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"La vera vertigine è l'assenza di follia."
Emil Cioran Vertigine è il tema dell'ottava tornata di UniVersi, c'è tempo fino al 15 ottobre compreso per postare il proprio racconto in gara. REGOLE - Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 6000 (spazi compresi, titolo escluso). Potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito; utilizzate Firefox dato che con altri browser il conteggio non risulterà esatto. - I racconti devono avere un proprio titolo e devono essere postati in forma anonima, effettuando il login con nome utente Titivillus e password universi. - Qui potete trovare il regolamento completo. RACCONTI IN GARA - Il mio inno libero (2524); - I'm going home now (5696); - Giovanni (5928); - Inizio di una storia d'amore (5918); - L'ultimo suicidio (4815); - La solita sgambata (4943); |
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Ehi dol! Bel dol! Suona un dong dillo! Suona un dong! Salta ancor! Salice bal billo! Tom Bom, bel Tom, Tom Bombadillo!
Ultima modifica: 16/10/2014 21:00 Da gensi.
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Il mio inno libero
Ormai è difficile trovarsi di fronte ad un vero foglio bianco. E, soprattutto, è ancora più difficile scriverci sopra un racconto abituato come sono a trovarmi di fronte ad uno schermo, ad un modulo word o ad un form preimpostato pronto per essere soltanto compilato. Quando mi cancellai da Facebook fu per un solo, semplice e stupido motivo: "a cosa stai pensando?". Beh, quella domanda, quel mattino, mi aveva irritato al punto da farmi cancellare immediatamente dal sito. Perché quel mostro voleva conoscere i miei pensieri? Avrei potuto barare, come fanno molti, ed inventare qualche stato-fuffa anziché scrivere per davvero quello che mi passava per la testa. Ma io non ci riesco. Anche se nascosto dietro ad un personal computer ho bisogno di dire ciò che penso. E quello che penso ora è che il titolo di questa tornata, Vertigine, è un titolo abbastanza del cazzo. Non riesco a farmi ispirare. Le uniche idee che mi ronzano intorno sono il verso della canzone di Jovanotti, "Mi fido di te", e quella di scrivere un racconto su un animale, magari un pesce o un gabbiano che convive, appunto, con le vertigini. Una sorta di storia Disney ma, con la limitazione dei caratteri, sarebbe poco più di una barzelletta e non avrebbe senso. Così, una volta ritrovatomi sul bordo di questo precipizio e nonostante la naturale paura del vuoto, insita dell'uomo, ho deciso di buttarmi in solitaria nell'impossibile scrittura a mente libera. Ispirato da uno miei eroi, Wile E. Coyote, cerco di rincorrere inutilmente il mio Beep-Beep sapendo già quale sarà il finale di questa storia: una nuvola di fumo in fondo al canyon. Ma io mi sento scrittore. E non importa se la mia laurea, se la carta d'identità e se la gente, là fuori, m'etichetta diversamente. Io, ora, sono uno scrittore che non racconta nulla se non l'orgoglio nel vedere la propria mano evolversi in piroette strambe. Più passano gli anni e più vorrò diventare scrittore. Ma non per il vil danaro, né per l'effimera gloria. Il mio è un bisogno, quasi una necessità. E nonostante gli impegni, nonostante le cose da fare, nonostante le distrazioni e la stanchezza, questa dello scrittore sarà l'ombra che continuerà ad accompagnarmi fino alla morte. Come il colore degli occhi, come le impronte digitali, come la fine di questo racconto, scontata ma non banale. Perché talvolta, è più facile inventarsi un colpo di scena che lasciar scorrere le cose com'è naturale che siano e salutarsi con un semplice ma sincero cartello riportante l'ineluttabile scritta: "The End". |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 13/10/2014 21:36 Da Titivillus.
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“I’m going home now.”
