Benvenuto,
Ospite
|
|
Il mare non cambia mai e il suo operare, per quanto ne parlino gli uomini, è avvolto nel mistero (Joseph Conrad)
Il mare è l'ottavo tema di questa quarta edizione di UniVersi. C'è tempo fino al 31 Marzo 2013 (compreso) per postare i propri elaborati. Ricordo che è ammesso un solo racconto per autore. Se al 31 Marzo non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine ultimo sarà prorogato al 15 Aprile. Se al 15 Aprile non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine definitivo e improrogabile sarà portato al 30 Aprile. I racconti vanno postati in forma anonima (gli autori saranno svelati a fine concorso, dopo le votazioni) effettuando il login con l'account "Titivillus", password "universi". Ricordatevi di controllare il numero di caratteri prima di postare. I racconti che supereranno i 12000 caratteri (spazi compresi) saranno considerati fuori concorso (il titolo non conta). NB: per ragioni ancora da chiarire, probabilmente dovuti alla formattazione di caratteri speciali e di punteggiatura, il conteggio dei caratteri differisce di poco a seconda di dove viene effettuato. A tale scopo fa fede il conteggio effettuato sui racconti una volta postati in questo thread. NON dalla schermata di scrittura in "crea/modifica messaggio" e NON direttamente da Word prima di averlo copiato qui. Ricordatevi anche di postare un sottotitolo per la vostra opera. Affrontare il mare è più difficile di quel che sembra. È un luogo immenso e pericoloso, pieno di insidie; ed è necessario essere abili ed esperti marinai per esser degni di affrontarlo. Voi lo siete? E allora levate il tappo... ehm... l'ancora al vostro vascello a forma di penna e veleggiando su un mare di inchiostro dimostrate il vostro valore! REGOLAMENTO COMPLETO RACCONTI IN GARA
|
|
"Le Poète est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l'archer; Exilé sur le sol au milieu des huées, Ses ailes de géant l'empêchent de marcher."
Ultima modifica: 01/05/2013 02:47 Da White Lord.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Nel vento
Il destino aveva giocato con loro come con pochi altri. Stessa spiaggia, una calda mattina di luglio di tanti anni fa, due giovani fratelli sulla riva. Si avvicinarono un ragazzo e tre ragazze, la più intraprendente aveva un pallone in mano. "Partitone?" Il più grande dei fratelli ci mise poco a riconoscere il tormentone che andava di moda in quel periodo. "Perché no?". Rispose con un sorriso. Seguì un'improbabile partita maschi contro femmine, ma soprattutto seguirono la piacevole scoperta di essere tutti della stessa città, una decina di splendide giornate di mare sempre insieme, momenti indimenticabili con la ragazza intraprendente che raccontava storie audaci di vita vissuta mentre il più grande dei fratelli aveva occhi solo per un'altra ragazza, quella più timida del gruppo. Sguardi che lei amava ricambiare... Per loro due ci furono anni passati da amici, a volte frequentandosi ed altre volte perdendosi di vista; mille volti conosciuti, mille errori, mille amori. E ad un tratto si ritrovarono, capendo che il destino non era stato crudele ma astuto: li aveva fatti crescere, proteggendoli da un amore troppo acerbo e con poco futuro. Li aveva fatti sbagliare, li aveva fatti maturare, per poi riunirli, questa volta per sempre. Sono di nuovo lì, sulla loro spiaggia, come hanno fatto in quasi ognuna delle ultime sessantatré estati; prima da soli, poi con i figli e i nipoti. Ma oggi non c'è nessun altro in vista, il cielo è plumbeo e il mare è meravigliosamente in tempesta, in questa fredda giornata di autunno. Silvia sente il peso dell'età, ha sempre più difficoltà a piegarsi, ma stringendo i denti riesce a togliersi prima le comode scarpe senza lacci, poi le calze e i larghi pantaloni. Giunge alla riva, dove le lunghe onde sprigionano senza sosta la loro forza spumeggiante. L'acqua è meno fredda di quello che si aspetta, del resto il mare è sempre un po' tiepido nel periodo successivo all'estate...le scappa un sorriso nel ripensare a chissà quante volte lui glielo avrà ripetuto nella loro lunga vita. Ora le onde arrivano alle ginocchia e Silvia fa fatica a restare in piedi; il riflusso minaccia di portarla via, però non demorde, continua ad avanzare. Ed ecco il vento che le scompiglia i bianchi capelli. Non l'impetuoso vento estivo che ormai ha imparato a conoscere, quello che soffia dal mare, carico di iodio e di promesse da marinai, ma il vento invernale, da terra, che sembra volerla spingere fra i flutti e verso nuove avventure. Silvia lo aspettava: stappa l'urna e ne sparge il contenuto nell'aria, con un deciso movimento arcuato. Le sembra quasi di sentirlo ridere, un'ultima volta, nel vento. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 30/03/2013 09:51 Da Titivillus.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Una marea di punti di vista
C'è una cosa su tutte del mare che adoro. Nessuno riesce a restarne indifferente. Quando compare all'orizzonte, a lato della strada che percorriamo o meglio ancora se si presenta in burrasca attraverso lo scorcio d'uno scostamento di tenda lascia sempre a bocca aperta per qualche istante. Per tanti anni, per me, il mare non è stato altro che le vacanze estive al sud Italia. Poco importava se in verità ci proiettavamo verso un paesino sperduto tra i monti del Pollino. Noi dicevamo di andare al mare anche se poi, in un mese, vedevamo la spiaggia si e no quattro volte. Quella spiaggia, quel mare “piccolo” creato da una insenatura tra gli scogli, quell'odore di pasta al forno in macchina e quella cazzo di anguria che sbatteva a destra e sinistra durante il viaggio erano protagonisti indimenticabili del paradiso mio e di mio fratello. Mio fratello; per 17 anni il mare non è mai esistito senza di lui. Era il nostro momento, il nostro giocare di squadra, il nostro incoraggiarci l'uno con l'altro nell'imparare a nuotare nonostante i nostri genitori ammollassero la loro routine sempre con una ciambella gonfiabile intorno alla vita. Pur non divenendo mai provetti nuotatori riuscimmo nell'impresa. Poco tempo dopo, il mare, si trasformò. Non che abbia avuto chissà quali esperienze amorose. Ma sia