Benvenuto,
Ospite
|
|
AGGIORNAMENTO: come da regolamento, la scadenza del concorso "L'intruso" è posticipata al 15 Giugno compreso!
Quassù in Himalaia mancano pure gli animali, non vola un'ala in aria, non c'è un'orma sulla neve. Ci vengo perché qui si approfondisce il sentimento di essere estraneo, un intruso del mondo. (Erri De Luca) L'intruso è il quarto tema di questa quarta edizione di UniVersi. C'è tempo fino al 31 Maggio 2012 (compreso) per postare i propri elaborati. Ricordo che è ammesso un solo racconto per autore. Se al 31 Maggio non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine ultimo sarà prorogato al 15 Giugno. Se al 15 Giugno non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine definitivo e improrogabile sarà portato al 30 Giugno. I racconti vanno postati in forma anonima (gli autori saranno svelati a fine concorso, dopo le votazioni) effettuando il login con l'account "Titivillus", password "universi". Ricordatevi di controllare il numero di caratteri prima di postare. I racconti che supereranno i 12000 caratteri (spazi compresi) saranno considerati fuori concorso. Ricordatevi anche di postare un sottotitolo per la vostra opera. So che vi sentite provati dopo il recente viaggio nella città dei folli. Ma c'è un solo modo per liberarvi delle inquietudini e dei turbamenti che si son fatti strada nella vostra testa mentre smarrivate la ragione, un solo modo per liberarvi del tarlo che vi rode: prendete carta e penna (o schermo e tastiera) ed espellete... l'intruso. REGOLAMENTO COMPLETO RACCONTI IN GARA
|
|
"Le Poète est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l'archer; Exilé sur le sol au milieu des huées, Ses ailes de géant l'empêchent de marcher."
Ultima modifica: 17/06/2012 02:30 Da marcoslug.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Una questione di punti di vista.
La grossa formica legionaria stava faticosamente trascinando una bacca dieci volte più pesante di lei. Sapeva che il duro lavoro sarebbe stato ricompensato dalle congratulazioni che le avrebbero fatto quando sarebbe tornata a casa, per il ghiotto bottino che era riuscita a raccogliere durante la sua caccia. Improvvisamente però le sue antenne vibrarono e la sua mente fu invasa da innumerevoli immagini di terrore; le grida delle sue compagne che invocavano aiuto si sovrapponevano una sull'altra. Senza pensarci un secondo di più lasciò andare la bacca ed iniziò la folle corsa in direzione del formicaio, che giaceva nascosto nell'alta erba umida caratteristica della savana sudamericana del Cerrado, a ridosso della foresta pluviale amazzonica. Dopo qualche minuto la formica sbucò nello slargo nell'erba dove sorgeva il nido, ciò che vide fu mostruoso: un enorme essere peloso aveva infilato il suo lungo muso all'interno del formicaio e con la lingua stava risucchiando le sue compagne una ad una. Accecata dall'ira si fiondò su una delle zampe dell'animale e cominciò a morderlo con tutta la forza che aveva. Ad un certo punto, mentre stringeva implacabilmente le sue tenaglie, sentì sollevarsi in aria. Con la coda dell'occhio vide che l'essere stava girando il muso verso di lei, e capì che la fine era giunta. La lingua del mostro la catturò e la risucchiò in meno di un secondo. Il formichiere si era sentito così sazio poche volte nella vita. Era stata veramente una fortuna trovare quel grosso formicaio, chissà quando mai gli sarebbe ricapitato! Con la pancia piena si diresse ai piedi di un vicino albero solitario, intenzionato a farsi un bel riposino. Si era appena disteso quando capì che c'era qualcosa che non andava: l'istinto gli stava dicendo che quello non era un luogo sicuro. Si girò lentamente su se stesso, controllando minuziosamente l'erba alta; sapeva che feroci predatori potevano nascondersi bene, ma la sua vista era buona e l'erba era un po' rada in quel punto della savana; gli sembrava proprio che non ci fosse niente di niente. Fu allora che capì il suo tragico errore, si voltò in alto con paura. Silenziosa, in agguato, una pantera nera come la notte era nascosta tra i rami dell'albero. Il formichiere sentì la scarica di adrenalina rizzargli tutti i peli del corpo, ma non ebbe tempo di scappare. Il felino si gettò sul formichiere, spezzandogli alcuni ossi solo con il peso del corpo, per poi affondargli i terribili denti aguzzi nel collo, alla ricerca delle carotidi, alla ricerca della vita. La pantera trascinò la carcassa nella sua tana, nascosta poco distante, dove i suoi tre piccoli aspettavano affamati il ritorno della madre. Il formichiere li avrebbe soddisfatti, ma presto avrebbe dovuto cercare un'altra preda. Bang Lo sparo scosse l'apparente silenzio della savana tropicale. "Mark, vieni presto! Mi sa che l'ho presa!" Mark saltò il recinto e raggiunse speranzoso Roland, che imbracciava il fucile ancora fumante. I due si diressero verso l'animale, ormai morto stecchito. "L'hai presa sì, e in mezzo agli occhi, mai visto un colpo del genere, bravissimo! Finalmente questa maledetta pantera smetterà di mangiarci le capre...allevarle qui è più difficile di quanto avessimo previsto, con la foresta amazzonica poco lontana e fottutamente piena di predatori." Mark sottolineò la sua affermazione con uno sputo diretto al lucido mantello nero della pantera e pensò che forse sarebbero riusciti a ricavarne qualcosa, vendendolo a qualche bracconiere. Ciaff! "Zanzare, ancora zanzare, non ne posso più." Roland mostrò all'amico il palmo della mano, dove giaceva il resto dell'insetto, schiacciato mentre stava pungendo il collo dell'uomo. Una cellula del fegato, un epatocita, stava facendo il suo lavoro, quello che l'evoluzione le aveva assegnato negli ultimi millenni. La sera prima Roland aveva mangiato molto, accompagnando il pasto con qualche birra di troppo; quindi la cellula era ancora faticosamente impegnata a metabolizzare i grassi e l'alcol in eccesso. Immersa com'era nel suo compito, quasi non si rese conto del piccolo parassita che attraversò la sua membrana cellulare. Gli dedicò giusto il tempo di uno sguardo e pensò che se i cani da guardia del sistema immunitario non l'avevano bloccato evidentemente non poteva essere pericoloso per lei e per le sue compagne. Gli enzimi di cui era riccamente fornita l'avrebbero tranquillamente digerito. Quello che la povera cellula non poteva sapere era che quel piccolo e veloce parassita era in realtà del tutto sfuggito al sistema immunitario di Roland. Era uno sporozoa del genere Plasmodium, poco diffuso in Sud America; era infatti molto più comune e famoso, o meglio dire famigerato, soprattutto in Africa. Quello sporozoa era universalmente conosciuto come portatore della terribile malattia della malaria. E anche lui avrebbe fatto il suo lavoro. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 23/04/2012 09:10 Da Titivillus.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Una storica intrusione