“Beh dai, è carino.” “Visto? E' un pub bellino, ma soprattutto tranquillo. Il posto giusto per fare due chiacchiere tra vecchi amici. Com'è la tua birra?” “Fresca e corposa, veramente ottima.” “Bene! Però dai, ho acconsentito a sederci a questo tavolo seminascosto, ma almeno smetti di stare ingobbito; non ti riconoscerà nessuno qui, stai calmo.” “Meglio, stasera non ho proprio voglia di mettermi a firmare autografi.” “Se fossi io il grande Felix Baumgartner non vedrei l'ora di circondarmi di ammiratori, e soprattutto di ammiratrici! E invece tu guardati, sei sempre a nasconderti.” “Dici così solo perché non hai idea di cosa voglia dire non avere quasi più una vita privata. Spero che questo periodo finisca presto: sembra che i media si stiano finalmente dimenticando di me.” “Sì, devo darti ragione, del resto hai fatto decine di interviste...ma poi praticamente tutte uguali, piene di quei bla bla bla, potevi almeno raccontare qualcosa di diverso? Avrai trovato qualcosa di strano lassù, no?” “No Chris, non ho trovato niente.” “Suvvia, dico sul serio, non ti sto chiedendo se hai trovato alieni o roba simile, o almeno non ti sto chiedendo solo questo...ah ah ah! Vorrei sapere se hai trovato qualcosa di unico, dopotutto sei stato in un posto dove nessun uomo è mai stato prima.” “Non è vero, gli astronauti vanno molto più lontano.” “Giusto, ma loro partono da terra e arrivano direttamente nello spazio, te invece ti sei fermato al confine, al termine dell'atmosfera, in un luogo ancora mai visitato da nessuno. Qualcosa dovrai pure aver trovato, o pensato!” “Non...non ho trovato niente, te l'ho detto.” “Qualcosa c'è, te lo leggo negli occhi Felix. Non mi sembri più te stesso da quando sei tornato, hai qualcosa di diverso. Sei sempre cupo, sulle tue...capisco che ti stia stressando questa vita sotto i riflettori, ma non può essere l’unica causa del tuo malumore. Dai, dimmelo, sai che i tuoi segreti sono al sicuro con me; ci siamo sempre confidati e aiutati a vicenda, ti ho anche dato una mano a comporre quella frase che hai recitato lassù e che è già entrata nella storia: A volte dobbiamo andare davvero molto in alto per capire quanto siamo piccoli. Ti ricordi quanto tempo ci abbiamo messo per scriverla? Me lo devi!” “Sì...forse te lo devo, hai ragione. Lassù...ho trovato...beh, ho trovato paura.” “Immagino, ne avrei avuta tanta anche io! Chissà che paura di cadere hai provato, che vertigine. Se solo ci penso mi viene la pelle d'oca, guardami le braccia, ce l'ho anche ora!” “Chris, porca troia, non mi interrompere.” “Scusami...hai ragione, dicevi?” “Dicevo...ho scoperto la paura lassù. Non fraintendermi, non avevo paura per i rischi della missione; cioè, mi ero allenato per mesi nei simulatori e tutto era stato progettato, costruito e controllato alla perfezione. Nonostante le bassissime probabilità, gli imprevisti sarebbero sempre potuti capitare e sapevo che sarei anche potuto morire, ma di questo non avevo minimamente paura; è il mio lavoro e lo faccio sempre con passione, come sai bene. La paura di cui parlo non l'avevo mai provata prima, in nessuno dei migliaia di lanci che ho fatto. L'ho avvertita poco prima di dire quella frase, quando ero lì, pronto a buttarmi. Non era paura del vuoto, o del salto, non so come spiegarmi...era paura della lontananza da terra, di non vederla più, di perderla. Tutto ciò misto ad un insopportabile desiderio di raggiungerla. Non riesco più a discriminare le emozioni ogni volta che sto per lanciarmi, non sento più il familiare formicolio della vertigine, che mi ha sempre accompagnato e quasi cullato in tanti anni di lavoro. Ora è questa la mia nuova vertigine, sto cercando di imparare a conviverci, ma non ci riesco. So che è sciocco, ma questa inaspettata sensazione mi ha davvero sconvolto la vita.” “Cavoli...beh, non credo che sia una cosa stupida; certamente non sarai stato il primo ad averla provata, e non sarai l'ultimo. Prima mi hai portato l'esempio degli astronauti, anche a qualcuno di loro sarà successo, no?” “Probabilmente sì...ma non ne sono tanto sicuro. D’altronde loro vedono la Terra sotto di sé, o davanti, ma