quella più importante che l'altra, durata poco più d'una estate, avevano come protagoniste ragazze nate e cresciute in paesi di mare. Stessa regione d'Italia seppur ai confini estremi. Con loro e grazie a loro che ho davvero apprezzato la forza del mare. Non appena mi azzardavo a portarle via, in gita verso le mie origini, il loro volto cambiava espressione. Appena imboccata la rampa che portava al nord e che nascondeva il mare dietro le spalle, un velo di tristezza calava sul loro viso. Una sorta di brasiliana nostalgia. Il sorriso tornava soltanto quando a pochi chilometri dalla prima città di mare, lungo il tragitto del ritorno, uno scorcio blu intenso squarciava prepotentemente il cielo. Quella sadica coltellata del mare rallegrava fin nel profondo l'anima della compagna di viaggio. Il mio mare, invece, è un'altra storia. M'ha adottato da quasi dieci anni e per capirne davvero l'essenza e che traccia ti lascia dentro bisogna provare a stare lontano. Ma non per scelta. Per un esilio forzato dovuto alle situazioni reali che sono sempre complesse e difficili da spiegare. Quello che è facile da spiegare, però, sono le sensazioni. C'è stato un giorno, non più di tre settimane fa, che ho davvero sentito la mancanza del mare. Non m'è mai capitato in maniera così forte. Neanche con la mia compagna di sempre men che meno con i miei genitori. Con le persone è diverso. Forse era proprio la tristezza d'aver salutato la mia compagna di sempre in visita ad aver giocato questo brutto tiro. Resta il fatto che senza un vero motivo, senza una vera meta, mi son fatto ingannare da quel cartello “spiaggia d'oro”. Sapevo perfettamente che oltre quella spiaggia non m'aspettava il mare. Ma mai come quel giorno, la mia testa, aveva bisogno d'illudersi. E per un istante, se non fosse stato per quell'odore così diverso, sembrava davvero funzionare. Il ticchettio della pioggia e l'onda cheta che si ripiegava poco a ridosso del ciottolato sembravano davvero figli del mare che conoscevo. Ma era soltanto il lago, illusione e prigione del mio esilio. Perché il mare, il mio mare, è un luogo dove cerco spesso rifugio quando lo stomaco comincia a ribollire, quando il nervoso e lo stress della vita comune mi assalgono. Prima di gettare la spugna, prima di farmi sconfiggere, prima di perdere la testa chiudo gli occhi e penso al mare. Ma non ad un mare astratto e comune. Penso ad un momento esatto. Un momento idilliaco che ricordo perfettamente. A peso morto, coccolato dal moto tranquillo sopra il fondale dorato d'una spiaggia della Sicilia sud-orientale. Ricordo in maniera indelebile che in quel momento ho provato una sensazione di benessere paradisiaca. Dentro di me continuavo a dirmi: “ricordati ogni cosa di questo momento, dall'odore al rumore dell'onda, dal colore del sole sulle palpebre chiuse al gusto del sale marino misto a granita alla mandorla sul labbro superiore. Ricordatelo, perché questo sarà il tuo rifugio mentale perfetto...” Questo è il MIO mare ma, quando sento la semplice parola “mare”, non nego che il primo pensiero è sempre lo stesso. I versi d'una canzone sconosciuta perché scritti da un mio carissimo amico che non ha mai pubblicato niente. Pur non ricordandoli perfettamente a memoria rimango basito da come, ogni volta, la parola “mare” si trasformi in: Davanti al mare stanno i poeti perché è più grande di tutta una stanza... … e chissà quante te ne nasconde magari il sangue degli italiani sotto il silenzio, sotto le onde ... |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 06/04/2013 00:34 Da Titivillus.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Oltre i confini Diario, mese di Novembre dell’anno di nostro Signore 1521. Isole Molucche Il sottoscritto Sebastiano Del Cano, Pilota della marina spagnola di Sua Maestà Carlo I, Re di Spagna, scrive queste poche righe. Da qualche giorno sono al comando della nave Victoria. Ho deciso di imprimere nero su bianco i restanti eventi di questo assurdo viaggio, ammodo che il mio nome sia ricordato dalla storia. Tre mesi e più sono passati dalla morte di Ferdinando Magellano. Quel portoghese visionario ci ha condotti in un viaggio impossibile, oltre ogni umano confine navigabile. Nessuno aveva osato tanto dai tempi del leggendario genovese. Nonostante il carattere burbero, il coraggio quasi scellerato e la maniacale disciplina, non posso negare di aver servito sotto la bandiera di uno dei più grandi navigatori di tutti i tempi. Mi par doveroso ricordare, in queste brevi e affrettate memorie, il nome di un uomo capace di sognare l’assurdo e realizzarlo al di là di ogni previsione plausibile. Onore a te, Capitano Ferdinando Magellano, che il tuo nome viva nei secoli. Quattro notti addietro abbiamo destituito quel lurido portoghese di Carvalho al comando della spedizione. Senza Magellano la disciplina e la gerarchia sono lontane da noi come le nostre terre d’origine. Una guida salda e forte a questo punto è necessaria. Navighiamo circospetti in acque nemiche, la prudenza è d’obbligo. Sento tensione e insicurezza a bordo, devo dimostrare l’autorità di cui sono capace. Dalla cabina osservo pensoso le calme acque della baia, paiono carezzare la fiancata del veliero; quel tranquillo sciabordio acquieta un poco i miei pensieri confusi. Isola di Ternate Notizia terribile: un portoghese esiliato nelle Indie ha riferito che i galeoni del Re Giovanni ci stanno cacciando per tutte le rotte dell’Oceano Pacifico. La riunione sull’ammiraglia ha sancito che dobbiamo fuggire; ammetto che mi ripugna concedere le terga ai marrani, ma non abbiamo scelta. Scarsa polvere da sparo, pochi inservienti ai cannoni, carico eccessivo: non resisteremmo all’assalto di poche canoe indigene! Abbiamo poco tempo. Partiremo appena sistemati gli ultimi barili di spezie, insieme ad abbondanti quantità di riso e all’oro. Non mi soffermo sui dettagli. Dall’inizio della spedizione, infatti, mi pare che quell’astuto cavaliere vicentino, tale Pigafetta, segni ogni rotta, ogni elemento delle fauna e della flora avvistato, ogni cianfrusaglia scambiata per le merci degli indigeni. Lascio alla sua penna eloquente cifre e tecnicismi, a me rimangano gli eventi e qualche