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Se l'ignoranza della natura diede vita agli dei, la sua conoscenza li distruggerà. (Paul Henri Thiry d'Holbach)
Il Crepuscolo degli Dei è il settimo tema di questa quarta edizione di UniVersi. C'è tempo fino al 31 Dicembre 2012 (compreso) per postare i propri elaborati. Ricordo che è ammesso un solo racconto per autore. Se al 31 Dicembre non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine ultimo sarà prorogato al 15 Gennaio. Se al 15 Gennaio non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine definitivo e improrogabile sarà portato al 31 Gennaio. I racconti vanno postati in forma anonima (gli autori saranno svelati a fine concorso, dopo le votazioni) effettuando il login con l'account "Titivillus", password "universi". Ricordatevi di controllare il numero di caratteri prima di postare. I racconti che supereranno i 12000 caratteri (spazi compresi) saranno considerati fuori concorso (il titolo non conta). NB: per ragioni ancora da chiarire, probabilmente dovuti alla formattazione di caratteri speciali e di punteggiatura, il conteggio dei caratteri differisce di poco a seconda di dove viene effettuato. A tale scopo fa fede il conteggio effettuato sui racconti una volta postati in questo thread. NON dalla schermata di scrittura in "crea/modifica messaggio" e NON direttamente da Word prima di averlo copiato qui. Ricordatevi anche di postare un sottotitolo per la vostra opera. Non mancano più tanti concorsi, ormai, alla fine di UniVersi 4. Il tempo del Ragnarok, la battaglia finale per il destino dell'UniVerso si avvicina. Ma lasciate a casa spade ed elmi cornuti; questa è una battaglia che va combattuta con penna e calamaio! E allora dimostrate di meritare il Valhalla e cercate di sopravvivere al... Crepuscolo degli Dei! REGOLAMENTO COMPLETO RACCONTI IN GARA
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"Le Poète est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l'archer; Exilé sur le sol au milieu des huées, Ses ailes de géant l'empêchent de marcher."
Ultima modifica: 31/01/2013 16:38 Da Tavajigen.
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Il raggio verde Atto I Scena I [1861, Nepal - “Il mare di ghiaccio”] ISABEL Oh, Edward! Il professor Irwin aveva ragione: è uno spettacolo di rara bellezza! EDWARD Sì, Isabel. E’ bello quasi quanto la sua giovane osservatrice. Scena II [1851, Inghilterra, Londra – Casa Surtees] ISABEL Professore! Quanto tempo è passato! PROF. IRWIN Isabel! Vi ho lasciata che eravate poco più che una bimba… e cosa ritrovo? Una splendida fanciulla, se posso osare. MR. SURTEES Una splendida fanciulla in età da marito, aggiungerei. Non è così, Edward? EDWARD Certamente, signor Surtees. ISABEL Qual buon vento professore? Riuscirà a trattenersi a Londra per qualche tempo? PROF. IRWIN Purtroppo temo di no, mia cara. I miei studi hanno sì portato i primi frutti, ma c’è da fare ancora molto lavoro. Ho giusto il tempo di raccogliere qualche invito per salutare i vecchi amici, come Suo padre. MR. SURTEES Vedo che il Suo tempo è denaro, professore. La prego di aggiornarmi sulle scoperte che tanto l’hanno tenuta lontano dall’Inghilterra. PROF. IRWIN Incomincio subito. Prima però mi pare che stia arrivando il tè. CAMERIERA Domando scusa, signor Surtees. Il tè è servito. MR. SURTEES Grazie, Dorothy. Pensiamo noi a servirci. Lasciate pure qua. La prego di continuare, professore; non vi interrompete proprio sul principio. PROF. IRWIN Bene. Come sapete sono stato quasi cinque anni lontano dal continente; il più del tempo l’ho passato nelle Indie Occidentali. La scoperta di cui ci avevano parlato non ha nulla a che vedere sopra quello che ho intenzione di raccontarvi. Il nostro studio sui monsoni ha appena superato la fase embrionale, se mi consentite la metafora. Per lunghi periodi, ovverosia nelle stagioni non monsoniche, siamo stati ad analizzare i dati raccolti attendendo che riprendesse la stagione monsonica: debbo riconoscere che più di una volta mi sono chiesto come mai avessi accettato un compito così ingrato, non potendo tornare in Inghilterra per i motivi che ben conoscete e che hanno a che fare più con la burocrazia che non con la scienza. MR. SURTEES E’ un mondo, quello burocratico, in cui non tutti riescono a destreggiarsi con naturalezza. PROF. IRWIN Com’è vero, com’è vero! A ogni modo, l’ultimo semestre è capitata la cosa a cui ho appena accennato. Mi ero recato a Ceylon, anch’essa colonia dell’Impero, naturalmente. Durante la navigazione ho avuto la possibilità di contemplare uno dei tramonti più belli da tanti anni a questa parte. Ecco, appena un istante dopo che il sole era tramontato sulla linea dell’orizzonte marino, dal basso è balenato un raggio verde appena percettibile, proprio in corrispondenza del sole oramai sepolto nel mare; sarà stata una frazione di secondo: un alito di luce è nato e svanito come una fiamma che sospira per l’ultima volta. ISABEL Che cosa affascinante! E’ un fenomeno visibile solamente in quei luoghi? PROF. IRWIN No, Isabel. A quanto pare questo raggio verde è documentato fin dall’antichità, in Asia Minore: parliamo di millenni. Nessuno, tuttavia, è mai riuscito a spiegare il fenomeno scientificamente; ma c’è dell’altro. Appena sbarcati in porto, ho veduto due pescatori indigeni confrontarsi a voce alta. Mi sono avvicinato incuriosito, chiedendomi quale fosse il motivo di tanta animosità. Il nostro accompagnatore – mio e dei miei assistenti – mi spiegò che avevano visto anche loro il raggio verde e che uno dei due giurava che aveva già avuto modo di conoscere quel fenomeno perché, tanti anni prima, gliene aveva parlato un viandante dell’etnia degli sherpa che era giunto a Ceylon dal lontano Nepal. MR. SURTEES La questione si fa intrigante e intricata. PROF. IRWIN E’ così. Mi sono deciso a parlare direttamente con quel pescatore, attraverso il mio accompagnatore interprete s’intende, per chiedergli dettagli sulla questione. Questi si dimostrò estremamente cordiale e ci raccontò che in Nepal c’è un altopiano che i locali chiamano “Il mare di ghiaccio”. Ebbene, questo nome così evocativo non è stato dato a caso. Pare che la distesa bianco-azzurra, al calar delle tenebre, si colori di un profondo blu per via delle particolari ombre che le montagne gettano su di essa; tutto questo lo fa somigliare davvero al mare: e non a un mare qualsiasi. Capita infatti che si possa contemplare spesso il fenomeno appena descritto del “raggio verde”, in corrispondenza dell’orizzonte, non di acqua, ma di ghiaccio, perfettamente levigato. In alcuni casi ancora più rari pare sia addirittura possibile percepire un “raggio blu”, ma qui è certo facile inciampare nel sentiero della leggenda. Anche, e soprattutto, perché questi flebili raggi che scaturiscono dal morire del sole rappresentano per le popolazioni locali una cosa ben precisa: l’eco delle grida degli Dei incastonati nel ghiaccio. Si racconta che le divinità del passato, dopo essere state sconfitte, fossero state esiliate sotto “Il mare di ghiaccio”, prigioniere per l’eternità. La sofferenza è così atroce che le grida di disperazione di queste divinità, al calar del sole, ogni tanto riescono ad affiorare attraverso lo spesso strato di ghiaccio, producendo questo raggio. ISABEL E’ una cosa tanto terribile quanto suggestiva. MR. SURTEES Non mi dirà, professore, che un uomo di scienza come Lei possa credere a simili superstizioni. Inoltre, se Lei stesso ha veduto il raggio a Ceylon, significa che le divinità sarebbero prigioniere anche sotto il mare? PROF. IRWIN Il mio parere è irrilevante, mio caro amico. Là dove la scienza non può dare una risposta o ancora non è in grado di darla, è bene che i suoi rappresentanti siano più inclini ad ascoltare che non a parlare. E’ con questo spirito che mi sono avvicinato a quel pescatore, che non mi dava l’impressione, peraltro, di essere tanto più superstizioso di tanti altri scienziati che conosco. Tornando al nostro discorso, quell’uomo, dopo che ci fummo congedati, sembrò ricordarsi di un ultimo fatto e ci apostrofò da lontano: eravamo già distanti per la verità e non posso garantire che il mio interprete abbia ben inteso. “Il crepuscolo degli Dei” pare che abbia detto. Così viene chiamato quel fenomeno in Nepal. EDWARD “Il crepuscolo degli Dei?” E’ un’espressione che si riferisce al crepuscolo in senso stretto o in senso figurato, come canto del cigno delle divinità del passato? PROF. IRWIN A dire la verità non lo so. Vi ripeto che non sono nemmeno sicuro che il mio accompagnatore abbia tradotto correttamente. A ogni modo credo che le due letture, più che entrare in conflitto fra di loro, si completino a vicenda. Ed è bello pensare che anche i locali