmeno di sentire la mia voce talmente è tutto così confuso. Il cameriere, o chiunque egli sia, cerca di ricomporre la fiala e recuperare almeno qualche goccia del liquido turchese; ma invano. Ogni volta che ne raccoglie una goccia dalla figura, gocciolante come un ramo di ghiaccio in primavera, questa si vaporizza non appena sfiora il vetro della fiala. Mio padre alza Konradin per le braccia e lo sostiene come si fa con un bimbo che non cammina ancora. «Guarda» gli dice. Clara sta scomparendo. Così come è nata, adesso muore. Serena, quasi scusandosi. La stanza comincia a girare vorticosamente, o perlomeno a me pare che sia così. Un istante prima di dissolversi del tutto, mi pare di scorgere il mio volto riflesso in quello della creatura: sono io a sciogliermi! Sono io che sto scomparendo! Ma è davvero il mio volto? Oppure è la mia immagine riflessa sul suo? Come faccio a distinguere una cosa così sottile? Come posso in tutta questa confusione? Mi volto a cercare mio padre ma non c’è più nessuno nella stanza. Sono spariti tutti. Dissolti nel nulla. Così anche Clara sparisce del tutto; e si fa buio nella stanza. Rimango in silenzio per qualche istante. Trattengo perfino il respiro. Un senso di smarrimento ancora più grande mi abbraccia in una presa mortale. Ho paura. Paura del buio. Paura di tutto. D’improvviso, un rumore sordo e una luce abbagliante. Apro gli occhi. Dove sono? E’ tutto bianco attorno a me. Tutto così chiaro. Un odore di pulito eccessivo mi perfora le narici. Un odore quasi sintetico. Mi volto di scatto alla mia destra: c’è mio padre seduto accanto al mio letto. E’ vecchio. Dove mi trovo? Sono disteso… sdraiato in un letto. Bussano alla porta. Entra un uomo che mi pare di conoscere: ha un camice da medico. E’ un medico, senza dubbio. «Come si sente?» mi chiede con voce bassa. Non si aspetta una mia risposta e continua: «L’operazione è andata bene. Non abbia paura: non c’è più alcun pericolo» Stringe la mano a mio padre, che sembra conoscerlo, ed esce velocemente. Rimaniamo io e mio padre da soli nella stanza. «Hai avuto paura Karl?» mi chiede. «Non saprei. Non ho ricordi dell’operazione. Ieri notte sì, ho avuto paura» «E’ normale. Anzi, è umano direi» il viso s’increspa in un sorriso «Tutti hanno paura». |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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