pensiero. Durante le operazioni di carico pensavo a tutta la fatica e ai pericoli corsi per arrivare lì, a quell’allegro andirivieni di canoe e scialuppe in una calma baia di una terra esotica. L’idea che pepe, cannella e chiodi di garofano (più qualche granello dorato) valgano la vita delle decine di marinai inghiottiti dalle nere acque oceaniche è inaccettabile. Ma non si tratta solo di questo, c’è molto di più. Oggi, all’alba della partenza per le nostre amate terre, distanti migliaia di miglia persino dal Capo di Buona Speranza, solo una cosa tiene in piedi me e i pochi uomini di spirito nobile rimasti, ciò che ciba i nostri corpi stanchi e sorregge le nostre anime corrotte: la gloria. Diario del Capitano, mese di Dicembre dell’anno di nostro Signore 1521. Oltre le Filippine Da due settimane governo la Victoria e la spedizione tutta in qualità di Capitano. Ci siamo lasciati tristemente alle spalle l’ammiraglia Trinidad, ferita da infimi scogli nascosti sotto la superficie. L’equipaggio si è diviso per l’ultima volta: metà rimangono a tappare la falla; l’altra metà al mio comando si dirigerà con rotta Ovest-Sud-Ovest. Tutto il carico possibile è stato accumulato nelle nostre stive. Tocca a noi concludere in patria il superbo periplo. Non sono uomo dal carattere sensibile e incline alle fantasie, eppure l’addio è stato commosso. Ci salutammo con fazzoletti sporchi e berretti rotti. Portoghesi e spagnoli, italiani e francesi, fiamminghi e tedeschi si erano odiati sin dal primo giorno, eppure tutti agitarono le braccia al vento. La Victoria, con i suoi quarantasette uomini e i quintali di merci rare, rappresenta l’ultimo baluardo dell’infinito viaggio, e io ne sono la guida. Sento su di me il peso di questi anni passati in mare, senza un punto di riferimento, un porto davvero sicuro. Mesi e mesi in navigazione, settimane intere senza toccar terra, e quando infine caliamo l’ancora nei ricchi porti delle Indie, ci tocca salpare di nuovo. Trinchetto, mezzana e maestra sono spiegate, così fiocchi e velacci. Dal cassero di poppa osservo ciò che rimane dei cinque gloriosi velieri partiti dalla Spagna. Anche le vele paiono stanche di gonfiarsi per menare il legno scricchiolante e lacero. Ma sto vagheggiando. Questo fatto di narrare mi fa pensare troppo al perché e al per come. Sono uomo d’azione e tale devo restare. La rotta è impostata, passiamo al largo di Sumatra e ci fermeremo negli approdi minori. Nonostante le proteste del timoniere, puntiamo più a sud del 35° grado di latitudine. Voglio evitare ogni contatto coi portoghesi, sarebbe la fine. Abbiamo attraversato l’Atlantico ed il Pacifico, ci viene richiesto l’ultimo grandioso sforzo. Diario del Capitano, mese di Gennaio dell’anno di nostro Signore 1522 Ho appena eseguito una condanna a morte. Il cambusiere tramava con altri filibustieri, la peggiore feccia imbarcata dalla Spagna. Con mia sorpresa, debbo porgere sentiti ringraziamenti al cavalier Pigafetta, il quale mi ha prontamente avvertito dei rivoltosi. Posso contare su un nobil uomo in più. Ho deciso di impiccare all’albero maestro il solo cambusiere, non posso perdere altri marinai. Quel corpo che pendola inerte basterà a placare gli animi. Non pensavo che la stupidità umana giungesse a tanto. Gli eventi mostrano che Dio mi ha affidato l’esito della spedizione, come possono pensare di sostituirmi? Uomini che valgono poco più di un mozzo, ringrazino il Padreterno che la navigazione sia fatta poche teste valide e molte braccia! Pare che l’esecuzione abbia portato l’ordine a bordo, o forse è solo l’estrema stanchezza. Bisogna razionare il cibo e soprattutto l’acqua, non so quanto distiamo dal Capo né quali approdi ci siano su questa rotta. La necessità di evitare scontri ci obbliga a solcare acque sconosciute, l’equipaggio è nervoso, l’ignoto è fonte di ogni paura. A questa latitudine i venti sono imprevedibili, difficile governare lo scafo in tali condizioni. Penso a cosa ci aspetta al nostro arrivo, punto alla meta con fermezza, teniamo duro. Diario del Capitano, Febbraio o Marzo Più di sette settimane senza terra. Lo scorbuto è tra noi, altri due ci hanno lasciato, un terzo si è buttato in mare, impazzito. L’acqua nei barili è putrida, nauseabonda, imbevibile. Ne ho serbata un po’ in un piccolo otre, mi pare la cosa più preziosa del mondo. Se lo scoprono mi uccidono. È quasi impossibile dare ordini. Tutti si alternano al timone, i più forti resistono anche un’ora, poi crollano, esausti. La ciurma tiene le poche energie per cacciare i sorci sottocoperta, li mangiano arrostiti con pelle e coda. Io e pochi altri riusciamo ad evitare, ci nutriamo con le razioni di gallette rimaste, alcune sono infestate dai vermi. I più disperati masticano cuoio macerato. Oggi una parte dell’equipaggio ha invocato a gran voce l’approdo in Mozambico, colonia portoghese. Sono arrivato sul ponte protetto da due ufficiali, con tutta la dignità rimastami. Ho ascoltato in silenzio la disperata richiesta, guardando con pietà quegli uomini che chiedevano un’illusoria salvezza. So bene cosa sarebbe accaduto. I nemici avrebbero risparmiato gli ufficiali e impiccato gli altri, svuotando le stive delle ricchezze. Non è questo l’agire di un uomo d’onore. Con grande semplicità ho risposto che “Io, Sebastiano Del Cano, in quanto spagnolo e suddito di Sua Maestà, preferirei sprofondare nell’oceano piuttosto che consegnarmi ai portoghesi. Ho fatto molti errori nella mia vita, non commetterò anche questo. Non ho altro da dire”. Nessuna voce ha replicato alla mia. Otto settimane, forse nove. Guardo l’infinita distesa blu e mi chiedo se siamo ancora al mondo…lo spettacolo in coperta è penoso, non siamo più uomini, siamo scheletri con qualche lembo di pelle addosso, spettri che navigano in mezzo al nulla. Non c’è alcuna gloria in questo. Scrivo con mano tremante, la linea d’inchiostro segue il rollio di questa crudele prigione di legno, dispersa in mezzo allo sterminato deserto d’acqua… Ora ho tempo per scrivere, ma non ho più forze per sperare. Diario del Capitano, mese di Maggio dell’anno di nostro Signore 1522 Capo di Buona Speranza. Siamo rimasti in ventisei. C’è qualcosa di miracoloso in questo