contemplino ambedue le interpretazioni. Atto II Scena I [1807, Nepal - “Il mare di ghiaccio”] SHERPA (Nonno) Coraggio, nipote. Dobbiamo rincasare prima dell’imbrunire. SHERPA (Nipote) Sono stanco, nonno. Non possiamo riposarci solo un po’? SHERPA (Nonno) No, non possiamo. Di notte è pericoloso avventurarsi in montagna, anche per chi come noi conosce bene questi luoghi. SHERPA (Nipote) Ma solamente un attimo! SHERPA (Nonno) No; forza, resisti. Non ci manca poi così molto. E poi non è solamente una questione di luce e tenebra: di notte non è saggio aggirarsi attorno a questa distesa di ghiaccio. SHERPA (Nipote) Perché, nonno? SHERPA (Nonno) Per via degli spiriti demoniaci rinchiusi sotto il ghiaccio. Di notte si possono sentire le loro voci, le loro grida. Si può perfino vedere la luce che emettono attraverso la spessa distesa: è una luce verde, che è il colore della speranza, l’ultima cosa che resta loro. Ma in certe occasioni, quando a contemplarla è una persona dal cuore dalla purezza incontaminata, accade che la luce assuma una tonalità più vicina al blu. SHERPA (Nipote) Ma non possono scappare, vero? Chi li ha rinchiusi? E’ stato Tathagata? SHERPA (Nonno) Non è stato Tathagata, non temere. Nessuno li ha rinchiusi. E’ stato il tempo a farli sprofondare pian piano sottoterra. SHERPA (Nipote) Il tempo? SHERPA (Nonno) Sì. Vedi, quando il tempo ci sorpassa, che noi siamo uomini o Dei, animali o alberi, montagne o fiumi: non siamo più come eravamo sempre stati. Smettiamo di esistere non tanto al momento della nostra morte, quanto quando il tempo inizia a dimenticarci. E se per le cose mortali questo non rappresenta un problema, lo è invece per le divinità, che non possono morire. Essere dimenticati, pur essendo costretti a vivere in eterno, è la sofferenza più grande che esiste al mondo. SHERPA (Nipote) Non capisco bene, nonno. Se sono immortali allora perché gridano? Non possono scappare? SHERPA (Nonno) Sei ancora troppo piccolo per cogliere tutto. Dai tempo al tempo e, come d’incanto, un giorno nella tua mente tutto si schiarirà. SHERPA (Nipote) Un giorno partirò per un lungo viaggio e scoprirò tutte le cose che sai tu e tante altre ancora! SHERPA (Nonno) Certo che lo farai. Intanto, ecco che si vede il tetto di casa. E’ già questo un piccolo punto di arrivo. Scena II [1936, Svizzera - Grindelwald, Campo base parete nord dell'Eiger] ANDY Bella notte, amico. TONI Bella, in verità e, a vederla da lassù, dovrebbe essere ancora più bella. ANDY Prima, mentre sistemavo la tenda, ho visto una cosa davvero strana. TONI Che cosa? ANDY Mi è parso per un attimo che il sole, scendendo sull’orizzonte, emettesse un raggio blu! TONI Un raggio blu? Ma che dici mai? Hai sempre voglia di scherzare tu! ANDY Non sto scherzando affatto! Ma può darsi anche che sia stato ingannato da uno strano gioco di luci. TONI E sia. Questa notte partiamo, non c’è nemmeno una nuvola e il cielo è un tappeto di stelle: il raggio blu che dici di avere visto non può che essere di buon auspicio. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 24/12/2012 16:53 Da Titivillus.
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Atoro
Giovanni attaccò il telefono e si portò le mani al volto, afflitto da un improvviso timore. Dopo neanche un secondo si ricordò chi era e tornò padrone delle sue emozioni. Antonio si era accorto della sua incertezza - gli era sempre accanto e non gli sfuggiva mai niente - ma, prima ancora che potesse aprire bocca, Giovanni gli disse: "Antonio, le notizie che giungono da Washington sono, come dire...inaspettate. Ho bisogno di incontrarmi con alcuni amici sparsi per il mondo; mi devi trovare i numeri per contattarli, e il più in fretta possibile per favore." Antonio ubbidì, come aveva sempre fatto. --- Li vide entrare nella sala, uno per uno, ognuno con il suo seguito. Era la prima volta che Giovanni li ospitava nella sua dimora, a dire il vero non sapeva neanche bene se si fossero mai ritrovati tutti insieme; alcuni sì, certamente, lui stesso ricordava i meeting a cui avevano partecipato i suoi predecessori, ma questa volta non mancava proprio nessuno. Del resto la situazione lo imponeva, decisamente. Attese pazientemente che gli invitati sedessero intorno al tavolo (un lungo tavolo rettangolare, purtroppo non erano riusciti a trovarne uno tondo abbastanza grande) e sperò che nessuno si mettesse a puntualizzare su chi fosse a capotavola e chi no, una cosa veramente priva di importanza in un momento delicato come quello. Quando tutti furono comodi calò il silenzio e le decine di teste si girarono verso di lui, dandogli il compito di cominciare quella storica riunione. Giovanni aveva già deciso la sua linea di condotta: non voleva influenzare nessuno con le sue parole, quindi avrebbe esposto i fatti così come li conosceva, per poi dare la parola agli altri. Pertanto si schiarì la voce e cominciò a parlare: "Fratelli miei, sono onorato di avervi tutti qui al mio fianco in un momento difficile come questo. Innanzitutto vorrei scusarmi con voi per non avervi spiegato nel dettaglio la motivazione del nostro urgente incontro e per avervi chiesto di presentarvi con così poco preavviso, ma, come presto capirete, la situazione è di estrema emergenza." Giovanni si prese qualche secondo per trovare le parole giuste, incrociando lo sguardo di tutte quelle persone a lui così estranee, come fattezze, come costumi, come modi di vivere. "Quello che sto per dirvi potrebbe cambiare radicalmente le nostre società, le nostre culture, le nostre religioni, la nostra intera vita. Questa mattina mi ha raggiunto al telefono il presidente degli Stati Uniti d'America e mi ha rivelato che nella notte scorsa è avvenuto il primo contatto: un velivolo di origine extraterrestre è atterrato in una base militare americana." Non appena i traduttori riferirono le sue parole, un mormorio si diffuse tra gli ospiti. Giovanni continuò a parlare: "Dal velivolo è uscito un...un essere, di forma umanoide a quanto mi ha riferito il presidente. L'alieno ha richiesto subito un incontro con tutti i capi di stato del mondo, incontro che è già avvenuto questa mattina, e un successivo incontro con tutti i capi religiosi, che avverrà tra esattamente mezzora, in questa sala." Il mormorio si trasformò in putiferio. Giovanni attese qualche secondo, poi si alzò in piedi. "Fratelli, per favore, un po' di calma! Cerchiamo di parlare uno alla volta." Appena fu tornato il silenzio, si alzò un uomo con carnagione olivastra; una kefiah bianca gli copriva la testa. Era il califfo arabo scelto come rappresentante dell'Islam dagli imam che divulgavano il loro credo al miliardo e mezzo di musulmani presenti sulla Terra. Il suo linguaggio fluente e pieno di articolate aspirazioni venne istantaneamente tradotto in italiano da uno dei traduttori in collegamento con Giovanni tramite l'auricolare che aveva nell'orecchio destro. "Che cosa vuole questo alieno da noi? Dobbiamo temere per la nostra sicurezza?" Giovanni rispose: "L'essere ha solo detto, testuali parole che mi hanno riferito, che vuole "portare conoscenza", nient'altro. L'incontro di questa mattina con i capi di stato resta segreto anche per noi, ma so per certo che non ci sono stati incidenti, anche se devo dire che avevano preso misure di sicurezza molto elevate. La mia proposta è di accoglierlo qui, in questa stanza, dimostrandogli tranquillità e pace, come del resto lui ha dimostrato a tutti scendendo da solo su questo pianeta a lui estraneo. Voglia il Signore decidere il nostro destino. Se invece qualcuno di voi preferisce avere l'incontro in sede più sicura, sarò felice di soddisfare le vostre richieste." Sembrarono tutti convenire con la sua proposta; si apprestarono quindi a ricevere l'ospite in quella stessa sala, togliendo il grosso tavolo e le sedie e disponendosi su alcuni divani posti a semicerchio. La mezzora passò fra liturgie, canti e preghiere, ognuno cercava nel proprio dio (o dei) la sicurezza, il coraggio, la concentrazione necessarie all'incontro che poteva cambiare la storia del mondo. Giunse il momento: Antonio avvertì che l'essere era arrivato e attendeva di entrare in sala. Giovanni fece un ultimo giro di sguardi, poi gli chiese di aprire la porta. L'extraterrestre era davvero umanoide, anche se molto più alto di una persona normale; Giovanni ipotizzò che raggiungesse i due metri e mezzo di altezza, vedendolo chinarsi per passare sotto la porta. Era avvolto in una sorta di tunica marrone scuro, con un ampio cappuccio abbassato che rendeva invisibile il volto. Teneva le braccia conserte davanti a sé, nascondendo l'eventuale presenza di mani, e più che camminare sembrava avanzare sospeso da terra, dato che il suo movimento era innaturalmente