Poitiers, ottobre 732 d. C. Da una settimana, ormai, due eserciti sono posizionati l'uno contro l'altro in attesa che qualcuno faccia la prima mossa. Il fuoco da campo si sta lentamente consumando rischiarendo il tramonto che, lento, s'è trasformato prima in una serata dai colori pastello e poi in notte dal magico potere di accomunare ogni cosa in una profonda tenebra. Domani potrebbe essere il giorno decisivo; domani, il generale Abd al-Rahman Ibn Abd Allah al-Ghafiqi, potrebbe sferrare il primo attacco dopo giorni di studi e posizionamenti. Carlo Martello abbandona la sua tenda. Ha convocato i principali gerarchi per conferir loro le ultime missive. Dà un rapido sguardo a ognuno di loro. L'ultimo, intenso e fiero, lo lascia ad Oddone I d'Aquitania. Sguaina la spada che userà, com'è solito fare, per indicare al meglio come si dovrà posizionare, domani, l'esercito dei Franchi. Poi inizia il discorso: «La smetteranno di bruciare le nostre chiese e di rubare i nostri tesori. Cacceremo questi maledetti intrusi dalla nostra terra. Non abbiate paura di questi infedeli. Dio guiderà la vostra mano. Affidatevi a lui. Domani non ucciderete né per voi stessi, né per le vostre famiglie, né per le vostre città. Domani ucciderete per Dio, domani ucciderete per difendere la Sacra Croce così che non venga mai più profanata da questa feccia. Essi non sono uomini come noi. Sono blasfemi, sono senza pietà e il tutto in nome di quella che loro chiamano indegnamente guerra santa. Con che coraggio profanano le radici cristiane? Con che coraggio additano Cristo e il nostro Dio come nemico? È Dio stesso che ci chiede di difenderlo da quest'ondata barbara di sangue, violenza e ladrocinio scellerato. Domani, se attaccheranno, restate fermi e uniti. Oltre ad essere intrusi, infedeli e scellerati, queste bestie mandate da Satana sono anche vergognosamente vigliacche. Non cadete nella loro trappola. Attacherrano, fingeranno la ritirata così che noi s'illuda di inseguirli ed è allora che colpiranno con il loro schieramento a mezzaluna traendoci all'interno del loro infedele abbraccio mortale. Pertanto d'ora in poi e per tutti i giorni a venire divulgate quanto detto finora. Restate in posizione qualunque cosa dovesse accadere. Non inseguite il nemico per nessuna ragione al mondo fino a quando io, Re Carlo, non impartirò disposizioni ufficiali. Allora soltanto potrete inseguire quelle bestie bastarde, uccidendo, facendo schiavi e riappropriandovi di tutti i beni che questi esseri disumani hanno saccheggiato finora. Li attenderemo lungo la confluenza dei fiumi domani. Fermi, immobili, compatti. Un muro che resisterà agli attacchi e nei quali loro non potranno fare breccia. I cavalieri si tengano a debita distanza da quella sporca e terribile cavalleria araba. Capisco i nostri poveri cavalli; anche io odio quell'odore orribile di quei luridissimi dromedari». Carlo Martello rifoderò la spada nella propria vagina. Indicò Oddone I con il proprio indice: «Tu, Oddone, assieme alla tua cavalleria, resterai dietro di noi. Nasconditi quanto meglio puoi all'interno della foresta. Nessuno dovrà sospettare della vostra presenza. È di fondamentale importanza. Solo quando vi darò il segnale uscirete allo scoperto e travolgerete tutto quello che verrà sotto le zampe dei vostri cavalli. Abbiate fiducia di me. Domani, voi, sarete l'ultimo terribile ricordo di questi maledetti infami». Oddone non disse nulla. Chinò il capo e acconsentii alle richieste del Generale Re Carlo. Il giorno seguente, alcune truppe berbere, decisero di attaccare già all'alba. La prima linea restò compatta e con il morale alto fiduciosa nelle capacità militari del proprio generale. Le lance cristiane cominciarono e mietere le prime vittime. Quando l'intera cavalleria saracena fu contro gli scudi franchi, Carlo Martello diede il segnale ad Oddone che sbucò dal proprio nascondiglio. La battaglia si trasformò in carneficina. L'esercito mussulmano fu messo in fuga e venne ucciso anche il generale nemico. Fu allora che Carlo divenne Martello. Tanta fu la sua forza a difesa dell'Europa Cristiana che quell'appellativo se lo conquistò sul campo e nessuno osò negarglierlo da all'ora fino all'eterno. Poitiers, ottobre 732 d.C. Da una settimana, ormai, due eserciti sono posizionati l'uno contro l'altro in attesa che qualcuno faccia la prima mossa. All'interno della sua tenda, lo sguardo del generale Abd al-Rahman Ibn Abd Allah al-Ghafiqi si fa sempre più inquieto. - Perché non attaccano - continua a pensare - e fino quando riuscirò a tenere a bada l'euforismo di queste truppe? -. Il generale sa bene quanto sia delicata la sua posizione. Lui è la luce di tutto. Senza di lui, quegli uomini non abituati all'attività militare regolare, sarebbero persi. Proprio l'ignoranza militare potrebbe spingerli a mosse stupide ed avventate. Riconoscente ad Allah, il generale, s'addormenta, in attesa della nuova alba. Il giorno successivo, il generale Abd al-Rahman e i suoi uomini si riempiono d'ira e d'orgoglio e attaccano l'innumerevole esercito di Re Carlo. Il Re si dovette scomodare in prima persona con un'infinità di uomini per venire a contrastare il valoroso e devoto esercito mussulmano che, in nome di Allah, aveva raccolto molteplici tesori nelle città saccheggiate. Ogni città temeva l'esercito arabo e la voce s'era ormai sparsa a migliaia di chilometri di distanza. Un esercito coraggioso e per davvero devoto avrebbe riportato altrettanta devozione all'interno di quell'accozzaglia di popoli dediti più al vizio che alla preghiera. Molti furono i morti (che siano accolti da Allah) da ambedue i lati in quel primo giorno. L'attacco durò per tutto il tempo della luce. Il mattino seguente, la cavalleria mussulmana, attaccò nuovamente il centro dell'esercito nemico. False notizie cominciarono però a diffondersi tra le fila dell'esercito arabo. Si disse che alcuni cavalieri franchi stessero saccheggiando gli accampanenti arabi dei loro tesori. Timorosi di perdere quanto fino ad allora conquistato molti cavalieri tornarono indietro. A nulla valse il coraggio del generale Abd al-Rahman che tentò in ogni modo di dissuaderli. I Franchi ebbero la sensazione che l'esercito mussulmano stesse fuggendo. Il generale restò solo, circondato dalle truppe nemiche e venne trafitto (che sia accolto da Allah) dopo essersi battuto con coraggio e devozione fino alla fine. Persa la luce che guidava il loro cammino, l'intero esercito mussulmano decise di ritirarsi dalla battaglia lasciando, dietro di se, i molti morti (che siano accolti da Allah) e i residui dell'accampamento da guerra. Nulla del bottino fu lasciato ai franchi. Poitiers, maggio 2012 d.C. Un piccolo roditore, a bordo del fiume, s'aggroviglia freneticamente all'interno d'un pezzo di carta alluminio. Cerca di portare a casa l'ultimo pezzo di un kebab abbandonato da chissà quale incivile consumatore. Laggiù, poco più in basso, tra l'asfalto tiepido del primo tepore primaverile, alcune formiche s'affannano nell'attuare una strategia. Un'"enorme" briciola di pane e un "gigantesco" pezzo di carne stazionano in un angolo di un cartone bianco e rosso che riporta la scritta Big Mac. Se tutto andrà secondo i piani, tra una settimana, porteranno quel fenomenale bottino nei meandri del loro formicaio. Chissà che leggende inventeranno su di loro le formiche che conservano la storia della specie. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 08/05/2012 21:24 Da Titivillus.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Le ambizioni di Nicole