viaggio. Proseguiamo verso nord, derelitti ma rinsaviti. Nessuno di noi ha esultato, qualcuno non vede nella sagoma incerta della rupe un traguardo, ma una sentenza rimandata di poco. Io prego. Isole di Capo Verde, colonia portoghese. Alla fine la ciurma tutta ha deciso di approdare qui, non ho potuto oppormi. Con la scusa dell’albero di trinchetto da riparare, ci spacceremo per una nave commerciale. Dalla cassapanca della cabina estraggo l’uniforme migliore, gli uomini cercano di apparire meno distrutti di quel che sono. Con un’energia che credevo seppellita dalle privazioni abbiamo nascosto il contenuto delle stive e pulito il ponte dopo diversi mesi di lerciume. La Victoria sembra di nuovo un veliero. Dobbiamo scambiare il poco denaro rimasto con lo stretto necessario, e abbandonare questo covo di serpi. Dalla riuscita di questa bislacca impresa dipenderanno la nostra fine o la nostra salvezza. Mi affido a Dio, e alla scaltrezza di questi lupi di mare. Diario del Capitano, mese di Giugno dell’anno di nostro Signore 1522 Siamo scampati alla cattura del governatore di Santiago. Qualcuno ha scoperto le spezie del carico, decine di armigeri ci hanno teso un agguato sul molo, siano essi dannati in eterno! Alcuni di noi non ce l’hanno fatta, forse marciranno nelle prigioni dell’isola. Nemmeno i loro cannoni ci hanno fermato. All’uscita dal porto la provvidenziale manovra di Curteo, l’attempato pilota di Magellano, ha evitato che la nostra fiancata fosse speronata dalla prua d’un galeone portoghese. Tutti i diciotto superstiti devono la vita a quel vecchio bastardo, ringrazio Dio per la sua abilità. Tornati in mare aperto, mi sono accasciato sfinito sul ponte, circondato dai miei compagni di sventura. Ho deciso di pronunciare un giuramento. Se la divina misericordia ci farà baciare nuovamente le terre spagnole, andremo scalzi al santuario di Nostra Signora della Vittoria, con i ceri in mano e la fede nel cuore. Questo han giurato tutti, Amen. Diario del Capitano, mese di Settembre dell’anno di nostro Signore 1522 La pace del santuario ha accolto il nostro solenne tributo alla Provvidenza. Il vero significato di ciò che abbiamo fatto mi sfugge. Prova di forza dell’uomo sulla natura, azzardo ingiustificato, impresa commerciale: non saprei. Forse a spingere Magellano fu l’anelito alla scoperta, il sogno di nuove terre, ma quella era la sua forza, non la nostra. Solo l’amore per la vita ci ha spinti verso il ritorno. Ho perduto alcune carte durante la precipitosa fuga da Capo Verde, ripongo le rimanenti nel grande baule di legno pregiato, assieme alla divisa. Sono memorie personali, inadatte a diventare di pubblico dominio. C’è grande scalpore attorno ai superstiti, il mio nome già circola in tutto il regno, penso possa bastare alla mia stupida sete di immortalità. Torno spesso con la mente a quegli immensi spazi e mi ritrovo stupito di quanto ancora ci sia da scoprire. Quanti atolli, isole, magari addirittura continenti nascosti da qualche parte, circondati e protetti da quel scintillante pezzo di cielo precipitato sulla terra…il mare. Eserciterà sempre una terribile attrattiva per l’uomo, fonte di paure e speranze. Io stesso tornerò a solcarne le onde, un giorno o l’altro: dopotutto, sono nato nel mare e in esso troverò l’eterno riposo. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
L'Argomento è stato bloccato.
|
IL PRIMO UOMO CHE PRESE IL MARE
Ad oggi non saprei neanche dire quanto tempo mi fermai sull’isola. Giorni monotoni e uguali a sé stessi si erano sovrapposti l’uno sull’altro in maniera così perfetta da renderne irriconoscibili i confini. Del resto il tempo era per me un valore relativo in quei giorni. Passavo le giornate sulla spiaggia, a pochi metri dalla riva; i piedi sepolti nel tepore della sabbia soffice, le mani che tormentavano ora una conchiglia, ora un rametto, ora la mia barba incolta. Non saprei spiegare l’apatia che mi aveva colto: fissare immobile il placido battito del mare, che onda su onda veniva ad accarezzare la riva, era tutto ciò che chiedevo e, qualche volta, un tramonto. Non ho mai trovato un luogo al mondo che avesse simili tramonti, seppur io abbia viaggiato tanto. Onda dopo onda, tramonto dopo tramonto, avevo smesso di tenere il conto delle settimane e credo anche dei mesi. Sapevo che stava arrivando l’autunno però: le giornate si facevano più grigie, una brezza fredda mi pungeva la pelle alla sera e anche i miei tramonti non avevano più i colori di una volta. Ma forse era solo uno scherzo della mia mente. Ammetto che forse ero un tantino depresso. Sull’isola mi ci aveva portato Vita. In tutti i sensi: Vita era la mia barca e Vita era la donna che le aveva dato il nome. Era selvaggia, libera, ribelle. Una piratessa. E come una piratessa mi aveva trascinato per i sette mari, dopo aver riacceso la mia allora sopita passione per la navigazione. Aveva spinto a lungo perché approdassimo su quell’isola; ci era stata in passato e non smetteva di decantarmi le meraviglie del luogo. Non mentiva in realtà: era veramente un’isola magica, meravigliosa, ma non smisi mai di chiedermi se mi avesse mentito sui motivi per cui voleva tornare lì, se si conoscessero già, se il suo cuore non fosse stato davvero mio neanche per l’attimo di un respiro. Comunque mi lasciò poche settimane dopo essere approdati lì. Con lui, invece, si incontrava già da giorni; questo lo so. E così rimasi su quella spiaggia, come un relitto portato dal mare e abbandonato a riva al ritirarsi della marea. Fu Jonas a raccontarmi la storia. Avevo stretto amicizia con Jonas fin dai primi giorni sull’isola. Emanava un fascino unico per un povero pescatore, per quanto forse l’età avanzata ne avesse accresciuto il carisma. Non so quanti anni avesse di preciso, ma di sicuro aveva percorso almeno il triplo della mia strada; tuttavia, seppur l’aspetto – quello di un anziano – non poteva trarre troppo in inganno, appariva ancora robusto e vigoroso e quasi ogni mattina lo vedevo partire da solo, sulla sua barchetta, per andare a pescare. Mi chiedo ancor oggi come facesse. La prima volta che lo vidi trascinare la barca a riva ero convinto che sarebbe collassato davanti a me. Il più