fluido; la lunga veste impediva però di averne la certezza. A Giovanni ricordò subito la rappresentazione di un druido celtico, o anche (e qui un brivido lo attraversò) la classica immagine della morte, priva però di falce. Si alzarono tutti in piedi e ognuno di loro, a turno, diede il proprio benvenuto. L'alieno attese paziente e immobile che tutti finissero di parlare, poi comunicò con loro; con tutti contemporaneamente, dato che entrò nelle loro teste, nei loro pensieri, superando istantaneamente qualsiasi barriera di diversità di linguaggio. "Terrestri, il mio nome è Atoro3742 e vengo da un pianeta orbitante intorno alla stella che voi chiamate Mintaka, facente parte di quella che voi chiamate Costellazione di Orione. La rappresentazione che vedete di me è stata scelta per venire incontro alla capacità dei vostri sensi, sia in termini fisici che in termini di dimensioni dello spazio; la mia vera natura sarebbe infatti a voi incomprensibile. Il mio compito-vita è di raggiungere tutti gli esseri evoluti della nostra galassia per informarli su quello che la nostra specie ha scoperto nei suoi 3.674.251.000 anni di storia. Le nostre sonde ci hanno informato che la vostra razza ha da poco superato la soglia di conoscenza che abbiamo fissato millenni or sono, siete dunque pronti a capire. Le informazioni disponibili vanno dalla creazione dell'universo alla nascita della vita, dalla strutturazione di una società perfetta alla medicina più evoluta. Qualsiasi domanda vogliate farmi, sarò pronto a rispondervi." Detto questo, l'essere liberò la mente dei suoi interlocutori e restò silenzioso, in attesa. Giovanni cercò di mantenere il controllo di se stesso, dopo la drammatica esperienza provata nel sentire un intruso dentro la propria testa. Pensò alle parole che l'alieno aveva detto e in un istante capì l'enorme portata di tutto ciò; capì perché l’estraneo aveva voluto parlare sia con i capi di stato che con i capi religiosi della Terra: le informazioni che portava potevano essere la fine di tutto, non solo dal punto di vista politico-economico, ma anche e soprattutto da quello religioso. Improvvisamente realizzò che forse l'essere poteva ascoltare anche tutti i suoi pensieri; quindi, senza aspettare un attimo di più, prese la parola: "Atoro, ti ringrazio a nome mio e di tutti i presenti in questa sala per la possibilità che ci stai dando, a questo punto ti chiedo se per favore e in amicizia puoi concederci qualche minuto per riflettere fra di noi sul da farsi." L'alieno non rispose, si limitò a girarsi e a uscire dalla sala, fermandosi fuori ad attendere di essere nuovamente convocato. Giovanni chiese ad Antonio di chiudere le porte, preparandosi alla discussione che di lì a poco avrebbe sicuramente animato la riunione. --- Era domenica mattina e come ogni ultimo giorno della settimana Papa Giovanni XXVII° stava completando gli ultimi riti prima della celebrazione della messa in mondo visione, come sempre assistito nella preparazione dal suo fedele camerlengo Antonio. Questa era però una domenica diversa: era la prima domenica dopo la riunione. Scorrevano ancora davanti ai suoi occhi le scene della discussione con le altre autorità religiose del pianeta, la sofferta decisione comune di rifiutare l'offerta del visitatore alieno, per la paura di quello che sarebbe potuto succedere. Atoro si era semplicemente limitato ad ammettere un errore di valutazione nei confronti della razza umana, dichiarando poi di rinviare l'offerta a una data lontana nel futuro. Aveva lasciato il pianeta di lì a poco, con due rifiuti in due riunioni, dato che anche i capi di stato avevano scelto di non fare domande, come Giovanni seppe in seguito dal presidente degli Stati Uniti. Giovanni giunse le mani e cominciò a pregare, ma la sua mente non era più tranquilla come un tempo; avrebbe impiegato mesi, anni, forse una vita intera, a dimenticare la possibilità che aveva avuto, anche solo per un momento, di porgere ad Atoro l’unica domanda secondo lui meritevole di essere posta, l'unica domanda a cui da solo, con la sua fede, aveva sempre risposto con sicurezza, ma che ora, visto la paura che aveva provato al solo pensiero di porla, lo permeava di dubbi: Esiste un Dio? |
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Ultima modifica: 01/01/2013 14:23 Da Tavajigen.
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Universi & Co.
L'addetto DaFfg si occupava del reparto Est del negozio di Universi & co. da poco meno di un anno. Non stava facendo un buon lavoro e lui lo sapeva. Ma, peggio ancora, avevano cominciato a scoprirlo anche i suoi superiori. In verità, il lavoro, era piuttosto facile. Non bisognava far altro che verificare che il reparto non si espandesse a scapito degli altri. Gli addetti VyRyg, BwSyr e Qa_er rispettivamente dei reparti nord, sud ed ovest cominciavano ad esserne stanchi. Loro erano centinaia di anni che facevano quel lavoro, centinaia di anni che contenevano l'espansione dei loro settori in maniera egregia e pareva impossibile che soltanto lì ad est, non ci fosse soluzione praticabile. A dire il vero, tanto DaFfg, quanto i suoi predecessori, le avevano provate tutte. Ma non c'era verso. Quello era un reparto maledetto. All'interno di quel milione di milione di miliardi di galassie, stelle e pianeti ci doveva essere qualcosa che spezzava la monotonia del controllabile finendo inevitabilmente per espandersi come una bomba impazzita. Si videro costretti ad interpellare i superiori che, a loro volta, interpellarono altri superiori che, a loro volta, ne contattarono altri ancora. Ci volle del tempo prima di risalire la piramide. Alla fine arrivò una comunicazione: Al prossimo crepuscolo, gli Dei dei quattro reparti, si riuniranno in seduta straordinaria. Vogliate gentilmente fornirci tutti i dati necessari della suddetta espansione incontrollata al fine di procedere in maniera rapida ed efficace. Risulta evidente che necessitiamo di una soluzione quanto prima. Lo spirito di DaFfg che apprese la notizia, quasi s'evaporò. Per fortuna, i colleghi addetti, non erano così cattivi. In fondo, la concorrenza, non era un ingrediente né una peculiarità del negozio Universi & co. Il motto: "Affinché tutto proceda bene..." faceva capire che tolto il proprio compitino, altro non c'era da fare. Così lo aiutarono ricostruendo miliardi di anni di storia dagli archivi con tutte le misure precise del reparto Est. La documentazione fu pronta in pochissimo tempo e immediatamente inviata. Il crepuscolo dominò la scena, come d'abitudine, per parecchie ore. Al mattino seguente gli addetti, i superiori degli addetti e tutti i superiori dei superiori avrebbero finalmente appreso la decisione degli Dei. Il comunicato fu lapidario: Il settore est va resettato. Comporterà parecchio lavoro da parte nostra riprogettarlo interamente ma non v'è soluzione alternativa. Probabilmente, al momento della sua programmazione, qualcosa deve esserci sfuggito. Forse una distrazione, peggio ancora uno scherzo dei programmatori dell'epoca, ma c'è un minuscolo pianeta che con il suo modo di fare sta interferendo sull'espansione controllata. Ciò che interferisce è la necessità di questo pianeta di "comprendere l'universo". Questa necessità crea un'energia non prevista che rimbalzando in maniera aleatoria, comporta espansioni potenti e improvvise. Quella che comunemente chiamiamo valanga interplanetaria. Andare a verificare con precisione quale sia questo pianeta comporterebbe un inutile spreco di risorse e tempo pertanto sarà decisamente più facile smantellare tutto, resettare e ricominciare di nuovo. Pertanto ringraziamo l'addetto DaFfg per il rapporto, i suoi superiori e i superiori di tutti i superiori. Da domani possono riposare sonni tranquilli, diradarsi per sempre fintanto che non programmeremo un nuovo reparto Est. Mi auguro che questo non venga visto sotto una luce negativa. In fondo, il diradamento definitivo, è la massima aspirazione d'ognuno di noi. Fortunati sono coloro che riescono ad ottenerlo con così tanto anticipo. DaFfg sentì venir meno se stesso. Poi, seppur flebilmente, prese atto che non c'era più. Poco tempo dopo, tutto era pronto. Gli Dei avevano rilasciato altri comunicati annunciando passo dopo passo come sarebbe stato il nuovo reparto Est. Si diedero tutti appuntamento al crepuscolo: per quel tempo era prevista l’inaugurazione con annesso Big Bang del reparto Est. In fondo, capitava rarissimamente di poter assistere ad uno spettacolo del genere. BAAAAAAAANG! Tutti collegati assistettero a quell'esplosione. Il reparto Est aveva appena cominciato a prendere la nuova forma programmata. |
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Ultima modifica: 08/01/2013 18:03 Da Titivillus.