Aprì gli occhi ed ebbe subito una strana sensazione. Dalla finestra filtrava una luce già piuttosto viva, e dal frastuono proveniente dalla strada intuì che dovesse esserci molto traffico. Si tirò su alla svelta. Diede un'occhiata alla sveglia che segnava le quattro e trentacinque. Dannazione, si era fermata durante la notte. Saltò giù dal letto e corse ad agguantare il telefono poggiato sulla cassettiera: lo accese e inserì il codice di sicurezza. «Cacchio, sono le nove!» Era tardi, avrebbe dovuto essere al lavoro alle otto e trenta. Pensò che in fin dei conti non era poi una tragedia. Era sempre piuttosto puntuale e il capo non l'avrebbe presa così male, e in ogni caso avrebbe potuto inventare una scusa credibile. Temendo che non potesse bastare, e con l'intento di dargli un buon motivo per essere felice di vederla nonostante l'ora e più di ritardo, indossò il vestito che le aveva regalato Paolo qualche settimana prima, in occasione del suo compleanno. Le stava alla perfezione. Corto abbastanza per mettere in risalto lo stacco mozzafiato delle sue gambe, le avvolgeva il sedere così da farlo sembrare ancora più delizioso e alto di quanto già in realtà fosse. La scollatura, seppur non esagerata, celava con scarsi risultati la prominenza di un seno sodo e voluminoso. Era piuttosto orgogliosa del suo fisico e ogni giorno, poco prima di uscire di casa, si abbandonava a un minuto di ostentazione di fronte allo specchio posto a un angolo della camera da letto. Stava di profilo, raccogliendo i capelli fra le mani e tenendoli alti, così da non coprire alcuna porzione del suo profilo. Si osservava, arcuando leggermente la schiena e sollevandosi in punta di piedi, compiacendosi di quel dono che madre natura le aveva fatto. Dono che per conservarsi in perfette condizioni non le chiedeva in cambio poi chissà quali sacrifici. Chiuse per alcuni istanti gli occhi, pensando che sì, era proprio una gran figa. Li aprì di colpo quando senti la stretta vigorosa di due mani sui suoi fianchi. Per qualche istante si era spaventata poiché, persa nella contemplazione della sua bellezza, aveva dimenticato di non essere sola in quella stanza. Riconobbe il profumo di Paolo, che le poggiava il mento all'altezza della nuca, affondando col viso fra i capelli. Ora la stringeva con forza. «Visto che sei in ritardo, qualche minuto in più non farà tanta differenza» le disse. Tenendolo stretto, si spostò verso la cassettiera. Vi poggiò sopra una mano, chinandosi in avanti e curvando leggermente la schiena, mentre con l'altra lo attirò verso sé, sentendone il desiderio spingere sul suo corpo. «Attento a non stropicciarmi il vestito» lo avvertì voltandosi maliziosa verso di lui, con un tono che suonava piuttosto come un invito a fare l'opposto. La potente presa delle sue mani si spostò leggermente più in basso, e con un movimento repentino le tirò su l'abito, assestandole una squillante pacca sul sedere. Nicole arrivò al lavoro, ridente in volto, alle dieci passate. Come aveva previsto, il capo non se l'era presa, o almeno non se l'era presa troppo. Sapeva di poter rimediare, così che di fronte al rimprovero del dottor Grazioli si prodigò in scuse e mea culpa, assicurando che episodi del genere non si sarebbero più ripetuti. Inizialmente, di fronte alla segretaria e alla seconda assistente – che mal celavano la loro soddisfazione per i rimproveri alla collega – si era mostrato severo con lei, ma durante la pausa pranzo Nicole ebbe modo fornirgli le restanti giustificazioni sul suo ritardo. Il dottor Grazioli si mostrò per nulla risentito e, anzi, ben lieto di ricevere in sede appartata quella seconda tranche di giustificazioni, apprezzando le qualità di quella che poteva senza ombra di dubbio annoverare fra le sue migliori dipendenti. «Ieri mi ha chiamato il nostro cliente speciale,» le disse, tirando una profonda boccata di sigaretta e lasciandosi cadere senza resistenza sulla comoda poltrona di pelle «mi ha chiesto di te, devi avergli fatto una bella impressione». «Lo credo bene. Ci mancava che iniziasse a sbavare, l'altro giorno» «Mi ha detto di aver in mente qualcosa per te, però...» le disse con un mezzo sorriso sulle labbra «...ha bisogno di sapere se può fidarsi o meno. Completamente. Sai cosa voglio dire,no?» «Sono indecisa anch'io se fidarmi o meno» ribatté. «Certi treni passano solo una volta, Nicole» sentenziò «e questo è l'unico treno dove ti pagano per salire». Nicole accese una sigaretta e il suo sguardo andò oltre la finestra. Dal settimo piano osservava la città, il caos del traffico cittadino e tutta quella gente che andava e veniva. Pensò che osservandoli con attenzione e una certa costanza, di certo avrebbe visto le stesse facce, indossare vestiti simili, compiere le stesse azioni. Tutti i giorni. Gente comune con un destino già scritto. Si voltò, incrociando con lo sguardo la sua immagine riflessa sullo specchio posto al lato opposto dell'ufficio del dottor Andrea Grazioli. Ancora una volta si compiaceva di come quel vestito regalatole da Paolo le stesse bene. Povero Paolo, pensò, bello e ingenuo come pochi. Percepì l'occhio di Grazioli posarsi sul suo corpo e lo sentì espirare il fumo della sigaretta con la stessa forza con cui poco prima l'aveva scopata sulla scrivania; e realizzò che quel corpo l'avrebbe potuta portare lontano. Chè non avrebbe fatto la fine di quei poveracci che passavano laggiù tutti i giorni e anzi, d'ora in avanti, li avrebbe guardati da ancora più in alto. «Andrea, va bene. Lasciami il suo numero di telefono» «E' un amico. Non farmi fare brutta figura». L'ultima frase suonava come un avvertimento. Lei annuì. Gli accordi erano chiari. Aveva ricevuto tutte le istruzioni, un abito da indossare apposta per l'occasione e le chiavi dell'appartamento in cui recarsi. Alle sette e trenta in punto del sabato sera successivo, infilò la chiave nella serratura del centralissimo