delle volte tornava la sera a mani vuote, senza aver preso neanche un pesce, eppure tutti gli isolani nutrivano una vera e propria venerazione per lui e dicevano che era il più abile pescatore dell’arcipelago. Non ebbi mai il coraggio di chiedergli nulla a riguardo però. Ogni tanto Jonas mi veniva a trovare in spiaggia. Il più delle volte non diceva nulla. Veniva lì all’alba e si sedeva accanto a me, senza dire una parola; poi, al tramonto, andava via. Ma un giorno parlò. Non che fosse la prima volta, ma è quella che mi ricordo meglio. Era pomeriggio inoltrato e il sole aveva appena cominciato ad accarezzare le acque, quando ad un tratto Jonas iniziò a raccontarmi la storia di Amittai, la storia del primo uomo che prese il mare. Era una storia della tradizione locale, mi disse. Le nonne avevano ancora l’abitudine di raccontarla ai nipotini, così come sua nonna l’aveva raccontata a lui quando era piccolo. Amittai era un isolano, vissuto probabilmente molti secoli prima che le nonne iniziassero a tramandare la sua storia. In quell’epoca dimenticata, quell’atollo in mezzo all’oceano era completamente isolato; nessuno osava sfidare la grande distesa blu e i pochi che ci avevano provato, affidandosi a imbarcazioni pericolosamente somiglianti a meri tronchi d’albero, erano stati restituiti dal mare, non sempre insieme alla loro vita. A quei tempi sull’isola, che per gli isolani costituiva quindi anche l’intero mondo conosciuto, si credeva che ogni individuo avesse una e una sola anima gemella e, curiosamente, pare che una bambina nascesse più o meno negli stessi giorni in cui nasceva un bambino; i due crescevano insieme, inevitabilmente si innamoravano e presto si sposavano. Ma una malattia aveva colto la promessa di Amittai, quando i due erano ancora giovani. Così Amittai era rimasto solo, triste, unico amputato della sua anima, nel piccolo villaggio di quella piccola isola. Un’altra leggenda dell’epoca raccontava che le anime dei defunti, dopo la morte, veleggiassero al di là del Grande Mare. Forse fu per questo che Amittai si mise in testa di affrontarlo, per vedere cosa ci fosse oltre quell’infinita distesa blu; forse no, forse fu solo per sfogare la solitudine; o forse ci sarebbe arrivato comunque, perché era scritto nel suo destino. Comunque Amittai smise di mangiare e di dormire. Per ore, giorni, lavorò alacremente per costruire la migliore imbarcazione che il suo ingegno e la sua creatività gli permettessero. Il risultato non fu comunque dissimile da un tronco d’albero, ma in una tiepida mattina di primavera Amittai decise ugualmente di prendere il largo. A nulla erano valsi i discorsi degli anziani e le suppliche degli altri isolani: Amittai era convinto di ciò che faceva e in pochi minuti era già sparito all’orizzonte. Jonas terminò lì di raccontare e per qualche minuto scese il silenzio. Non ero sicuro che la storia fosse finita, così non dissi nulla e lasciai decantare quel breve racconto nella mia testa, mentre Jonas, impassibile, guardava l’ultima luce rossa nascondersi sotto l’oceano blu. Poi mi decisi: “Quindi Amittai ce la fece? Arrivò al di là del mare? Tornò sull’isola?” “No che non tornò sull’isola. Nessuno lo rivide mai più, ma è per questo che sappiamo che lui ce la fece. Gli altri uomini prendevano il mare per poter tornare e per questo il mare li risputava. Amittai aveva preso il mare per andare, non per tornare.” Restai lì, in silenzio, a cercare fra le deboli onde il riflesso delle stelle che pian piano si accendevano in cielo. Cullato dal suono della marea che si infrangeva a riva non udii Jonas andarsene. Credo che non lo salutai neppure. Il giorno dopo risalii su Vita, tolsi gli ormeggi e ripresi il mare. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 30/04/2013 22:31 Da Titivillus.
L'Argomento è stato bloccato.
|
A Varazze
Roberto camminava nel buio della spiaggia, un inverno di qualche anno fa. Volse la testa per guardare la casetta un tempo abitata dai suoi nonni. Quanto aveva amato quella casa, diventata ora un edificio di grande valore, un tempo rifugio di poveri pescatori con troppi debiti e troppi figli. Cinquant'anni prima, Lorenzo, il nonno paterno, era partito con la famiglia alla volta di Torino e aveva fatto fortuna con l'edilizia, facendo studiare l'unico figlio, il padre di Roberto. Ma sempre era tornato nella sua Varazze, e mano a mano che i soldi erano arrivati, aveva messo a posto la casa, facendola diventare un gioiello. Roberto era andato fin da bambino a Varazze in vacanza. Almeno una settimana, sia per stare un po con i nonni quando se ne erano andati in pensione, sia perché adorava il mare, il sole, il caldo. Su quella stessa spiaggia dove stava camminando ora, aveva dato il primo bacio, pomiciato per le prime volte. Aveva fatto per la prima volta l'amore al riparo della pineta che si stagliava sulle pendici della collina a poche centinaia di metri dalla casa. Soprattutto, aveva conosciuto Lena, l'amore della sua vita, proprio nel punto della spiaggia su cui si trovava in quella notte. Volse la testa verso il mare e cominciò a ricordare. Nella sue mente vedeva ancora perfettamente gli eventi di quel pomeriggio di dieci anni prima. Aveva ventidue anni ed era uno studente fuori sede di fisica alla Normale di Pisa. Era l'inizio di agosto, e da poche ore, finalmente, poteva dire di essere in vacanza, avendo finito gli esami e avendo terminato le ore da bibliotecario. Appena era arrivata la ragazza che lo doveva sostituire al lavoro, si era messo in macchina ed era volato al mare, per riposarsi qualche giorno prima di partire per l'Inghilterra. Mentre si avvicinava al solito posto sulla spiaggia, aveva visto un'autentica venere uscire dall'acqua, una splendida mora, con un fisico mozzafiato e gli occhi freddi e splendidi di una dea. Ma non era stata lei a catturare la sua attenzione, nonostante il pezzo di sopra del costume si fosse riempito d'acqua e fosse scivolato giù, mettendo completamente in mostra il suo seno svettante. Era rimasto folgorato dall'amica che la seguiva, meno bella, ma, per lui, magica fin dal primo sguardo. Le andò incontro sorridendo e poiché si era alzato un venticello fastidioso e leggermente