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LA PATRIA E LA BANDIERA
Chattanooga, Tennessee, 17 Dicembre 1989 Riconobbe la calligrafia del marito immediatamente e la mano incerta prese la lettera un po' tremolante. Non ci sarebbe nulla di insolito nel ricevere una missiva dal proprio amato, se questa non fosse stata spedita venti anni prima. Kim ringraziò confusa il portalettere e ritornò a sedere vicino al focolare, fidato compagno di tutti i momenti quando non c'erano i nipoti a rallegrare la casa, in quell'inverno neanche tanto rigido. Guardò il piccolo pacchetto ancora prima di aprirlo, sul lato frontale c'era attaccato un foglio delle poste firmato da tal dei tali, si scusavano per aver consegnato con tutti quegli anni di ritardo. Erano quattro lettere che Grant le aveva scritto durante la guerra. Una tiepida canzone d'amore veniva mandata dalla radio e con un tagliacarte aprì la prima lettera. Kim, amata mia. Siamo oramai qui sulla sponda di questo fiume da quindici giorni e non è freddo. Siamo tanti e siamo forti! I vietnamiti sono di meno e vinceremo facile questa battaglia. Entro pochi giorni ci sposteremo in avanti per dare l'attacco finale. Una volta sconfitti i nemici proseguiremo ancora lungo il fiume per dare aiuto ai nostri compagni più a nord. Quattro generali ci hanno fatto visita ieri, insieme a tanti altri ufficiali di alto grado. Sono rimasti così colpiti e soddisfatti dalla nostra organizzazione che hanno deciso di fermarsi qui, per godere direttamente della nostra vittoria. Non saranno proprio sul fronte ma rimarranno dietro in sicurezza, è una grande onore per noi combattere con loro vicini. Dicono che quel gruppetto di persone comandano quasi tutto l'esercito impiegato in guerra, e sono qui con noi ora! Ti scriverò, a presto amore mio. Grant. Senza farsi assalire da sentimenti aprì la seconda lettera. Kim, amore. L'arrivo dei generali qualche giorno fa ci ha dato grande energia e siamo pronti a sferrare il primo attacco domani, quando leggerai questa lettera forse avremo già vinto. Pensa che ieri mattina un generale mi ha elogiato, si proprio a me, a me! Ma ci pensi? Eravamo in adunata e ha fatto il mio nome, mi ha chiamato ad uscire dallo schieramento e mi ha fatto i complimenti per il mio comportamento davanti a tutti, mi ha pure dato la mano! Non so perché proprio io, forse il Capitano gli ha dato il mio nome. E poi tutti a farmi i complimenti e a darmi delle grandi pacche sulle spalle, qualcuno dice che avrò un futuro militare, gli altri ragazzi mi chiamano Generalino. Ti scriverò amore, mi manchi. Kim poggiò la seconda missiva sopra il foglio della prima per aprire la successiva. Amore mio, La battaglia non è andata come speravamo, l'attacco è stato potente e forte come sapevamo di poter fare, ma i vietcong erano tanti e molto organizzati, sapevamo che erano un pugno di uomini mal forniti, invece non era così. Molti mezzi sono stati abbattuti, ci sono molti feriti e ci sono state anche delle perdite, alcuni di questi ragazzi non faranno più ritorno alle loro famiglie e questo ci ha dato un duro colpo. Lo scoramento inizia a farsi sentire e quel clima di invincibilità dei primi giorni è soltanto un ricordo. Molti hanno paura di non tornare più a casa, anche io ogni tanto ci penso ma non ti preoccupare, sono forte e presto ti riabbraccerò. Grant. Era giunto il momento dell'ultimo foglio, lo lesse. Kim, dopo un paio di giorni dal nostro fallito attacco i nemici ci hanno subito contrattacco, non ce lo aspettavamo. Si sono infilati tra le nostre truppe con molta facilità ed abbiamo subito gravi perdite. La grande euforia è stata sostituita dalla speranza, ci siamo attaccati a lei ora. Hanno sempre respinto i nostri successivi attacchi con facilità e ora siamo quasi accerchiati. Non possiamo fare molto, ma ci batteremo con tutte le forze. Ti vien da pensare più di quanto dovresti in questi momenti. Questa guerra dove ci si ammazza tra ragazzi non serve a niente ma lo capisci solo quando sei con le spalle al muro. Quando sei in pericolo di vita allora ti domandi tante cose e comprendi che non ha senso quello che stiamo facendo, non ha senso. Stare qui nel fango a provare a uccidere un'altra persona che non hai mai visto nella tua vita e che non ti ha fatto niente. E tante altre cose sul valore della vita che finché ti senti un Dio non puoi capire. L''amore per la patria, l'orgoglio, la bandiera, sono solo cazzate. Da circa un paio d'ore gli ufficiali che ci erano venuti a vedere sono qui con noi in trincea. Un gruppo di vietnamiti ci ha attaccato di sorpresa da nord, proprio sul lato dove c'erano loro e sono scappati a gambe levate venendosi a rifugiare qui, in mezzo a noi. Venivano considerati come divinità, li vedessi ora. Paurosi come il peggior vile, sobbalzano ad ogni rumore e ti chiedono cosa fosse stato, mentre con una mano ti toccano un braccio o una gamba per cercare sicurezza. Uno prega! Sta li da mezz'ora a testa bassa e farfuglia non so cosa. Un altro piange e urla come il più pazzo dei pazzi. Qui non ci sono Dei, non ci sono mai stati, e se c'erano ora sono in ginocchio accanto a me, un agricoltore del Tennessee di diciotto anni. Attaccheranno questa notte Kim, e non ce la faremo. Spero che tu possa un giorno leggere questa lettera. Ti amo. Grant. La porta si aprì pochi secondi dopo, era Grant. Notò il saluto innaturale della moglie, che le mostrò da lontano quei fogli e le corse incontro con una lacrima appena scesa. Riconobbe subito le lettere, mentre la stringeva ripensava a quel periodo di guerra. A lungo rimasero abbracciati in silenzio. |
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Dialogo tra un filosofo e un pescatore
L'uomo camminava mestamente lungo la costa attica, presso Eleusi. Lo sguardo perso e la schiena curva indicavano un animo deluso, pareva uno spettro che s'aggirasse in cerca di qualche vittima da tormentare. La notte stava ancora governando su di un giorno che prometteva cielo limpido e brezza primaverile. Aveva con sè un sacco vuoto che si trascinava appresso, lasciando una sottile scia sul terreno; le povere vesti mostravano la sua umile condizione. I pescatori della zona lo guardavano con disinteresse, intenti a preparare le piccole imbarcazioni in tempo per la prima luce del giorno. Ignoravano che quello sconosciuto viandante fosse uno di loro. Il giovane uomo si dirigeva verso la grande metropoli attica, la dotta e ricca Atene. Da lì avrebbe poi superato il porto del Pireo, per arrivare infine al suo rifugio sulla costa, antistante la piccola isola di Egina. Egli apparteneva alla categoria dei paralii, gli abitanti della costa. In breve tempo il primo sole si affacciò a scaldare la terra sotto i suoi calzari, mentre in lontananza poteva già notare l'oscura sagoma dell'acropoli ateniese. "Eppure, nessuno si è preoccupato di me quando la grande guerra ci ha portato via casa e barca. La grande e potente Atene con la sua Lega navale...solo il potere vogliono! E il sangue dei poveri onesti!" pensò l'uomo in un impeto di passione. Ma a poco valeva scaldarsi tanto: gli dèi avevano parlato, il suo destino era scritto. Il suo sguardo tornò a fissare stancamente la confusa linea dell'orizzonte, dove il grande disco dorato ricordava agli uomini la loro miseria e piccolezza. Avvicinandosi al centro politico ed economico dell'Ellade il pescatore osservava l'opulenza di Atene sotto forma di un fiume di persone in movimento, e il sangue ribolliva nelle sue vene. L'ultima invasione dei barbari aveva distrutto la sua casa, ma non aveva rimpianti per questo. Quella fu l'epoca in cui gli elleni si erano uniti, divenendo parte di una stessa civiltà la cui esistenza era stata minacciata dalle infinite armate del potente tiranno persiano. Il sacrificio era stato grande, la vittoria memorabile. Non scorderà mai quei giorni lontani in cui il padre aiutava gli ateniesi ad evacuare verso Egina. Il grande Temistocle aveva deciso di sgombrare la città, seguendo il consiglio di un oracolo che gli aveva parlato di una possibile "salvezza entro mura di legno". Era stato anche il legno della barca di suo padre a salvare decine di cittadini ateniesi dal terribile attacco delle truppe di Serse. Un altro oracolo pendeva ora sul capo del povero pescatore, un'oscuro presagio senz'ombra di salvezza che colmava il suo cuore di timore e rabbia. Imprecò contro il suo destino infame. Quasi a ricordargli l'onnipresenza degli dèi, un'improvvisa folata di vento rubò il sacco dalla sua presa distratta lanciandolo verso il centro del sentiero. Finì dritto in faccia ad un sacerdote di Apollo che stava transitando. Il pescatore si affrettò a scusarsi, liberando il religioso dall'impolverato disturbo. Questi afferrò il sacco e guardò l'uomo con aria irata, puntandogli l'indice verso il naso. -Stà attento a dove cammini, tu che intralci il passo agli officianti del dio! Allontanati, prima che la freccia poderosa ti stramazzi al suolo- recitò il sacerdote. Il malcapitato esitò qualche istante, stupito della sua sfacciata sfortuna. L'altro stava per inveire ulteriormente, ma fu interrotto da una voce chiara e suadente che proveniva dalle spalle dell'accusato. -Parli della freccia scagliata dal potente arco del dio che servi? Pensi davvero che il grande Febo, che ci illumina con la sua luce, si disturbi per un sacco di tela portato dal vento?