appartamento di via dei Confaloni. Il battito sordo dei tacchi rimbombava sulle pareti alte e quasi completamente spoglie. «C'è qualcuno?» Il gioco era iniziato: proseguì a passi brevi e incerti, tenendo una mano a contatto con la parete in modo da orientarsi nell'oscurità del lungo corridoio. Giunto alla fine di esso intravide la porta e la sala nella quale entrare. La sua vista ancora non si era adattata all'oscurità dell'ambiente, girò su sé stessa cercando di intravederlo, lo sentiva vicino. «C'è qualcuno?» ripeté «Sto chiamando la polizia!» Mentre recitava il copione pensava a quanto fosse ridicolo e per poco non le scappò una risata. Una ragazza che torna a casa e non accende la luce, teme che ci sia un intruso e piuttosto che scappare gli chiede di uscire allo scoperto. Tutto molto buffo, ma non era il caso di sollevare dubbi sulla sceneggiatura, occorreva solo interpretare a dovere il ruolo che le avevano assegnato. Lo sentì avvicinarsi, scorgendo un ombra allungarsi dietro sé. Non si mosse. Qualcosa le tocco la schiena scoperta e un brivido di freddo la penetrò, come se sulla pelle poggiasse un oggetto metallico. «Ferma» disse l'uomo «ho una pistola» «Ti prego, non farmi del male» lo implorava , recitando da attricetta di serie B. «Non dovresti trovarti a casa, a quest'ora» aggiunse l'uomo «ma visto che sei qua,credo mi divertirò un po' con te» Nicole sentì la canna della pistola scendere lungo la schiena fino alle gambe, e da lì risalire, lentamente, facendo su e giù fra le sue cosce. Il vecchio aveva saltato parti del copione, aveva fretta di arrivare al sodo, il maiale. «Non toccarmi, porco, lasciami andare!» improvvisò la ragazza. «Inginocchiati, veloce» Parlò con tono autoritario, spingendola verso terra: il vecchio era proprio entrato nella parte, pensò Nicole. Tirò fuori delle manette e gliele lego ai polsi, dietro la schiena, lasciandola faccia a terra. Le coprì gli occhi con una benda. Lei non oppose resistenza. Nicole sentì la mano dell'uomo infilarsi fra le sue gambe, prima con carezze delicate, poi spingendosi sempre più su, insinuandosi fra le sue mutandine. Gemette, e l'uomo, eccitato, gliele strappò via con un movimento secco. «Ti piace, tesorino?» «Oh si, dai, scopami! Ora!» La ragazza sentì un leggero scampanellio e intuì che l'uomo, con una mano, cercava di sganciare la cintura e abbassarsi i pantaloni. L'altra mano era in parte dentro di lei, che ora iniziava a godere di vero piacere. «Inginocchiati, puttana. E apri la bocca» le ordinò l'uomo. Come fu in posizione l'uomo le infilò il pene duro in bocca e la prese per i capelli, dettando il ritmo alla ragazza. Mentre succhiava il cazzo del vecchio, Nicole sentì dei passi all'interno della sala e per un attimo si fermò. La presenza di una terza persona non era negli accordi. «Non preoccuparti tesoro, lui è un mio amico e si divertirà un po' insieme a noi. Tu continua il lavoro» Nicole continuò a pompare fino a far godere il vecchio, mentre il secondo uomo la prendeva da dietro. Non doveva essere un giovanotto nemmeno lui perchè ansimava come un asmatico e sentiva il suo ventre flaccido sbatterle contro a ritmo accelerato. Ad un certo punto temette che gli stesse per venire un colpo e iniziò a dimenarsi così da farlo arrapare ancora di più. Sperava che godesse il prima possibile senza tirare le cuoia. Una volta finito, il secondo uomo lasciò la stanza senza che Nicole potesse vederlo. Un'ora dopo il vecchio riposava sulla poltrona e Nicole sedeva fra le sue gambe. Trasse dalla giacca una mazzetta di banconote e gliela porse, lei gli stampò un bacio sulla bocca. «E brava la mia Nicole, sapevo che con te si andava sul sicuro» «Avevi dei dubbi? Guarda che non ho mai lasciato insoddisfatto nessun uomo» rispose, fingendosi offesa. «Lo immagino cara mia, lo immagino» le disse sfiorandole i seni «spero ci siano altre occasioni. Ho in mente grandi cose per te» Nicole poggiò il capo sulle spalle del vecchio, accarezzandogli il viso. Avrebbe potuto essere suo padre, forse suo nonno, ma l'avrebbe portata in alto. «Pensavo una cosa» disse «Dato che d'ora in poi ci sentiremo più spesso, devo trovarti un nome più affettuoso per la rubrica del mio telefono» «Amore mio» sussurrò «da ora in poi, chiamami “papi”» dedicato a N.M. ,la cugina che non ho mai avuto. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Matteo e Chiara
I Matteo poggia la testa sulla pancia nuda di Chiara. Sa che è ancora un po' troppo presto perché si possa sentire qualcosa, ma non resiste all'idea. Poco prima hanno fatto l'amore, con dolcezza, visto che Chiara sta avendo una gravidanza non facile. E' una ragazza molto forte, ha continuato a lavorare sodo, come ha sempre fatto, ma le nausee mattutine e la sonnolenza serale stanno limitando la sua vita extra lavorativa. Anzi, anche la loro vita di coppia. Matteo ricorda benissimo il momento in cui Chiara gli ha detto di essere incinta. Lei è una ragazza molto diretta, non gira mai attorno alle parole, ai discorsi. Gliel'ha detto non appena l'ha saputo, la sera stessa del giorno in cui ha fatto il test di gravidanza. “Amore, sono incinta”. Sono parole evidentemente banali, ma nella testa di Matteo hanno risuonato per giorni e giorni come un gong mentale. Non stavano cercando un figlio, non per lo meno con una programmazione serrata. E' venuto così, frutto dell'amore e dell'intimità che tra loro due è davvero molto forte. Matteo ha sempre voluto avere dei figli, fin da bambino. Suo padre, Leonardo, è morto per un linfoma quando Matteo aveva soltanto sei anni e la madre non si è mai risposata. Gli è mancata moltissimo la figura paterna così come un fratello o una sorella. Matteo ha maturato fin da giovanissimo la decisione di avere almeno due figli e di cercare di essere il miglior padre possibile, o comunque sempre presente e disponibile. Non vuole che altri bambini crescano senza poter avere un papà vicino. Nel suo caso è stata una malattia, ma odia le persone che abbandonano la famiglia. Matteo ha avuto molte relazioni durante il corso degli anni. Ha cambiato spesso casa e lavoro, oltre che città e addirittura nazione, anche se ora è tornato a vivere nel paese in cui è cresciuto. Quando ha incontrato Chiara, però, ha capito subito che si trattava della persona giusta per costruire una famiglia. La ama intensamente e con lei riesce a sentirsi a proprio agio, come con nessuna persona prima di lei. Il momento nelle loro vite è inoltre buono: Matteo e Chiara non fanno parte della generazione 1000€, entrambi hanno un lavoro stabile, guadagnano delle belle cifre, possono prendersi facilmente dei periodi di aspettativa dal lavoro, visto che hanno deciso di vederlo crescere il loro bambino. Sono in una condizione invidiabile a dirla tutta. Eppure, quando Chiara gli