freddo come talvolta capita sulla Riviera di Ponente, allargò l'asciugamano, invitandola a ripararsi e ad asciugarsi. La ragazza, bionda, con la pelle scura dell'abbronzatura di qualche settimana, andò incontro a Roberto e senza timidezza accettò l'invito del ragazzo, girandosi all'interno dell'asciugamano, in modo che lui l'abbracciasse lievemente. Il tutto sotto lo sguardo stranito di Rachele, l'amica uscita per prima dell'acqua, abituata ad essere lei soccorsa in quel modo dai ragazzi ammaliati. Quella sera uscirono assieme, loro tre e altri amici, ma Roberto e Maddalena, detta Lena, non avevano occhi che l'uno per l'altra. Erano del tutto rapiti. A lui sembrava di conoscerla da sempre, di ricordare quel viso dagli zigomi alti, regolare nei lineamenti e del tutto solare fin da quando era bambino. Anche a lei pareva di conoscerlo da sempre. Sembrava quasi che si aspettasse ogni volta il tipo di risposta che lui poteva darle e si sentiva deliziata e elettrizzata e non annoiata come si potrebbe immaginare. Le loro mani si sfiorarono qualche volta e ben presto finirono in una conversazione fitta, senza interruzioni, del tutto ignari che gli altri amici li prendessero un po in giro, visto che i due non rispondevano più a nessuno, immersi l'uno negli occhi e nelle parole dell'altra. Se ne andarono presto, mano nella mano e ben presto un desiderio bruciante, divorante li travolse. Non fecero in tempo a raggiungere la casa di lui o la pensione di lei. Fecero l'amore come se avessero la febbre nascosti nel buio della pineta ma forse non avrebbero avuto vergogna a farlo in mezzo alla spiaggia davanti a tutti, tanto erano travolti dalle sensazioni, dall'altro. Fu così per tutta la durata della loro relazione: il loro sesso era totale, travolgente. Lei si trasferì a Pisa per finire Giurisprudenza e andarono a vivere assieme fin da subito. La loro relazione fu immediatamente profonda. Riuscivano a stare per poco tempo divisi, solo per la durata delle lezioni universitarie. Avevano la necessità di stare sempre assieme, di parlare, di fare progetti per il futuro, di continuo. Una volta laureati si trasferirono a Torino, dove Roberto aveva trovato lavoro all'Alenia. Per Lena, ragazza intelligente e brillante, non fu un problema trovare un posto da praticante in uno studio legale. Appena fu possibile si sposarono. Roberto guardava il mare, nel buio, quello stesso mare che gli aveva regalato Lena, quello stesso mare che aveva dato la vita alla sua famiglia, quello stesso mare che aveva visto nascere il loro amore. Tutti gli anni, qualunque viaggio avessero deciso di compiere, Roberto e Lena erano passati da quella spiaggia e dalla casa dei nonni del ragazzo per celebrare il loro anniversario. Ogni anno avevano trascorso assieme un po di tempo in quel luogo, per loro simbolo della cosa più importante della loro vita. Il ragazzo guardava ora le onde, la schiuma che ne delineava i bordi. L'acqua giunse a bagnare le sue scarpe, ma lui non se ne accorse, totalmente assorto nei pensieri, nei ricordi. Rivedeva il volto della sua donna, rivedeva il suo corpo, i suoi fianchi accoglienti, il suo petto generoso. Ma il loro non era stato un amore solitario, il loro amore si era trasformato in qualcosa di ulteriormente profondo e importante, in una famiglia. Come poteva non ricordare quando era nata Elisa? Quella nascita era stato un altro dei momenti più belli della sua vita. Quando aveva visto uscire quella bambina dalla vagina della madre, in mezzo ai liquidi del parto e al sangue, era rimasto folgorato. L'aveva adorata fin dal primo istante, fin da quel primo istante in cui la piccola aveva emesso il primo vagito, il primo strillo. Lena gli aveva preso la mano e lui l'aveva guardata orgoglioso di come lei si fosse comportata coraggiosamente durante il travaglio. La donna l'aveva guardato con il solito sorriso che gli riservava sempre, nonostante la fatica e il dolore appena provati. Una volta a casa avevano passato ore a guardare la loro bimba stesi sul letto, con la piccola tra loro, ore in cui si erano sentiti vicino in modo assoluto. L'ultimo tassello della loro vita era stato messo. Ora era tutto perfetto, tutto come avevano desiderato che fosse. Erano felici, completi. Il loro amore, mai in discussione, era ora rinsaldato da quella piccola e splendida creatura, dalla loro bambina. Elisa era nata a novembre, fu quindi a nove mesi che si immerse per la prima volta nel mare, in quel loro mare così amato. Roberto ricordava ancora di quando l'avevano messa in acqua e di come la bambina vi si fosse ambientata immediatamente, degna figlia dei suoi genitori. La piccola aveva imparato a muoversi nell'acqua prima di imparare a camminare. I ricordi, però, proseguirono incessanti, esplodendo nella testa di Roberto. Era tempo ormai di arrivare a ricordare la tragedia. Una lacrima spuntò dai suoi occhi, il dolore si fece sentire come se un peso schiacciasse il petto. Nemmeno il gelo di quella notte di gennaio poteva scacciare l'angoscia che Roberto provava in quel momento. Era al lavoro quando aveva ricevuto una telefonata dal Pronto Soccorso del CTO. Lena aveva avuto un incidente grave. Si mise in macchina e corse come un folle. Ma quando arrivò all'ospedale, seppe subito che non c'era nulla da fare. Lena era in coma, viva per miracolo, ma la sua testa era troppo danneggiata per far sì che potesse sopravvivere. Roberto si sentì stranito. Diede l'assenso affinché nel momento del decesso venissero espiantati gli organi, sapendo che sua moglie l'aveva sempre desiderato, nel caso di morte prematura. Il funerale, le pratiche burocratiche, la sussistenza in quegli strani giorni, il momento in cui aveva spiegato alla sua bambina di cinque anni che la mamma non sarebbe mai tornata, tutti quegli istanti e quegli eventi erano una macchia indistinta nei ricordi. Roberto aveva resistito ancora qualche mese, poi era crollato. Aveva lasciato la bambina dai suoi genitori e si era rifugiato a Varazze, nella casa tanto amata, nel luogo dove aveva conosciuto Lena. Subito si era detto per qualche giorno e così l'aveva spiegato alla famiglia e al lavoro. Poi era passata una settimana, un mese, due mesi. I genitori