- Il sacerdote rimase impietrito, col braccio sospeso a mezz'aria. Fissò con disprezzo il suo nuovo interlocutore. -Suvvia, grande sacerdote, non abusare del favore che il dio ti accorda per avvilire la vita altrui. So che la tua sapienza è grande, faccene dono mostrandoti gentile- Così incastrato tra la giusta osservazione e il complimento, l'accusatore non potè far altro che cedere. Si rassestò le vesti, porgendo egli stesso il sacco vuoto al legittimo proprietario. -Prendi, e conservalo con cura. Che la luce di Apollo ti guidi e ti protegga sul tuo distratto cammino- disse, allontandosi mentre fissava sospettoso il nuovo arrivato. Il pescatore si voltò, riavutosi dallo spavento, trovandosi di fronte un uomo gracile e brutto, dall'aspetto quasi selvaggio. La tunica bianca lasciava intravedere un corpo abbronzato e peloso, che reggeva una testa barbuta dai tratti sgradevoli. Eppure il sorriso era mite e benevolo, lo sguardo attento e pieno di vita. -Grazie...- riuscì a dire, cercando di non mostrarsi troppo sorpreso. -Prego. Hai l'aria di chi ha preso una batosta, posso offrirti un cordiale ristoro? Siamo poco distanti dalla mia casa, il tempo di scambiare qualche parola- Il pescatore rimase fermo qualche istante, avrebbe voluto scappare e tornare in fretta da sua moglie. Ma c'era qualcosa in quell'uomo che gli trasmetteva sicurezza: una sorta di calma, nel dire e nel fare, che pareva avvolgerlo di un'aura benigna. Acconsentì d'istinto, affiancandosi allo sgraziato salvatore. -Vieni, ti mostro la strada- I due uomini camminavano in mezzo ad un vero e proprio cantiere all'opera. Dopo la vittoria sui persiani Pericle in persona aveva infatti avviato una serie di maestose opere pubbliche, come le nuove mura che stavano sorgendo davanti ai loro occhi. -Atene vive il suo successo, eppure noto che non tutti gli ateniesi sono soddisfatti. Allora dimmi, cos'è che ti affligge?- chiese il suo ospite. Il pescatore non era ancora del tutto convinto, ma il peso che portava dentro rischiava di farlo impazzire. Sentiva il bisogno di aprire il suo cuore a qualcuno. Si fermò all'ombra fresca di un grande albero, ai piedi di una collina. -Mi hai incontrato sulla via del ritorno dall'oracolo delfico, dove mi sono recato per avere consiglio e guida: in cambio ho ricevuto invece previsioni terribili- -Vuoi dirmi cosa ti ha detto l'oracolo? Io non sono un sacerdote e nemmeno un indovino, ma penso che gli oracoli siano sempre ambigui ed ognuno li interpreta secondo la predisposizione dell'animo suo- -Devi sapere che sono pescatore, figlio di un pescatore. Subisco ancora gli effetti della guerra e non so come risollevare le nostre sorti. Mio padre diede tutto alla causa di noi ellenici, ma ne lui ne io abbiamo ancora ricevuto la giusta ricompensa- -Il tempo corrompe il ricordo delle grandi gesta, come la ricchezza corrompe l'uomo retto. Eppure so che Pericle si sta battendo per dividere equamente l'immenso bottino. Abbi fede in lui e in ciò che ti dico- L'uomo sospirò tristemente guardando il cielo, urlando al vento la sua impotenza. -Perché, Zeus Eleuterio? Perché ci hai condannati ad un misero destino?- -Non rivolgerti a chi non può sentirti. Se un dio ti ha parlato dalla bocca della Pizia, il suo dovere è svolto. Ricorda cosa dice la scritta nel tempio di Apollo, che per me vale più di ogni altro oracolo: oh uomo, conosci te stesso e conoscerai l'universo degli dèi- -Allora se dici questo, ascolta cosa mi è successo e poi valuta la mia triste situazione. Ho pagato la tariffa salata e mi hanno condotto all'interno del tempio. Sono stato nella stanza attigua a quella interna, in cui la Pizia parlava nell'estasi della rivelazione, avvolta dai fumi esalati dal fondo della terra. Tanti altri erano con me in trepidante attesa, ma ben pochi hanno colto, attraverso le spesse pareti, il messaggio. Quasi tutti han dovuto attendere l'interpetazione dei sacerdoti di Apollo. Dopo qualche ora uno di essi mi è venuto incontro dicendomi gravemente: "Non sfidare la fortuna. Sacrifica un capro al mese, per tanti mesi quanti sono gli anni del tuo figlio maschio. Se non lo fai, non osare tornare a chiedere, tu ingrato, il consiglio di Febo. Vattene ora"- L'altro se ne stette in silenzio, attendendo paziente l'immancabile proseguo. -Ma come faccio a sacrificare capri se non ne dispongo? E non avendo ancora un primogenito, son forse destinato alla disgrazia? Me misero! Forse è meglio non tornare a casa, il triste fato perseguiterà me lasciando intatti mia moglie e la creatura che porta nel grembo!- L'uomo gli offrì allora un pezzo di pane preso dalla saccoccia, e iniziò a parlare col suo fare pacato. -La mia dimora è poco distante, ma non voglio esaurire le tue deboli energie. Ascolta: gli dèi hanno un loro modo di esprimersi ed agire nel nostro mondo, tale che l'uomo non può conoscere. Coloro che cercano di capire il mistero di tutte le cose fanno azione vana e superba- -Ma il dio mi ha chiesto un sacrificio che io non posso dargli!- piagnucolò l'uomo, tra un morso e l'altro. -Tu hai sentito la voce del dio? O piuttosto quella del sacerdote? Non hai tu ammesso di non aver udito chiaramente le parole della Pizia? Non essere sciocco, amico mio- Parve che il giovane fosse ristorato dalle parole del saggio di fronte a lui. Perchè saggio e colto quell'uomo pareva essere. Come il pane gli riempì in parte lo stomaco, così il discorso riportò nella sua anima una parvenza di pace. "Che sia un essere divino? Il suo aspetto ricorda quello di un satiro, i selvaggi officianti dei riti bacchici..." -Non fissarmi a quel modo, son conscio della mia bruttezza. Và oltre l'aspetto, cogli la giustezza di ciò che dico. L'uomo può solo prendere atto di ciò che gli accade intorno e capire come comportarsi nel modo migliore. Questa è la virtù. Il nostro campo di azione è il nostro stesso limite, come dice la scritta sul tempio: conoscere sè stessi significa essere in armonia con gli altri e con l'universo- -Non offenderti, ti stavo fissando per un dubbio mio proprio. Ciò che dici è giusto e mi rincuora, ma il sussurro del dio pare accompagnarmi lungo il cammino...- -Allora tappati le orecchie, oppure canta con allegria. Non dico di non essere turbato, dico di esserlo per motivi più concreti. Hai mai ricevuto risposta alle tue preghiere? Hai mai ricevuto un segnale davvero forte della presenza di un dio ai tuoi sacrifici? Pensaci- Il giovane si rese conto della banale realtà che l'uomo gli prospettava. Era come se il semplice discorso di uno sconosciuto avesse creato un abisso incolmabile tra la sua quotidianità e quell'Olimpo che aveva sempre temuto, ma quasi mai percepito realmente. -Gli dèi vivono in un mondo loro, lontano dal nostro. Il vero errore l'hai fatto tu, portando le poche ricchezze che avevi per ascoltare un sacerdote che chissà cosa ha sentito; te lo dimostra il fatto di non avere figli maschi, può anche essere che quelle parole fossero destinate ad altri. I sacerdoti si spacciano per onnisapienti e custodi di verità, io dico che spesso sono colti ma mai sono saggi: la vera saggezza è l'esser consci della propria ignoranza, e cercare di ridurla il più possibile nell'arco della vita. Non paragoniamoci agli dèi onnipotenti, siamo solo uomini- -Oh saggio amico, quanta verità in ciò che dici! Te ne prego, dimmi cosa fare...- -Io ti posso solo indicare la strada, sta a te percorrerla con decisione e coraggio. Ascolta: segui la tua ragione e null'altro, ch'essa è la vera scintilla divina che si trova in noi. In questo modo gli dèi ci parlano davvero, grazie alla nostra facoltà di discernere. Te lo ripeto, giovane pescatore: conosci te stesso, e capirai cosa fare per il bene tuo e dei tuoi. Lascia ai presuntuosi le grandi verità, vivi sereno e sii virtuoso- Il pescatore si alzò con piglio serio, mosso da nuova forza. Tese il braccio verso il saggio ancora seduto, lo aiutò ad alzarsi e gli strinse la gracile mano tra le sue. -In tale subbuglio di emozioni non ho nemmeno avuto l'accortezza di presentarmi. Sono Milziade, in onore del grande generale. E ti ringrazio di tutto- -Grazie a te per l'esperienza che mi hai trasmesso. Sono Socrate, e ti saluto- |
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Pietoso è l'arrancar che ha nome vita