dice della gravidanza, Matteo, nonostante il suo modo di vedere, rimane un po' interdetto. Non può fare a meno di chiedersi quanto e come cambierà la loro vita. Adesso sarà più difficile fare dei viaggi lunghi, almeno per qualche anno. Non sarà più possibile fare l'amore in ogni camera della casa e così spesso come prima. Cambiano le priorità. Probabilmente dovranno limitare le loro uscite insieme e comunque Matteo non è tipo da andare al bar mentre la sua compagna accudisce il bambino o i bambini. Ci sarà sempre meno spazio per sé anche se bisogna ammettere che loro due compongono una coppia molto unita, condividendo amici e interessi. Sono due persone che sanno stare assieme e con gli altri. Matteo sente che qualcosa lo disturba. Forse ha aspettato troppo tempo per farsi una famiglia, ha quasi trentasette anni e anche se i tempi di maternità e paternità si sono allungati non si sente più giovane come una volta. Anzi, non è esatto: si sente ancora giovane, è in ottima forma fisica, più che altro si sente sempre meno disposto a cambiare il proprio modo di vivere, ora che ne ha consolidato uno che gli pare soddisfacente. Chiara, invece, sembra del tutto immersa nell'esperienza maternità, anche se non sta bene, dominata com'è da nausea e sonnolenza. Però è felice, è evidente. Anche lei ha sempre desiderato molto avere un figlio ma non ha mai incontrato un uomo con il quale si sentisse davvero di crescerlo. Quando ha conosciuto Matteo ha realizzato subito che lui poteva essere la persona adatta. E non appena ne hanno parlato, ha avuto la certezza che fosse così. Sono andati a vivere assieme quasi subito. Le loro famiglie e i loro amici hanno approvato all'unanimità, tranne forse Emiliana, da sempre innamorata di Matteo. Ma persino lei, dopo aver conosciuto Chiara, ha dovuto ammettere che insieme, i due, formano una splendida coppia. Matteo sente un rumorino arrivare dal ventre della sua donna. Probabilmente non c'entra nulla con il bambino, con l'Intruso, come ha finito per chiamarlo tra sé e sé, ma a lui sembra così e non un movimento dovuto alla digestione. Si fa forza e cerca di non porre condizioni dentro di sé, di liberare l'amore per quella creaturina che tra non molto crescerà e arriverà a vivere con loro. Si sente in colpa perché deve sforzarsi di farlo. Per fortuna la mano di Chiara ora gli accarezza i capelli. Tutti i dubbi spariscono o meglio, si trasformano in certezze. II Matteo sente un urlo, evidentemente di dolore. Si rende immediatamente conto che non fa parte del sogno che sta facendo e si sveglia di scatto, stranamente lucido. Normalmente ha sempre difficoltà a passare dal sonno alla veglia, ci mette sempre un po' a trovare sé stesso. Chiara urla di nuovo. Matteo scende dal letto, sa di doverla portare immediatamente all'ospedale. Si infila dei jeans e le scarpe da ginnastica, in fretta, con movimenti precisi e netti. Prende la borsa che Chiara ha preparato in caso di ricovero e la mette a tracolla, avvolge la sua compagna in una coperta e la porta alla macchina tenendola in braccio, mormorandole parole rassicuranti. La carica sul sedile posteriore e parte alla massima velocità possibile. Nello specchietto retrovisore osserva Chiara portarsi una mano tra le gambe, in modo nevrotico. Vede la mano coprirsi di sangue. L'Intruso, evidentemente. “Che cazzo fai, Intruso? Non fare male alla mia Chiara, maledetto”, pensa tra sé e sé, ma riesce a rimanere concentrato alla guida. Il pronto soccorso più vicino dista dieci chilometri. Matteo impreca quando trova di fronte a sé un camioncino bulgaro. Lo sorpassa, rischiando moltissimo. Finalmente riesce ad arrivare all'ospedale. Non aspetta che gli infermieri escano fuori, prende Chiara di peso e la porta subito dentro. La capo sala di turno chiama immediatamente i medici e Chiara viene ricoverata d'urgenza. <Non si preoccupi signor Conti, per fortuna è riuscito a portare subito la sua compagna qua da noi. Stanotte abbiamo un ginecologo di turno, per cui stia tranquillo>. Matteo non è per niente tranquillo, non riesce a stare fermo e continua a camminare avanti e indietro per la sala d'attesa, innervosendo gli altri pazienti. Una signora anziana che ha accompagnato il marito dopo una brutta caduta dalle scale, gli chiede di fermarsi e di sedersi. Matteo, solitamente gentile, la fulmina con lo sguardo e le risponde in malo modo. Alla fine si decide ad uscire e continua a muoversi su e giù lungo il marciapiede. Un solo pensiero rimbomba nel suo cervello: “Chiara”. Non c'è spazio per altro. Non si accorge nemmeno del freddo e della pioggia che comincia a scendere. Sposta la macchina che ha lasciato aperta di fianco all'entrata ambulanze, ma solo di qualche metro: non vuole allontanarsi dall'ospedale. I minuti passano lentissimi, si trasformano in mezz'ore, in ore. Alla fine un'infermiera lo va a cercare e lo conduce in un piccolo ufficio dove lo attende il medico che ha operato Chiara. E' un uomo giovane, con l'aria affabile ma col volto estremamente stanco. Matteo s'avvede subito che il medico ha delle brutte notizie. Rimane paralizzato, in attesa. <Signor Conti, le dico subito che la signorina Crosa sta bene. Per fortuna lei è stato pronto e l'ha portata subito qua da noi, quindi abbiamo potuto intervenire sull'emorragia in modo efficace. Un aborto naturale al quinto mese avrebbe potuto avere conseguenze ben peggiori. Purtroppo per il feto non c'è stato nulla da fare. L'utero della sua compagna presenta una lieve malformazione e la gravidanza stava diventando extrauterina. Il feto non ce l'ha fatta. Si tratta di un autentico rigetto naturale. Mi dispiace>. Matteo tira un sospiro di sollievo. Si sente invadere da una strana gioia. “Intruso, ti abbiamo battuto. Ora potremo tornare alla nostra vita di sempre, a noi due”. Si vergogna immediatamente con sé stesso per quello che ha pensato. Per un attimo non si riconosce. Ringrazia il medico ed esce dall'ufficio assieme all'infermiera. Chiede alla donna se può vedere Chiara, ma lei gli risponde che adesso è addormentata e che potrà vederla tra poche ore. Anzi, gli consiglia di andare a casa e di tornare al mattino. Matteo la ringrazia, in parte sollevato, ma decide di rimanere nella sala d'aspetto: vuole esserci immediatamente quando Chiara si sveglierà. Esce e va verso la macchina per recuperare l'asciugamano e la camicia che tiene sempre di scorta, visto che suda molto. Entra nel bagno del pronto soccorso. Allo specchio quasi non si riconosce, gli occhi spiritati, la pelle grigia, i capelli scarmigliati. Gli sembra di vedere una ciocca bianca nella barba, una nuova. Si accorge inoltre di avere addosso ancora la maglia del pigiama sotto il giubbotto che non ha mai tolto. Si sciacqua e si cambia, poi va a sedersi e si addormenta quasi subito. Al