disperati, la bambina che chiedeva di papà, gli amici e i colleghi che tentavano di chiamarlo senza che lui rispondesse. Non apriva nemmeno la porta a quelli che l'andavano a trovare. Non aprì nemmeno la porta alla sua bambina e alla sua famiglia. L'aveva aperta solo a Rachele, diventata amica anche sua nel corso del tempo. Insieme erano andati sulla spiaggia e lui le aveva spiegato pacatamente che tutte le notti andava lì e rivedeva quel momento in cui aveva conosciuto Lena per la prima volta, momento che anche Rachele ricordava perfettamente. La donna aveva cercato di scherzare. “Lo sai che mi ferì il fatto che tu non ti accorgessi nemmeno di me? Tutti gli uomini sbavano sempre per il mio corpo.” “Tu eri e sei bellissima, ma dietro di te uscì dall'acqua Lena. Forse la maggior parte degli uomini avrebbe continuato a guardare te, ma io no, lo sai.” Rachele aveva provato a riportarlo a casa, ma nemmeno lei c'era riuscita. Roberto guardava nella notte. Senza distogliere gli occhi dall'acqua cominciò a togliersi i vestiti. Ormai aveva deciso: quel mare gli aveva dato la vita, quel mare gliela avrebbe tolta. Faceva davvero molto freddo. Avrebbe camminato nell'acqua per pochi metri e poi il fondale sarebbe sceso subito. Una volta raggiunto il punto in cui non si toccava più si sarebbe abbandonato all'ipotermia e alla morte. Toccò l'acqua con il piede nudo e la reazione istintiva fu di allontanarsi da quel freddo, ma la sua determinazione era così grande da vincere facilmente sullo shock termico. Proseguì fin quasi al punto di non-ritorno, quando dentro di sé sentì una voce, la voce di Lena. “Amore, ti prego, torna indietro. C'è Elisa, c'è la vita, ti prego.” Roberto si arrestò. Guardò addirittura dietro alle spalle, ma era solo. Rimase fermo per qualche istante, poi tornò indietro. Si asciugò un po' con la camicia e i jeans che si era appena tolto e poi corse a casa, dove si infilò sotto la doccia, scosso dal tremito. La mattina dopo si mise in macchina e tornò a casa, passando a prendere la sua bambina a casa dei genitori. Elisa subito non voleva nemmeno guardarlo, ma dopo qualche insistenza corse dal padre e l'abbracciò, stringendolo con tutta la forza di cui era capace. Roberto sentì nuovamente la vita scorrergli dentro. Guardò gli occhi pieni di lacrime della figlia, occhi così simili a quelli della madre e sentì di amare Lena più che mai per il dono che gli aveva fatto. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Ehm, arrivo con un racconto fuori tempo massimo, a topic già chiuso. Mi rendo conto che ridursi alle ultimissime ore, su un tempo di 2 mesi, è ridicolo. Nel caso specifico, avevo, diciamo per un 80%, finito alle sei del pomeriggio; poi, causa impegni già presi per la serata, mi sono ridotto a rifinire il tutto a notte fonda... ed eccomi qui a postare a quasi le 5 del mattino!
Se non vorrete ammetterlo ai fini della contesa, nessun problema davvero per me. Mi sembrerebbe più che giusto. (Per ora metto il racconto qua di seguito, in attesa che venga opportunamente spostato.) --- UN TUFFO ALLA POSTA (fuori concorso) La vita è come il mare: un guazzabuglio ordinato di eventi e oggetti, di visi familiari e facce di passaggio, che alternativamente ti colpiscono e ti coinvolgono, con inaspettata piacevolezza o puntuale molestia – l’alghetta viscida che ti ritrovi tuo malgrado nel costume – , per poi disperdersi, cinque minuti o sei mesi o una vita dopo, nel compatto blu (il guazzabuglio ordinato). È c’è sempre qualcosa che prima o poi ritorna, qualcosa che ti aveva colpito e ti aveva coinvolto, risputata fuori – chissà – forse per colpa di uno starnuto di Nettuno in persona. Ritornano vecchi amori, vecchie paure, vecchi CD che non si ritrovavano da anni; ritornano, dai loro padroni, cani che si erano persi da qualche giorno. C’è chi aveva perso la memoria e la ritrova così, tutto d’un colpo, come trasportata da un’onda impertinente uscita fuori dal nulla di un mare piatto; c’è chi ritrova il portafogli rubato – che il ladro almeno ha avuto il buon cuore di lasciare i documenti –, la penna stilografica della cresima a cui si tiene molto, l’autostima, una biglia colorata vecchio corso e vecchie spiagge, una foto dei genitori quando ancora stavano insieme. Quando ancora il mare aveva le sembianze di una piscina in cui tuffarsi con misurata temerarietà sotto gli occhi vigili di un qualche adulto. A me oggi è ritornata Elena. O, meglio, il ricordo di Elena. O, meglio, il ricordo di Elena sotto forma di un avviso di giacenza relativo alla mancata consegna di un pacco; pacco, a nome Elena Marino, che verosimilmente contiene i rimasugli della nostra storia – i documenti dell’auto mia ma a tutti gli effetti sua (ma che ora è tornata mia), i ritratti simil-Modigliani che le avevo fatto, i pochi libri che avevo da lei... – che Elena deve avermi gentilmente fatto recapitare. Sbuffo. Se c’è una cosa che odio di più che andare alla posta è dover andare alla posta quando avrei potuto evitarlo. Sarebbe bastato non perder tempo con Carlo, a parlare dei sui presunti problemi, della sua presunta obesità, dei suoi presunti intrallazzi amorosi. Carlo... è lui l’alghetta! Sbuffo ma poi mi autoconvinco che sia una sforzo affrontabile e necessario. Dai, senza neanche salire a casa, ora tu, Filippo, prendi questo fogliolino e fili dritto alla posta. Dai, sono solo otto minuti a piedi passo-veloce; e magari poi al ritorno ti fermi in rosticceria, così ti levi anche la bega del pranzo. Dai, un tuffetto nell’acqua tiepida a recuperare la paletta che inavvertitamente ha preso il largo. Che poi chi la ripiglia dopo! È vero, erano solo otto minuti, anche un po’ meno visto che ci sono entrate precise due canzoni dei Nickelback. Ostentando una certa sicurezza nei movimenti, punto dritto verso il distributore di numerini e a botta sicura premo il pulsante relativo a “pacchi e raccomandate”. Non faccio in tempo a controllare quanto buono o quanto desolantemente alto sia il mio numero, che un tizio in giacca e cravatta attorniato da inservienti in tuta da lavoro – un tizio delle Poste presumo – si rivolge a me, facendo un gesto plastico con le mani, volermi gentilmente ammonire di qualcosa. La