<Non ci riesco>. Ormai quel soffitto mi è familiare: alto e liscio, color dell’avorio, si accompagna perfettamente all’eleganza ricercatamente semplice, piana della stanza. Non troppo larga –né troppo piccola-, è arredata con cura, i mobili hanno i lineamenti rassicuranti di qualche manciata di decenni fa. Sotto di me si distende forse il più grande stereotipo del ventesimo secolo: il divanetto allungato di pelle scura, lucida e appena sgualcita che permette di identificare al di là di ogni ragionevole dubbio la professione dell’uomo che mi siede vicino. <Coraggio, si concentri> <Ma non riesco a partire dall’inizio. Intendo dire, cose del genere nemmeno ce l’hanno un inizio, sono solo un maledetto fluire di eventi di cui si diventa consapevoli all’improvviso> <Le ho già detto che non importa quale sia stato l’inizio. Mi riporti quello che per lei è l’inizio, l’evento, anche solo l’immagine che le ha fatto capire quanto stava succedendo. Dobbiamo sbrogliare questa matassa, da qualche parte si deve iniziare>. La legna profumata scoppiettava allegra nell’alto focolare; tutto attorno era calore, e colore, e gioia immotivata e per questo insuperabile nella sua dolcezza. In un solo scatto riapro gli occhi che mi si erano chiusi e ruoto lateralmente la testa verso di lui. Il doppio della mia età e il doppio dei miei menti, la sua faccia gioca sul contrasto tra la rotondità e la rigida squadratura degli occhiali sottili. La pelle è nello stadio in cui va per afflosciarsi e ricordare meno fedelmente le ossa del volto; i capelli lucidi e pettinati da un lato riverberano la luce che arriva di taglio dal lampadario. Quell’uomo sembrava nato per fare lo psichiatra anche nei modi, sempre garbati e delicati, e nella voce lenta e solenne, da cui traspariva appena una nota d’indagine. La sua correzione è tutt’altro che stupida, per quanto mi secchi dargliela vinta. Quando si è sotto analisi la persona che ti aiuta è a tratti un amico, ma molto più spesso diventa un nemico sadico e sembra che provi gusto a rigirare il coltello nella piaga, a riportare alla mente i ricordi più tetri che uno nasconde nella propria mente; è davvero innervosente rendersi conto di quanto spesso abbia ragione, di come riesca a ricondurre la supposta unicità della propria mente a modelli sempre uguali e del tutto ordinari. Richiudo gli occhi e lascio che la mia memoria torni indietro. Ci vogliono numerose sedute solo per riuscire a pensare al passato, per superare il vero e proprio dolore fisico che si prova. Quello che per me è l’inizio. “Ero al mare, in Sicilia. Per l’esattezza era un grande villaggio turistico sulla punta sud-occidentale, distante da qualsiasi centro abitato. È una sorta di oasi in un deserto di agrumi, una prigione dorata: dentro la vita, fuori è già tutto dimenticato. Questo genere di posti mi ha sempre dato una forma di claustrofobia a pensarci; credo che gli astronauti della stazione spaziale provino una sensazione simile, solo che loro sono a testa in giù. Era una giornata uguale a tutte le altre, calda e secca. Era pomeriggio credo. Ricordo che eravamo in una delle piscine: la spiaggia era piccola e troppo ventosa, impraticabile davvero. È stata la prima volta che mi sono accorto che qualcosa non andava; più che altro una sensazione sgradevole: lei gli aveva rivolto la parola in modo stranamente sgarbato, come piccato”. Fuori la neve ha fatto dimenticare al mondo dei suoi colori, ricoprendolo con il suo manto elegante e spesso. La notte sembra giorno, illuminata a festa dalle luci del cielo terso e dal candore generale. Mi si riaprono gli occhi <Coraggio, il più è fatto! Ora deve solo lasciare scorrere gli eventi. Ma la prego, non usi più pronomi: niente lei, niente lui, deve dire i nomi. Lo so che è più difficile ma –mi creda- è davvero necessario>. “Casa mia non è tanto grande: se uno ascolta la televisione in una stanza si sente anche dall’altra. In realtà è inesatto dire che è piccola: semplicemente è raccolta su sé stessa, come appallottolata, quindi quello che succede da una parte è come se succedesse un po’ ovunque. È difficile dire come, ma mi sono ritrovato a vivere la stessa scena ogni giorno. Tutte le volte sapevo che loro si sarebbero comportati così” Mi sta fissando, lo so anche se ho gli occhi chiusi. Non è questione di paranoia, è il suo lavoro. Li sento proprio addosso i suoi stupidi occhialetti squadrati, ora respira anche più piano. Devo dire che provo quasi piacere a prolungare questo silenzio, fingendo di pensare. Se riesco a stare zitto fino alla fine della seduta poi me ne posso andare a casa. So cosa vuoi, strizzacervelli dei miei stivali. Ebbene, ecco a te! Ti do una ragione più che valida per essere così stupidamente tronfio! “Loro, i miei genitori. Mia madre e mio padre.” Deve essere così caldo, là dentro. Qui fuori fa freddo ed è buio, e i pini imbiancati hanno qualcosa di spettrale. A tratti si sente un ululato, e un altro risponde più lontano. “Ogni sera li sentivo litigare. Sulle prime parlavano più piano, sembravano sibili e non capivo bene quello che dicevano. Stavano bene attenti che io e mia sorella dormissimo –io facevo sempre finta, come avevo imparato a fare alla Vigilia di Natale- e poi iniziavano. Con il tempo i litigi si facevano più lunghi e più aspri, i toni più tesi; facevano sempre meno attenzione a non farsi sentire, come chi acquisisca destrezza con una qualsiasi operazione e la sappia replicare con sempre maggior facilità e sempre minor cautela. Ho scoperto un sacco di cose: lui aveva un’altra. Mio padre dico. Non capisco nemmeno perchè stessero lì a litigare. Sono arrivate le urla, sempre più frequenti. Mia madre lo provocava. Mio padre sulle prime era sereno, rideva, anche se erano risate di scherno. Poi iniziava a rispondere a tono, a urlare. Poi usciva, quando avevano finito, e mia madre piangeva. Sentire piangere un genitore è qualcosa di agghiacciante. Odi la ragione per cui piange, certo, ma odi anche lui. Io odiavo entrambi: mio padre per quello che faceva, mia madre perchè piangeva. Era un dolore anche mio, che bisogno c’era di rimarcarlo? Perchè farmene nuovamente? È come se quando muore una persona cara qualcuno ti telefona per farti le condoglianze e tra i convenevoli ti racconta di nuovo, per filo e per segno, il modo in cui è morta. Ma lo so già! Non c’è ragione di ripeterlo! Poi è arrivata la sera che se n’è andato definitivamente via di casa. Hanno litigato come sempre, e mia madre era particolarmente acida. Stavano dividendosi degli oggetti credo, il fondo di un qualche cassetto. Solite schermaglie, solite provocazioni e risposte a tono. Poi le botte. Quella è stata l’unica volta che veramente sono stato lì lì per intervenire. Una cosa del genere mai era successa; almeno, mai che io mi fossi accorto. È durata poco grazie a Dio, poi lui se ne è andato. Botte in realtà non erano state, almeno credo, perchè non c’erano lividi, ma quanto sa amplificare le cose la mente di un dodicenne sconvolta dalla paura! Più che altro una specie di avvertimento, per così dire”. Ha vinto lui. Lui, lo psichiatra. Ho vuotato il sacco, ho un groppo in gola, mi sento anche peggio di prima. Ha ottenuto quello che voleva da me, ora sa tutto. Sto con gli occhi chiusi perchè ho paura che la luce troppo forte del lampadario li faccia lacrimare, potrebbe fraintendere. Prima o poi parlerà. Stavolta parlerà lui, io non dico altro. Non c’è nulla di più pauroso della solitudine, nulla che più faccia male. E la razza più meschina della solitudine è quella che sa colpire anche in mezzo alla gente, quella che non teme il neon delle insegne e il baccano della compagnia. La sua voce, perchè non parla? Lo psichiatra, perchè non parla? Apro un occhio lentamente, non voglio che veda. Sta scrivendo. La stilografica corre veloce sul blocco, lo graffia appena. E poi alza gli occhi, alza gli occhi e mi sorride. Perchè sorridermi? Lui è lì a fare il suo lavoro, io a farmi torturare. Cosa c’entra in tutto questo un sorriso? La sua voce è ora distesa. Non lo sto ascoltando in realtà, sono ipnotizzato da un ricciolo che è sfuggito alla brillantina e dondola ritmicamente sulla sua fronte, appena spostato sulla destra. Continua a parlare e colgo a malapena qualche frammento: “normale”, “famiglia”, “ascoltare”. Mi prende la mano. <Stai sereno>. Così, come una sassata. Da quando mi da del tu? E da quando il suo lavoro è parlare così, e sorridere? È solo marketing? Mi ritiro su, mi sento ancora più stanco che dopo le altre sedute. Non riesco nemmeno a trovare la manica della giacca. Una stretta di mano, un saluto e un sorriso forzato e si torna fuori, verso la vita, verso la realtà. |
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Ultima modifica: 25/01/2013 22:57 Da Titivillus.