da molto più lontano, e sanno che per tornare devono calcolare la rotta, comandare la navetta ed eseguire l'atterraggio; cioè non possono direttamente buttarsi, come invece potevo fare io in quel momento. Quel discorso che hai fatto prima sul confine dell'atmosfera mi ha fatto ulteriormente riflettere su questa cosa.” “Non dirmi che con le mie parole ti ho incupito ancora di più, non ti ci provare nemmeno! Ok dai, allora basta con questi discorsi. Parliamo di cose più importanti ora: quante donne ti sei fatto da quando sei tornato? Cameriere, altre due birre per favore!” Era notte inoltrata quando Felix Baumgartner aprì il portone del condominio e chiamò l'ascensore. Dopo una breve attesa, entrò e schiacciò il pulsante più in alto. Quando scese dall'ascensore si ritrovò sul pianerottolo davanti alla porta di casa: un ampio appartamento all'ultimo piano del palazzo. Tirò fuori le chiavi e le inserì nella stoppa, ma, poco prima di aprire la porta, si voltò un attimo a guardare l'unica altra porta presente sul pianerottolo, quella che dava sulle scale che conducevano al tetto. Come quasi ogni notte dal giorno del lancio, Felix era in piedi sul cornicione del tetto, intento a guardare giù, fissando il vuoto dal ventesimo piano di altezza. Quella nuova stuzzicante vertigine lo avvolgeva, mentre saliva intensamente il soffocante desiderio di riabbracciare il suolo. Dopo qualche minuto, Felix si girò, scese dal cornicione e si diresse verso casa. La sua vita era cambiata per sempre: intuiva, o meglio sapeva, che prima o poi non si sarebbe più voltato. |
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Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Giovanni
Sabato, ore 2:00 am L’oscurità della camera nella quale mi trovo in stato di dormiveglia, dovuto alla presenza femminile accanto a me che con i suoi movimenti offre un comodo assist al mio sonno leggero, viene interrotta da un fascio di luce che illumina il soffitto espandendosi dalla base all’altezza in un raggio sempre più ampio. Con la totale oscurità s’è appena perso anche il silenzio. Lo smartphone della mia compagna vibra contro il comò di legno cercando una via di fuga resa impossibile dalla presenza di altri oggetti che lo circondano. Sollevo il bacino e rimango un attimo ad osservare il viso della persona accanto a me che, a quanto pare, non nota nulla di quello che accade: continua a dormire. Mi muovo allungando il busto, il collo e le braccia fino a scavalcarla. Non è difficile individuare la causa del rumore e dopo qualche attimo di fatica riesco a raggiungerlo. Sul display, sopra il logo di una cornetta verde che vibra tarantolata, intimandomi di rispondere, appare un nome maschile: Giovanni. Non saprei dire perché io non abbia respinto la chiamata ma mia sia limitato soltanto a premere il tasto per abbassare il volume, fatto sta che appoggiato di nuovo sul comò lo smartphone e ritornato nella mia ridotta porzione di letto, mi ritrovo costretto a rispondere ad alcune domande. Figuratevi, squilla il suo telefono nel bel mezzo della notte, noto che dall’altro capo della linea c’è una persona di sesso maschile che non conosco e sono io che devo rispondere a delle domande. Robe da matti. “Chi era?” “Non ne ho idea, ho schiacciato dei tasti e non ho fatto in tempo a rispondere” replico, limitandomi a mentire. “Sarà stata mia madre” “Controlla” rispondo con distacco girando la schiena dall’altra parte. La sento trafficare con il cellulare, appoggiarlo nuovamente al supporto vicino al letto e poi mettersi schiena contro schiena. In pochi attimi lei dorme di nuovo mentre io sono arso dalla curiosità. L’idea di afferrare l’oggetto del mio desiderio e di leggere i messaggi che riporta al suo interno è troppo forte, ma sono più forti la dignità ed il rispetto che nutro nei confronti della coppia che formo con la ragazza che dorme accanto a me. Mi placo lasciandomi andare ad un sonno tutt’altro che ristoratore. Domenica, ore 10:00 am Appena svegliati. Io molto prima di lei. Dopo il solito scambio di effusioni si accende la lampadina ed il pensiero torna all’episodio di qualche ora