mattino l'infermiera lo va a svegliare e gli dice che può vedere Chiara, finalmente sveglia. Matteo si alza di scatto e non attende il lento ascensore, vola su per le scale e trova subito la camera dove hanno ricoverato la sua donna. E' una camera singola, per fortuna, potranno avere intimità. Matteo non ha ancora chiamato nessuno delle loro famiglie: sono abituati a risolvere i problemi tra di loro. Prima di entrare si aggiusta i capelli con la mano e si mette la camicia nei pantaloni. Entra nella camera e Chiara, coraggiosa come sempre, gli sorride. Matteo vede però che il sorriso non arriva fino agli occhi, che è solo coraggio, appunto. Si avvicina al letto, bacia la sua compagna sulle labbra e non sapendo cosa fare si siede sulla sedia accanto a lei tenendole una mano. Ha paura di abbracciarla, teme di farle male. Chiara lo guarda con amore, come sempre, ma entro pochi istanti gli occhi le si riempiono di lacrime, evento raro perchè è una ragazza forte e non piange facilmente. <Ss-cusa Mm-atte, è solo cco-lpa mia, non dd-ovevo ll-avorare come ss-empre, abbiamo pp-erso il bbi-mbo, mi hanno dd-etto che era un mm-aschio. Tu lo vv-olevi così tanto>, dice tra i singhiozzi. Matteo ripensa all'Intruso, ricorda cosa ha sentito la notte prima verso quella creatura. Eppure, finalmente, grazie alle parole di Chiara, torna ad essere sé stesso e non più la persona follemente efficiente e spietata che ha saputo essere durante l'emergenza. E' vero, nonostante i dubbi lui lo desiderava davvero tanto. Abbraccia la sua ragazza delicatamente ma con forza, le mormora delle parole dolci per rassicurarla e finalmente trova il coraggio di piangere assieme a lei. Non per sé stesso o per Chiara: solo per l'Intruso, per il suo bambino mai nato. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Tizio, Caio e Mevio
Questa è una storia vera. Anzi, è meglio scrivere che questa storia prende spunto da una situazione avvenuta per davvero. Tutti gli studenti universitari sono stati almeno una volta in biblioteca a studiare: l’autore del racconto vi si è recato colà tante volte. Una mattina di primavera, questa primavera in effetti, l’autore si recava a una delle tante biblioteche della città assieme all’amico compagno di studi. Prima di cominciare a studiare nacque di punto in bianco una discussione tra i due sopra una questione totalmente marginale e quantomeno inopportuna per la serietà delle ore che avrebbero dovuto scandire la loro giornata di studio. Avendo spulciato per tanti anni una serie illimitata di manuali di diritto, i due studiosi si trovarono d’accordo nel ritenere che Tizio fosse un farabutto. E un bandito. E qualsiasi altra cosa immorale possa essere pensata o fatta, bene, Tizio l’ha pensata o fatta. Egli è malvagità allo stato puro, ne combina una più del diavolo e, cosa ancora più grave, spesse volte la spunta. Tizio riscuote le simpatie dei due studiosi, ma in modo distaccato: quasi che sia un essere soprannaturale. Impossibile per un umano averne combinate così tante recidivamente e senza alcuna incrinatura sulla coscienza. Egli agisce perché è giusto così, non ha secondi fini e parrebbe non possedere memoria. A pagarne le conseguenze novantotto volte su cento è Caio. Caio è un tipo mite, che rispetta la legge e agisce sempre secondo solidi principi morali. Troppe volte, tuttavia, egli viene trascinato da Tizio a compiere le più incredibili malefatte ovvero (nel senso di “oppure”, ndr) diviene la vittima prediletta degli atti illeciti di Tizio. All’autore piace credere che Caio sia per la verità quasi sempre una vittima della personalità esplosiva di Tizio. Il collega di studi ritiene invece che in troppe occasioni Caio è stato graziato, nonostante in palese combutta con l’amico/nemico, mentre avrebbe meritato la forca almeno la metà delle volte nelle quali Tizio è stato punito. Per dovere di cronaca ci sarebbe da fare un piccolo accenno anche a Sempronio. Questi, tuttavia, è semplicemente un surrogato malriuscito del secondo tipo di Caio (cioè non il Caio complice di Tizio, ma il Caio che viene molestato da Tizio). Sempronio non ne possiede infatti la complessità, la personalità, il numero di esempi alle spalle e tantomeno lo charme. E’ solito vivere passivamente gli eventi e non vale la pena dilungarcisi su troppo tempo. Arriviamo in un baleno all’ultimo personaggio: Mevio. Mevio è senza dubbio il personaggio che più riscuote le simpatie dei due studiosi. Egli è in effetti il “deus ex machina” di pressoché tutti gli esempi dei manuali di giurisprudenza, da “diritto processuale civile” a “diritto pubblico comparato”, passando con disinvoltura per “diritto commerciale”. Solitamente è quello che fa saltare i piani di Tizio, ovvero che li aggrava col suo fare maldestro. Insomma il suo operato è quasi sempre risolutivo e determinante e nel bene e nel male. Mevio è anche il personaggio meno caratterizzato: vive le cose con distacco. Quasi sempre si ritrova coinvolto nell’azione per puro destino. L’eleganza e l’astuzia con le quali fronteggia con coraggio le malefatte di Tizio lo fanno assurgere alla dignità di “mito”, a detta dei due giuristi in erba. Non c’è dubbio che Tizio abbia, nei decenni, accumulato un’ostilità nei confronti di Mevio dal livello incalcolabile. Eccoli qui, gli attori senza volto di tutti gli esempi dei manuali di giurisprudenza: all’autore pareva giusto concedere loro del tempo, giacché tante volte essi lo hanno accompagnato, con le loro stravaganti vicende, durante questi anni accademici. Questo minuscolo scritto è un tributo a loro -eccezion fatta per quello scalzacane di Sempronio naturalmente: buffi (anti)eroi incastonati fra le pagine polverose della legge. C’è anche una morale? La tematica di questa tornata è “l’intruso”. Alcuni di voi potranno aver pensato che Mevio sia l’intruso, col suo fare accidentale e risolutivo. Altri che l’intruso è Sempronio, dato che viene nominato solamente per questioni di statistica. I più arditi avranno ritenuto invece Tizio come l’anomalia. Egli infatti è troppo diverso dai comuni mortali, troppo malvagio e indifferente ad alcuna conseguenza di ciò che combina. Agisce in modo quasi animalesco. Oppure l’intruso è Caio? Caio il debole o Caio il buono? Personalità indecifrabile la sua. E se gli intrusi fossero invece i due studiosi? All’interno della biblioteca lo erano di certo, ridacchiando su codeste idiozie anziché sudare sui libri come quegli altri. Oppure (“ovvero”, ndr), a ben vedere, l’intruso non è il singolo personaggio. L’intruso è il racconto. In effetti, che diavolo ci fa un racconto del genere in un concorso di scrittura? Questa è una morale? No. Questa è una storia. Una storia quasi vera. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
L'Argomento è stato bloccato.