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Il gigante, il cavaliere, il vecchio saggio, il nazareno, l’assassino e il cantastorie
Da parte mia avevo continuato a raccontare delle storielle che rubavo da un brutto libro che cercavo di nascondere nella bisaccia, che era anche l’ultimo rimastomi e che tutti ormai mi avevano sgamato. Avevo tenuto anche un diario e su questo scrissi fino alla fine, fino a quella specie di meta, come un Robert Falcon Scott in versione estiva. Il nostro traguardo era il relitto di un’arca, il simbolo di un’era che stava finendo ma i mezzi per sopravvivergli erano ormai inutilizzabili. Tutti ci eravamo sdraiati sull’erba secca o seduti nella polvere come pistoleri che aspettassero l’arrivo della diligenza da assaltare, che sapevamo non sarebbe passata. Al gigante era cresciuta una barba rossa e dura. Erano passate non poche settimane di cammino tra le paludi e le foreste e in quel tempo era diventato un adulto, come del resto tutti quelli che un tempo gli arrivavano alla cintura. A dire il vero ormai non era più alto della media degli altri e un viandante che avessimo incontrato non avrebbe capito perché lo chiamavamo così. Il cavaliere se ne stava con le palle al sole in mezzo alla strada. Aveva lasciato indietro il suo destriero in un castello molti chilometri indietro. Un vecchio castello ormai adibito a convento. Lo aveva salutato attraverso le sbarre del cancello per riprendere la strada con noi, ma adesso sembrava di vederlo seduto là, sull’enorme terrazza davanti l’ingresso del palazzo. E la sera invece di parlare di figa come un tempo sarebbe rimasto in uno degli immensi saloni ad addormentarsi davanti alla partita. Non tutti erano arrivati fino all’arca. Tra gli altri che avevamo perso durante il viaggio, il vecchio saggio era forse quello che mancava di più, nonostante la sua testardaggine e quella sua idea che ormai tutti credevano sbagliata sul moto delle stelle e quant’altro. Rimaneva, purtroppo, il padre di questo che era un vero stronzo e adesso se ne stava seduto al caldo di una pietra e biascicava le sue solite menate per cui non eravamo uguali alla partenza, e non lo saremmo stati al ritorno. Insomma tanto valeva, come diceva sibillino lui, conservare i posti dell’andata. A me faceva tornare in mente le gite scolastiche perché di solito quella frase la dicevano prima del ritorno i “migliori” che si sedevano sempre in fondo al pullman. Tra tutti avrebbe dovuto brillare quel tale con la barba e gli occhi azzurri che invece cautamente si limitava a dire che dovevamo mangiare più verdura e più frutta e poi dividere la carta, la plastica e il vetro. Riguardo quei suoi vecchi cavalli di battaglia sull’amore universale, a chi gli chiedeva se valessero ancora quei principi si limitava a rispondere che, più che altro, era opportuno temere il prossimo e dove fosse possibile cercare di fargli a propria volta paura. L’assassino, che un tempo era stato allontanato dal gruppo ormai lo consideravamo parte di noi. Anzi, malgrado le maldicenze era quello che vestiva e parlava meglio di tutti. Ognuno di noi del resto aveva pensato che se il suo compito era di giustiziare qualcuno, avrebbe dovuto farlo in fretta perché presto qualcuno sarebbe venuto per giustiziare lui. In fin dei conti non erano ormai più un granché nessuno di loro ma ai loro tempi avreste dovuto vederli. Vorrei avere le parole per farglieli ricordare a quanti li hanno dimenticati nel fiore dei loro anni, all’apice della loro potenza. Sembravano tori scatenati capaci di bucare in corsa un sipario come palle di cannone. Ora non sono più quelli e non lo saranno mai più, ma forse qualche poeta dal palco di un teatro di una città sperduta vi potrebbe far rabbrividire ancora una volta, solo per una volta, facendoveli ricordare nel pieno della loro forza, solo per un paio d’ore, per poi riconsegnarveli per come avete imparato ormai a conoscerli, con le loro giacche e le loro cravatte. Certo ve li dimenticherete in fretta ma per Dio, per una sola volta vorrei darvi prova di quello che sono stati, e poi li lascerei alle loro vite così impeccabili e così tradite. |
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Ringraziano per il messaggio: gensi
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Il detenuto
Alcuni anni fa ero impiegato come psicologo, nel carcere della mia città, una delle grandi capitali del Nord industriale. Fin dai tempi dell'università avevo deciso che avrei voluto lavorare con i detenuti. Ritenevo e ritengo che si tratti di una categoria di persone quasi del tutto dimenticata. Non sono mai stato credente, non penso di essere un buono. Semplicemente, nella mia mentalità moderatamente progressista e rivolta verso le cose giuste ho sempre ritenuto che nella vita si debba fare qualcosa di importante per gli altri. Per questa ragione, dopo aver conseguito la Laurea in Psicologia, avevo deciso di entrare nel mondo carcerario e dopo un paio di concorsi ero stato assunto. Avevo seguito il caso di Carlo * sui giornali e alla televisione. Prima ancora di incontrarlo avevo di fatto già pronunciato la mia diagnosi e non mi ero stupito che il tribunale l'avesse definito sano di mente. Pensavo che si trattasse di un uomo crudele e sociopatico ma non di un folle o di un malato mentale. Carlo * aveva ucciso un uomo perché riteneva che si trattasse di un ebreo, sbagliandosi. Da sempre aveva fatto parte di gruppi neo-nazisti. Su alcuni blog aveva inneggiato alla strage norvegese compiuta da Breivik, da altre parti si potevano leggere alcuni suoi commenti sulla shoah, un misto di revisionismo e assurda stupidità. Appena entrato in carcere iniziò a tentare di suicidarsi. Fu in quel momento che mi feci avanti io, tra tutto il personale di supporto psicologico, per potermi occupare di lui. Feci carte false, scambiando favori e turni con i miei colleghi. In quel momento della mia carriera era da circa da dieci anni che facevo lo psicoterapeuta, sempre solo in carcere. Pensavo di essere molto esperto e generalmente i miei colleghi mi stimavano. Mi ero sempre tenuto aggiornato e quel caso mi interessava, non avendone mai affrontato di simili. Sulle prime immaginai che il rimorso lo stesse travolgendo, che i tentativi di suicidio fossero da imputare a una forma di pentimento. Che errore. La prima volta che l'incontrai mi fece una strana impressione. Dalle foto e dalle immagini in televisione sembrava un uomo imponente, muscoloso e fortissimo. Vedermelo seduto davanti fu strano: sembrava piccolo e magro, curvo come se fosse invecchiato prima del tempo. Era in maglietta e le braccia erano muscolose e tatuate come le ricordavo, ma tutto il resto non quadrava con l'idea che mi ero fatta di lui. Non mi guardò mai in viso mentre rispondeva alle mie domande di routine. E continuò così durante le nostre prime tre sedute, nelle quali tentai una serie di approcci da manuale. Solo durante la nostra quarta seduta, quando misi da parte il blocco degli appunti e gli chiesi perché avesse ucciso quell'uomo, al di là del discorso sulle origine ebraiche, alzò lo sguardo su di me e per un attimo i suoi occhi divennero vigili e attenti. “Per esercitare la mia volontà di potenza. Ma lei non può capire, lei un piccolo borghese progressista, attento solo alle cose giuste.” E detto questo abbassò di nuovo lo sguardo. Era stato più bravo lui a capire me in pochi istanti di quanto non fossi stato io con le mie costruzioni a priori. Il silenzio cadde su di noi come una nebbia fitta e ovattata e perdurò a lungo. “Senta, io non voglio soltanto evitare che lei si uccida qua in carcere, non è il mio solo obiettivo. Ovviamente il direttore e le autorità preferirebbero che ciò non accadesse, perché il suo è stato un caso mediatico importante e lei, almeno per un po' di tempo, sarà ancora nell'occhio del ciclone. A me interessa capire perché lei ha fatto quello che ha fatto e perché ora lei stia tentando di suicidarsi. Il suicidio non fa parte delle idee che mi sono fatto di lei.” Alzò di nuovo lo sguardo su di me, ora con autentica attenzione. “Ne è sicuro? Forse alla fine finirà per rivedere non solo le sue opinioni su di