sua voce però è secca e scostante; e, dal viso, sembra una gallinella di mare – gli occhi piccoli e vicini, il muso affilato. « Ehi, non ha visto i cartelli? » « Quali cartelli, mi scusi? » « I cartelli che dicevano che è vietato l’ingresso, che l’ufficio è temporaneamente chiuso, che ci scusiamo per il disagio...» Mi giro: il piccolo corridoio d’entrata dell’ufficio postale, è in effetti disseminato di cartelli fissati alla bell’e buona su piantane che ne devono aver visti a bizzeffe, di cartelli con comunicazioni d’emergenza. « No, mi scusi, sono passato distrattamente... Non c’ho fatto proprio caso. » « E non ha visto l’acqua, perdio? » Mi accorgo solo ora che il pavimento è ricoperto di uno strato d’acquetta di due o tre centimetri. L’uomo in giacca e cravatta, la gallinella, sbraita; gli inservienti – che in realtà sono idraulici intenti a riparare una falla – lo guardano ammirati. La gallinella sbraita, gli occhi diventano sempre più piccoli e rossi, il muso sempre più proiettato verso l’avanti, verso me; ma io non ci faccio caso, preoccupato come sono a misurare gli effetti nefasti che quell’acqua può arrecare alle mie All Star nuove di pacca. « ... e ora non posso più farla uscire, perdio! » « Come sarebbe a dire? » « Procedure-di-emergenza. » « Ma io rinuncio al pacco! Erano solo cianfrusaglie di poco valore... » « Ma cosa sta farneticando? Che diavolo vuole che me importi del suo pacco! Abbiamo sigillato le porte, bisogna stare tutti dentro fino a riparazione avvenuta. Fino-a-riparazione-avvenuta. È chiaro? » Gli idraulici trafficano nevroticamente. La falla è una perdita su tre punti: tre tubi, quasi come fossero stati bucati o recisi di proposito, spillano acqua a volontà. Prima sottili rivoli, poi, all’accrescere delle ferite, autentiche cascate che alimentano il laghetto artificiale ai nostri piedi. Le All Star... le All Star, dannazione! « È chiarooo? » « Chiarissimo. » Mi metto in un angolo, sollevo – secondo una strategia alquanto infantile – alternativamente prima l’una, poi l’altra gamba. Passano quattro, otto, dodici minuti scarsi; una, due, tre canzoni dei Nickelback. Il laghetto è diventato lago, profondo mezzo metro direi. « Mi sc-scusi... » « Stiamo facendo del nostro meglio, perdio! » In barba ad ogni divieto, mi accendo una sigaretta, e faccio quello che si fa solitamente nei film nei momenti più drammatici: passare in rassegna affetti, persone care ed eventi cruciali, recitando una sorta di testamento improvvisato. Penso a Elena, la sua bellezza discreta e la sua tenacia: quattro anni buttati nella spazzatura, una Donna buttata nella spazzatura, per colpa di una scappatella che poi è diventata rituale tradire, non perché quel sesso extra mi desse chissà quale piacere; era un modo in più per soddisfare il mio ego. Penso a mia sorella e alle mie nipotine; penso a mamma e papà, e mi rendo conto che ancora non mi sono abituato al concetto di evocarli separatamente. Penso all’Altra, semi-collega conosciuta a una cena aziendale: risata gallinacea, senso dell’umorismo non pervenuto, ma un bel paio di tette perfettamente conformate. I miei pensieri vengono interrotti dall’acqua; acqua che mi è arrivata ormai fino all’attaccatura del collo. Comincio a nuotare per distendere i nervi, e mi accorgo che non sono il solo. Gli idraulici sono un gruppo di tonni, che, nella loro professionale eleganza, si muovono rasenti alla pareti. « Ehi, ma non dovreste stare a lavorare? » « Stiamo facendo del nostro meglio, ragazzo.» Faccio un giro dell’ufficio, un secondo, un terzo. Ci prendo gusto. E ad ogni giro incrocio la gallinella che mi scandisce il suo procedure-di-emergenza, con crescente fermezza e rinnovata acidità. Vedo anche Lei, la sirena: un corpo che flette sinuoso, un bel paio di tette abbellite da deliziose squame rosse. Vedo un branco di impiegate-aringhe che scorrazzano felici. « Giovanotto, ma quanto è bello il mare! » Sì, bello, peccato che fra poco saremo tutti costretti a un’apnea forzata... Ed è proprio così: riemergo per prendere una boccata d’ossigeno e mi accorgo che lo spazio d’aria si è ormai ridotto a pochi centimetri. E intanto dai tubi continua a sgorgare copiosa l’acqua. Acqua, acqua e solo acqua. Faccio un altro tentativo di respirare, forse l’ultimo, no neanche l’ultimo. L’aria è finita. E ora che faccio? Vediamo di far velere le mie doti di apneista. Uno, due, tre... no, qui non si arriva neanche a una canzone dei Nickelback. Aiuto, non ce la faccio! Dodici, tredici, quattordici... Chiudo gli occhi, non prima di aver imbeccato per l’ultima volta la gallinella dal muso affilato. Aiuuuto! Ventuno, ventidue... Addio, sto anneg... Un bagno tardivo, fatto per sfizio; le otto meno un quarto di sera; il sole che sta tramontando e che – per colpa anche di complici nuvole – punge poco o niente; una leggera ma seccante brezza. Risultato: un costume che non si asciugherà mai e una pesante sensazione di insanabile fastidio. Ti senti più o meno così, risvegliandoti bruscamente da un brutto sogno; e il letto è come un ritaglio di bagnasciuga: l’ideale compagno, con la sua perenne umidità, per accrescere l’agonia. Deciso a uscire al più presto da questa penosa situazione, perlustro il sotto-letto in cerca dello smartphone: è lì. Due rapidi tocchi e sono sui messaggi scambiati con Sirena (che razza di nome!). “Elimina conversazione”? Sììì! Altri due tocchi e sono sulla rubrica, scorro l’elenco fino alla s. “Elimina contatto”? Sì, sì, e di nuovo sì. Prima fase della procedura d’emergenza ultimata, foto e filmati compromettenti mi pare non ce ne siano. La seconda fase richiede il volgere lo sguardo alla mia destra: Elena è ancora lì che dorme accanto a me, beata come una bambina. Evidentemente lei si trova su soffici e calde dune di sabbia, e non sul mio irritante ritaglio di bagnasciuga. Mi avvicino delicatamente, avendo cura di fare quel minimo di rumore per poterla portare a uno stato di dormiveglia e poterle surrurare nell’orecchio con una qualche probabilità di essere captato. « Amore, andiamo al mare oggi? » « Hmm... » |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 01/05/2013 23:20 Da White Lord.
L'Argomento è stato bloccato.
|
|