|
L'IMPORTANZA DEI MECCANISMI DELLA IONIZZAZIONE NELLA SPETTROSCOPIA
Vedi? Lo vedi che sei un cazzone? Ti lamenti che con le donne non hai successo, e quando ti capita una possibilità fai 'ste cazzate tremende. Sei l'Egidio Calloni della gnocca. Ieri sera con quella stava filando liscio e la riaccompagnavamo a casa. Tu e lei, e dietro io con Andrea. Ci siamo trovati in quella situazione, orribile, incredibile, sembrava il peggiore film thriller, quante persone conosci che abbiano trovato un uomo decapitato in mezzo alla strada? Se, come dici, stai solo pensando a conquistarla, potevi far volgere la cosa a tuo favore no? Dopo lo spavento iniziale comprensibile ci siam oripresi quasi subito, lei no. Era li ferma come un passerotto con un ala rotta, fragile, indifesa, voleva solo un abbraccio o una parola dolce, un sussurro carezzevole. E tu che dici? Ahahah, chissà quali saranno le cause del decesso? Ridendoci da solo. Ma dai cacchio, una come quella quando ti ricapita? Bella anzi bellissima, dolce, sensibile, appena mollata da uno scemo, ma come ti e venuto in mente? Boh, non lo so, forse fai bene tu a prendere le cose in maniera leggera, con quel tuo ..e vedremo dai. Ma sì dai, chi se ne frega. Tutto non è importante, ma come fai? "Penso troppo e vivo male" cantava uno, ed aveva ragione. Ma però come puoi ignorare la realtà, hai visto dove siamo arrivati? Non ti capita mai di pensare che stiamo andando indietro? Parlo dell'umanità, ma dove stiamo andando? Siamo dei parassiti Massi... siamo il male del mondo. Prendiamo ciò che vogliamo, che ci serva o meno, senza chiedere, senza pensare alle conseguenze, e la terra con noi sopra ha più poco da vivere, per questo ogni tanto ti dico Forza Maya, venisse la fine dell'umanità almeno questo pianeta vivrebbe. Scusa eh... ogni tanto divago, ma è un tema che mi sta cosi a cuore che lo infilo dappertutto, sempre più spesso ultimamente. Mi piace parlarne con te, sei sempre attento e ci sei sempre quando un amico vuole fare due chiacchiere, grazie anche di questo Max, di esserci sempre. Ma torniamo alla bambola di ieri sera, a proposito, dopo che ti ha mollato lo schiaffo le sei andato dietro o sei tornato a casa? Io li con i carabinieri che facevano domande sono rimasto bloccato un paio d'ore. Pronto, Massi, ci sei? Non ti sento più... Oh... Massi... Aspetta che ti richiamo. Tu tu tu tu... ... Tuuuuu, tuuuuu... Pronto signora sono Lorenzo, buonasera. Stavo parlando con Massimiliano e deve essere caduta la linea, al cellulare non risponde, me lo può passare? Ciao Lorenzo. Massimiliano non c'è, è uscito da una decina di minuti, ha lasciato il cellulare sul tavolo. .... Ah grazie. ... ... ... Forza Maya. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Il viaggiatore indeciso
Bob si appoggiò con la schiena alla parete volgendo lo sguardo intorno a sé. La costruzione in cui aspettava di essere ricevuto era un elegante palazzo di diversi piani. Era nella sede principale di una casa produttrice di calzature a Ginevra; leggenda voleva che quella costruzione comprendesse in sé la piccola bottega che quel posto fu fino a un centinaio d’anni prima, quando il mondo era più semplice e l’uomo meno megalomane. Gli uffici eleganti si susseguivano lungo corridoi dalle pareti di cristallo, tanto che passando davanti si poteva vedere la gente impegnata nel febbrile lavoro che è conosciuto nel mondo come uno degli attributi degli svizzeri. “Ehilà, Bob!” lo salutò amichevole una voce. Era Hector, impiegato nella sede e suo amico. Aveva il solito sguardo divertito di chi sembra sfottere perennemente e bonariamente il prossimo; Bob ricambiò allegro il saluto. “Che ci fai qua? Mica dovevi andare in vacanza in Messico?” “No, non sono più andato, ma è da un pezzo che avevo deciso in realtà… Avrò dimenticato di dirtelo. Qui devo sbrigare un paio di affari”. La discussione proseguì con i suoi convenevoli; Hector sembrava avere da fare e lo salutò, sempre sorridendo e lasciandolo alla sua attesa. Passarono alcuni altri minuti di attesa per Bob, sempre la schiena appoggiata al fondo di quel lungo corridoio; le stanze sembravano creare uno strano gioco di specchi che allungava a dismisura gli spazi. “Ehilà, Bob!” lo salutò nuovamente amichevole una voce. Era ancora Hector, lo sguardo sempre sornione e divertito. “Che ci fai da queste parti?” “Hector, ma mi prendi in giro?” Chiese Bob, fin troppo consapevole dell’ovvietà della sua domanda; infatti l’accompagnò con un sorriso altrettanto ammiccante. “Ci siamo salutati poco fa!” Hector lo guardò sinceramente stupito. “Poco f… O cazzo”. Il suo sguardo si fece improvvisamente teso e preoccupato. “Sei assolutamente certo che fossi io?” Chiese con forza. Senza capire Bob sorrise ancora, instupidito. “Certo che sì!” “Io non ti ho visto… Questo è veramente un cazzo di problema” “Ma ti dico che mi hai salutato Hec, ti senti bene? Non sei un po’ giovane per l’Alzeihmer?” “Vieni con me” fece Hector prendendolo per il polso e iniziando a correre. “Ricordi esattamente che ora era quando ci siamo incontrati?” Fece, la voce ansimante di paura e della corsa. “Ma, sarà stata una quindicina di minuti… Ma mi spieghi che succede?” Rispose Bob, sempre stupefatto. Per tutta risposta Hector infilò di corsa in una porticina nascosta alla fine di quello che sembrava un ramo morto dell’edificio ed entrò in una piccola stanza; decine di scarpe di mille fogge erano appese alle pareti. “Ti presento la vecchia bottega” disse veloce. “Ora tu aspettami qui, torno subito” continuò dirigendosi verso un grande globo nero e lucente che sembrava levitare al centro della stanza. In quel momento vi fu un piccolo bagliore da quello stesso globo e da lì comparve… Hector! Bob rimase ad osservare i due Hector identici, fermi immobili a guardarsi a bocca aperta. “O cazzo, allora è più grave del previsto!” fecero in contemporanea. “Bob!” esclamò il nuovo Hector guardando l’amico. “Non l’hai incontrato, vero?” Fece rivolto il vecchio Hector, che scosse il capo lentamente. “Qualcuno vorrebbe spiegarmi cosa cazzo sta succedendo qui?” Fece il giovane, non sapendo a quale dei due Hector dovesse rivolgersi. “Ebbene sì, è ora di spiegare immagino… Ma c’è poco tempo, quindi dovrai accontentarti di una cosa veloce. Innanzitutto io sono Hector A, cosicché tu possa fare distinzione tra noi; lui è il B, ed è quello che tu hai conosciuto sino ad ora”. Hector A trasse un profondo respiro. “Devi sapere” cominciò “che tutto il mondo ignora qualcosa si molto importante”. Fece una nuova pausa, come per decidere da dove fosse opportuno cominciare. Si decise. “Tu cosa credi che sia questo posto?” “Be, il palazzo che è sede di un’industria di scarpe” fece Bob, spiazzato come chi non è più nemmeno troppo sicuro di come debba chiamarsi. “Sbagliato” continuò il suo interlocutore. “Quella delle scarpe è da tempo una copertura. Vedi, questo posto è qualcosa di molto più grosso. “Anni fa, e ti parlo dei primi anni dell’undicesimo secolo, fu rinvenuta una gemma enorme, dal valore inestimabile.” Guardò il grande globo che levitava in mezzo alla stanza, e anche gli altri due vi si volsero. “Per qualche ragione chi la trovò non la incastonò in una corona, né la intagliò: la nascose quaggiù, in quella che ai tempi era la bottega di un povero calzolaio, e