me, ma probabilmente anche su di se.” Mi scappò da ridere, fu più forte di me. “Vedo che si sente molto sicuro di se, per un terapeuta deve essere un aspetto fondamentale, non lo metto in dubbio. Ma io leggo in lei un qualcosa che potrebbe stupirla. Vedo che pensa che io sia solo un arrogante. Non lo nego, ma spesso ho visto giusto sulle persone con cui ho avuto a che fare.” E iniziò a parlare. Un autentico fiume di parole cominciò ad uscire dalla sua bocca. Molto di ciò di cui parlammo in quella prima seduta lo sapevo già, avendolo letto sui dossier della procura e sulla perizia medica disposta dall'accusa. Fu sconvolgente notare quante volte citasse il Mein kampf di Hitler. Carlo * era figlio di una ricca famiglia della borghesia nera della mia città. Si trattava di avvocati, notai, professori universitari, tutti specialisti e professionisti nell'ambito legale. Un suo prozio e un cugino del padre erano stati parlamentari per l'MSI, altri parenti avevano militato in gruppi di destra o di estrema destra, e lui stesso era stato uno dei dirigenti del FUAN ai tempi dell'università. Ma si trattava di persone che comunque erano sempre rimaste nell'ambito della legalità o sul bordo, ma nessuno aveva mai commesso un omicidio. Quando lo interruppi per farglielo notare, lui mi sorrise freddamente, con disprezzo e allo stesso tempo con mestizia. “Sì, ma nessuno di loro o anche dei miei amici di gioventù ha conosciuto Lei.” Lei non aveva un nome. Carlo * si era sempre rifiutato di farlo durante il processo, anche se aveva accennato al ruolo di una donna nella vicenda che lo riguardava. L'aveva conosciuta a teatro, durante una delle repliche dell'opera di Wagner La Caduta degli Dei, in seguito tra loro era nata una relazione. “Lei è troppo educato e timorato per poter capire l'importanza di quell'opera e l'importanza di Wagner per chi la pensa come me. Se vuole davvero fare qualcosa per me, ascolti quella musica e poi vada a leggere Il crepuscolo degli idoli di Nietzsche. La prossima volta ripartiremo da qua.” E si alzò in piedi, un istante prima che la guardia carceraria bussasse, visto che era finito il nostro tempo. Rimasi stupito: non l'avevo visto guardare l'ora. Quella sera, a casa, rimasi a rimuginare su quello che mi aveva detto. Monica, la mia compagna, mi trovò strano e me lo fece notare e finimmo per litigare. Acoltai Wagner anche se non amo l'opera tedesca e tanto meno una certa pomposità insita in quel tipo di musica, così germanica e magniloquente, ma dovetti ammettere che non si trattava di un brutto lavoro, anche se esageratamente lungo, per il mio gusto personale. E rilessi anche Il crepuscolo degli idoli, che avevo letto ai tempi dell'università. Nietzsche mi lasciò freddo come sempre. Non lo sopportavo e non sopportavo soprattutto l'uso che era stato fatto in seguito di alcuni suoi concetti, in particolar modo quello di oltreuomo. Sapevo che il filosofo non poteva avere colpe ma in un certo senso lo ritenevo responsabile per ciò che era nato dal suo lavoro, o che mi sembrava fosse nato, fino ad arrivare al nazismo. Incontrai di nuovo il mio paziente. “Da come mi guarda, vedo, che ha eseguito ciò che le avevo detto di fare. Wagner e Nietzsche sono grandi autori comunque, non fa mai male ripassarli.” E ricominciò a raccontare. Si era ritrovato vicino a Lei per caso, seduti accanto in platea. L'aveva notata subito non tanto perché si trattasse di una donna particolarmente bella o affascinante ma per il totale rapimento con cui ascoltava il lavoro di Wagner. Nella donna ricordava, con fare sognante, gli occhi di due colori diversi, e il fatto che il volto fosse leggermente asimmetrico a causa di un incidente automobilistico avuto quando era bambina. Ma era il loro modo di fare sesso che lo faceva perdere nella gioia del ricordo, le loro pratiche sadomaso che spesso finivano per coinvolgere altre persone, almeno il più delle volte. Ma quello che ricordava con maggiore trasporto erano i loro rapporti orali. Vide che lo guardava con perplessità. “Sì, perché solo attraverso la fellatio, una coppia così vicina, come noi eravamo, può esercitare all'unisono la propria volontà di potenza: l'uomo gode rimanendo immobile, passivo ma potente, la donna ha nelle sue labbra l'uomo, ne esercita la potenza e la mancanza di piacere diretto che ha è sostituita e rafforzata dal potere stesso che ha sul suo compagno.” Sull'autobus, andando a casa, rimasi a pensare a ciò che mi aveva detto. Lavorando in carcere avevo sentito di qualunque pratica sessuale, consensuale o meno, fosse possibile in natura, per cui il suo modo freddo e dettagliato di parlare di sesso non mi aveva minimamente disturbato. Il discorso invece sul sesso orale mi attraeva in un modo che quasi sentivo come morboso. Arrivato a casa, sostanzialmente, costrinsi Monica a farmi una fellatio. Non faceva parte del nostro modo modo di fare l'amore e l'averla costretta iniziò, di fatto, il processo per cui finimmo per lasciarci. Tramite un distributore online ordinai il Mein kampf di Hitler. Non volevo entrare in una libreria e cercarlo, ma ormai sapevo di doverlo leggere. Grazie alla spedizione via corriere lo ricevetti in tempo prima della successiva seduta con il paziente. Rimasi schifato da ciò che vi trovai e mi resi conti che le posizioni di Hitler sugli ebrei erano già radicalmente definitive ben prima della dittatura o della soluzione finale. Eppure, alla luce degli elementi che avevo e delle idee che mi stavo costruendo, mi rendevo conto del perché Carlo * fosse così affascinato dal pensiero nazista, perfettamente in sinctonia con le sue pulsioni sessuali, il senso di dominio e l'antisemitismo. Quell'uomo mi faceva schifo, in senso profondo, ma capivo ora cosa intendesse per volontà di potenza. Per lui era un concetto che sorpassava e ricostruiva l'etica, costruendone una non accettabile ma per certi versi coerente. Decisi che la successiva sarebbe stata l'ultima seduta, poi avrei ceduto il caso a un collega, non essendo più in grado di affrontare il caso con imparzialità. Appena entrò nella stanza mi rise apertamente in faccia. Per la prima volta mi diede del tu. “Vedo che stai seguendo le mie indicazioni. Penso che il mio discorso di qualche giorno ti abbia spinto a chiedere alla tua donna un pompino. Bene. E da come mi guardi, stai leggendo i libri di cui parlo così spesso, vero?” La sua risata, si trasformo in un ghigno, violento e sadico. In quel momenti feci una cosa che non avrei mai dovuto fare, lo colpii con violenza al viso. Cadde, tra le risate. Cominciai ad urlare. “Perché ridi? Tutto quello che tocchi lo sporchi, lo rovini. Hai rovinato la relazione con quella donna, hai ucciso in nome di un odio razziale che non ha senso. Adesso pensi di avere alterato il mio modo di pensare, ma ti sbagli. Non sai quanto. E in fondo dov'è la tua grandezza: alla fine hai cercato di ucciderti solo per il rimorso.” Da terra lui mi guardò con dolore e delusione. “Sei come tutti gli altri. Non hai capito niente, idiota, e non lo capirai mai. Non provo nessun rimorso, quell'uomo meritava di morire perché era una nullità e non me ne frega niente di lui o della sua famiglia. Voglio morire perché Lei mi ha convinto che fosse un ebreo, e io ci sono cascato senza controllare. E' venuto meno il mio essere dio, il mio potere sulla realtà, per un errore che io ho compiuto. E' caduto il dio che io sono e tutto è finito. Un dio non si lascia ingannare da una donna.” Si scagliò contro di me e quasi mi uccise. Le guardie carcerarie riuscirono a togliermelo di dosso a stento. Pochi giorni dopo, ero ancora ricoverato all'ospedale, il detenuto riuscì finalmente ad uccidersi, soffocandosi nel sangue dopo essersi spaccato la trachea. Solo alla fine, e probabilmente per l'unica volta nella vita, Carlo * riuscì ad esercitare pienamente la sua volontà di potenza, uccidendosi con determinazione assoluta. Venni invaso da un senso di soddisfazione che in seguito mi fece vergognare, ma che non potei ricacciare indietro. Quando venni dimesso mi licenziai dal mio lavoro. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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