prima. Da qualche mese a questa parte la mia fidanzata usava portare con sé il cellulare ovunque andasse. Lo custodiva gelosamente, come ossessionata. Ricollego tutto: non può non esserci un filo d’Arianna tra questi due avvenimenti. Lei si alza per andare al bagno ed anche questa volta si porta via il cellulare. La situazione inizia ad essere insostenibile e parto, mentalmente, a scalare un grattacielo di emozioni – tutte rigorosamente negative. Domenica, ore 2:00 pm E’ tutto nella mia testa? Non può essere altrimenti: ora vedo il filo come fosse una esile lenza da pesca. Non può essere, non può essere, vado ripentendo a me stesso. Sono tanti che stiamo insieme. Perché dovrebbe essere possibile una cosa del genere? (ventesimo piano del grattacielo, sono appena retrocesso di un paio di piani quando l’ho vista guardarmi con quei suoi bellissimi occhi colore nocciola). Lei si assopisce sul divano, tra le mie braccia. In lontananza il cellulare squilla di nuovo ed è come se il pensiero di qualche attimo fa fosse stato seppellito da quello squillo. Si, perché sono sicuro che sarà ancora lui, nuovamente lui, il mio ascensore per distruggere la fiducia nella persona che amo: trentacinquesimo piano. Facendo attenzione a non svegliarla le appoggio la testa sul cuscino di pelle nera e mi muovo verso la fonte del mio dubitare: ogni passo è uno scalino in più visto che la suoneria non smette di tormentarmi, un po’ come il Corvo di Poe. Trentasei, trentasette, trentotto, trentanove, quaranta …. La solita cornetta verde impazzisce sul monitor ma questa volta il nome non è quello di Giovanni. Trentanove, che coglione che sono, trentotto, ma perché penso a cose del genere, trentasette, non posso essere così stupido. Ma … Ecco che noto una serie di messaggi non ancora letti. Mi contraddico ogni secondo che passa. Apro la conversazione di whatsapp con Giovanni ed inizio a scorrere a ritroso. Balzo in un attimo, in un infinitesimale attimo, diretto al piano più alto del grattacielo. Mi devo sedere, frastornato. La testa mi gira, lo stomaco è sottosopra, le mani e le gambe mi tremano. Vorrei, per un certo verso, che ora lei entrasse e mi vedesse leggere i messaggi, così potrei sfogare tutta la mia rabbia vertiginosa nei suoi confronti. Sia bene inteso, quello che ho letto non è colpa diretta della mia fidanzata, no. Questa persona, questo tale Giovanni, lui cerca di sostituirsi a me, è chiaro. Ci sono messaggi del calibro di “Non ti innamorare di me” ed a fianco uno smile, una emoticon, un qualcosa che mi tramuta il sangue in veleno. Lei non risponde diretta ma tende ad avallare il comportamento di questo uomo che io non conosco. “Come va con il tuo fidanzato? Se con lui le cose non andassero bene, chiamami che ti vengo a salvare”. Questo è il messaggio che mi fa figurativamente sporgere con la testa fuori dal grattacielo. La vista si annebbia mentre il cuore è in fibrillazione costante. Continuo a leggere… Vi risparmio i dettagli. Domenica, ore 9:30 pm Sono ancora lì, appeso per un pelo prima che arrivi la definitiva spinta. Tremo e parlo poco, situazione piuttosto insolita per una persona come me. “Che hai?” mi domanda lei E allora vuoto il sacco. Sono attimi di silenzio terribile, poi le mi se ne esce dicendo che dobbiamo parlare. Mi dice che forse queste cose sono solo nella mia testa, o forse no… E allora non ho più alcun tipo di vertigine in quel momento perché sono appena precipitato al suolo leggendo nei suoi occhi la fine del nostro rapporto. |
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Inizio di una storia d’amore