qui è rimasta per un millennio. Alcuni studiosi l’analizzarono per secoli; erano chiamati alchimisti –sì, quelli della pietra filosofale; accettarono di essere derisi dal mondo con quella storia ma non se ne curavano dell’oro. Vedi, con metodi arcaici e insieme complicatissimi riuscirono a captare tracce di vita dentro questa pietra”. Tacque qualche istante per ammirare quasi compiaciuto lo sguardo dell’amico, poi riprese. “Negli anni vennero sviluppate tecnologie estremamente avanzate anche per lo standard attuale, tecnologie tenute nascoste per studiare questa pietra; lentamente si prese coscienza che al suo interno qualcosa viveva, non sapevano dire cosa però. Un giorno qualcuno ebbe l’intuizione: questo globo era il nostro stesso universo, come replicato infinite volte al suo interno. Una specie di matrioska. E i capi di stato quando lo seppero ebbero paura di cosa potesse significare una sua distruzione; ti sei mai chiesto perché la Svizzera non è mai stata coinvolta nemmeno nella più piccola battaglia nella storia moderna? “Ecco, noi non conserviamo il nome di colui che –più o meno quando esplose la Rivoluzione Francese- ebbe questa intuizione; oggi sappiamo che c’è andato più vicino di quanto fosse lecito immaginare”. “Ma quindi voi… siete alchimisti?” chiese Bob. Era talmente stupefatto da questa storia che non aveva potuto trovare una domanda più intelligente; del resto sentiva di dover rompere il silenzio con una qualsiasi domanda. “Se così vuoi chiamarci, sì” fece Hector B abbozzando un mezzo sorriso. Evidentemente l’aver ritrovato la parola aveva fatto bene a Bob, perché la domanda successiva fu sensibilmente più intelligente: “Ma se l’universo è una matrioska, perché ci sono due Hector? E… E ci sono anche due me?” Hector A gli rispose: “Come ti dicevo chi ha ideato questa tesi ci è andato vicino, ma non ha indovinato. Da quando fu formulata questa teoria dai risvolti inimmaginabili il passo successivo è stato cercare di capire come poter viaggiare fuori da questo mondo; ancora una volta gli studiosi più geniali le hanno pensate tutte, fino a che qualcuno ha elaborato una tecnologia capace di attraversarla, di andare di là. Io stesso non ho la minima idea di come funzioni ma, ebbene, funzionò. E funziona.” “E fu così che si intuì tutto quanto: un piccolo gruppo dei nostri padri andò di là –continuò Hector B- e trovò il mondo esattamente come l’aveva lasciato. Un mondo identico al nostro. Solo che quella gemma era bianca. “E qualcosa di incredibile si presentò ai loro occhi: un mondo tanto identico al nostro da ritrovarsi davanti agli occhi gli stessi colleghi che avevano attivato il macchinario per farli partire. Ma non erano loro. Insomma, questo è quello che fu scoperto: un mondo perfettamente identico al nostro. E –ancor più incredibile!- quando i nostri tornarono qua, fu loro raccontato che fino a pochi secondi prima qui c’erano stati esattamente loro, il loro stesso gruppo, capisci? Due mondi comunicanti in cui gli eventi scorrevano in perfetta sintonia, identici! Puoi immaginarti quando questa scoperta sia stata incredibile”. “Ma perché non lo sa nessuno?” chiese ancora Bob. “Ecco –intervenne Hector A- decidemmo (ovviamente in contemporanea di qua e di là) di non rivelarla. Troppo grande era il rischio: pensa se qualche pazzo avesse distrutto il globo, entrambi gli universi sarebbero finiti. Si decise di mantenere la copertura e di far finta di nulla, facendo un viaggio dall’altra parte ogni 2 anni per un saluto all’altra dimensione”. “Capirai ora” fece Hector B “il mio stupore quando hai detto di avere incontrato Hector A: io non ti ho incontrato. Qualcosa di incredibile è successo” “I due universi si sono disallineati” fece Hector A. “Ed è grave?” “Solo supposizioni. Del resto supponiamo soltanto che esistano due universi e non infiniti comunicanti perché le due gemme hanno colori opposti. E supponiamo un’altra cosa.” “Si è sempre ipotizzato” gli fece eco Hector B “che qualora i due universi si fossero disallineati, uno sarebbe andato verso la vita e l’altro verso la distruzione”. “Ma come è stato possibile il disallineamento?” “Non sappiamo dirlo. Sei appassionato di fantascienza? Se tu potessi tornare indietro nel tempo e calpestassi un insetto, questo potrebbe cambiare le sorti della storia. Potrebbe essere successo qualcosa del genere che per qualche ignota ragione non si è replicata nell’universo gemello, qualsiasi cosa; ora i due mondi divergono, come puoi vedere anche dal fatto che io e il mio alter ego ci siamo incontrati: avremmo dovuto essere sempre uno di qua e uno di là, ma tu forse lo hai rallentato –per la cronaca, di là sei effettivamente in vacanza in Messico, vedi che ricordavo bene. Uno dei due mondi viaggia verso la distruzione… Non è dato sapere quale” Fece Hector A guardando per terra. “Ora sai tutta la storia” continuò sempre Hector A “E per quanto possa sembrarti incredibile ti assicuro che è tutto vero. È ora necessario che io torni di là, bisogna prendere una decisione ed è bene porre fine a questo paradosso dimensionale” disse guardandosi come riflesso nel suo alter ego. E in uno schiocco fu di là. “Incredibile…” disse Bob, ancora allibito. “Già, deve essere dura scoprire tutto in una volta. Ad ogni modo ora c’è una sola cosa da fare” disse Hector B andando nel retrobottega e facendone presto ritorno con un grosso martello. “Questa gemma non si può scalfire nemmeno con il diamante, ma gli studi di secoli dicono sia molto fragile”. “Ma che fai!?” esclamò Bob quando Hector B alzò le braccia per colpire la gemma. “Se la distruggi il loro universo verrà distrutto, e con esso il nostro!” “Questo era vero fintanto che i due universi erano allineati; ora non è più così e a noi non dovrebbe succedere nulla”. “Ma come? E non pensi a quei poveretti?” “Bob, se non distruggo la gemma uno dei due universi finirà –non sappiamo quale. Sai in cosa consiste la fine dell’universo? Se fosse il loro a finire il nostro non finirebbe direttamente dato il disallineamento; tuttavia le due gemme sono ancora –pur debolmente- collegate: questa diventerà incandescente al punto tale da fondere il nostro pianeta. Se invece distruggiamo la gemma il loro universo andrà in mille pezzi, e tanto farà anche questa gemma; credo tuttavia che noi ci salveremo, non essendo più il nostro destino vincolato al loro a filo doppio. In sostanza il legame tra le gemme –e dunque tra gli universi- dovrebbe andare alleviandosi, fino a sparire. Ma credo che già ora sia abbastanza debole da permetterci di sopravvivere se la nostra gemma si distrugge. L’effetto si propagherà di certo di là, ma è probabile che non rimbalzi di qua. “E comunque l’unica cosa che possiamo fare è distruggere la gemma; infatti questa è anche l’unica cosa che possono fare loro, perché è ciò che massimizza le possibilità di sopravvivenza del proprio universo. O noi o loro amico mio”. Dopo questa spiegazione Hector B levò nuovamente le braccia quando un rumore come di cristalli in frantumi invase tutto attorno a loro. Hector B abbassò il martello. “Troppo tardi, sono stati più rapidi” fu tutto ciò che riuscì a mormorare prima che quel baccano infernale sovrastasse tutto ciò che era. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
L'Argomento è stato bloccato.
|
|