La prima volta che portai Viola a camminare in montagna decisi di andare in Grignetta. Da Milano non ci vuole molto, poco più di un’ora. Arrivati al punto da cui parte la direttissima – che poi direttissima non è – le spiegai i pochi semplici passaggi che ci saremmo trovati a fronteggiare. Robe da dilettanti, ma non si deve dare nulla per scontato. Scelsi di imbragarla nel punto più complicato perché mi pareva un po’ titubante. - E se cado da qui? - Non puoi cadere perché sei agganciata coi moschettoni. E poi col dissipatore non dovresti nemmeno sentire il colpo - E se si stacca la catena e cado? Guardai giù, verso il piccolo abisso. - Beh... se cadi davvero non hai più dubbi Le sorrisi. Lei si mise a ridere ma vedevo che aveva paura. - Scemo, non scherzare Passai avanti io e le detti la mano. Lei avanzò piano. Poi qualcosa la fermò. - Ok, Viola, adesso stacca un moschettone e fallo passare avanti. Poi stacchi il secondo e fai la stessa cosa Notai che non voleva guardare giù. Giusto. Brava. Ma vidi anche che non riusciva ad afferrare il moschettone. - Soffro di vertigini, Guido. Aiuto - Da qui non posso fare nulla. Ma ti tengo. Stai calma - Se cado ti tiro giù. Non puoi tenermi - No che non mi tiri giù Una bugia a fin di bene. - E poi non soffri di vertigini. Le vertigini hanno dei sintomi gravi che tu non hai - Non parlare, Guido. Lasciami stare un attimo Non lasciai la sua mano. Respirava affannosamente. Tipico attacco d’ansia. - Hai solo una sensazione di vuoto. Un po’ di paura del vuoto. Ce l’hanno tutti. Pure io - Se cado muoio E ora che le dico? Un’altra bugia? - Sì, è vero ma non puoi cadere perché sei agganciata alla catena. Non ci pensare e basta Povera Viola: sapevo perfettamente quello che le passava per la testa. Ma l’unica cosa era andare avanti. Tornare indietro sarebbe stato più pericoloso. Passò qualche minuto di silenzio. Qualche minuto di paura. Tutto normale. Non c’è fretta - Ok, adesso lo stacco Prese il moschettone con mano non proprio ferma e, senza quasi guardare, riuscì ad agganciarlo alla catena dall’altra parte del chiodo. - Brava, Viola. Ora l’altro Stessa cosa, lo fece anche più velocemente. Passò dalla mia parte ed ero fiero di lei. Mi baciò con passione un po’ per sfogarsi e un po’ non lo so. Continuammo verso la cima senza grossi intoppi, dopo aver tagliato le nuvole. Ero già stato là alcune volte, avevo compiuto imprese più ardite, ma ero contento come sempre. La sensazione della cima è sempre la stessa. Cercai di spiegarglielo a parole. - Vedi? In cima l’abisso è tutto intorno, ma per assurdo più lontano non potrebbe essere. Ti circonda il vuoto a 360 gradi ma non puoi averne paura. La cima è un attimo in cui non puoi pensare a qualcosa di oscuro. E svanisce subito, quindi ricordalo Le spiegai tante altre cose e cercai di convincerla che non soffriva di vertigini. Aveva semplicemente paura del vuoto. Come tutti gli esseri umani. La paura del vuoto è in definitiva la paura di morire. Questo dettaglio glielo risparmiai. Poi la annoiai con l’elenco delle cime che riuscivo a identificare all’orizzonte. Molte le avrò anche sbagliate. Mangiammo, prendemmo il sole; ci conoscemmo un po’ meglio. In breve era già tempo di scendere. Cambiammo strada e decisi per quella che a mio parere è la vera direttissima. La facemmo velocemente; così velocemente che colpii una roccia con il ginocchio che mi si gonfiò subito. Viola mi prese un po’ in giro ma poi mi pulì la ferita con grande zelo. Un po’ meno frettolosamente, tornammo giù alla macchina le chiesi se aveva voglia di guidare, che avevo troppo male al ginocchio. E così – cosa piuttosto rara – mi trovavo sul sedile davanti della mia macchina senza guidare. La strada era semplice e stavano finendo i tornanti quando un gatto, un po’ titubante, ci attraversò la strada. L’impatto fu una fatalità. Viola aveva frenato ma non era bastato a evitare la collisione. Riuscii a vedere nello specchietto il gatto che ruzzolava sull’asfalto e si rimetteva in piedi barcollando per poi essere investito definitivamente da un’altra macchina che ci superò di slancio. Viola fermò la macchina e uscì con gli occhi lucidi verso quello che restava della povera bestiola. Ero sceso anch’io ed ero rimasto qualche metro dietro di lei. Rimanemmo in silenzio per qualche secondo; poi vidi che si portava le mani al volto. Si girò verso la macchina, verso di me, ed era sul punto di crollare. Feci quei pochi passi che mi separavano da lei. E allora, prima che Viola mi cadesse fra le braccia, la abbracciai. Appena prima che fosse lei a farsi abbracciare. Mi piacque pensare che fosse una differenza importante. Tremava di paura. Cominciò a piangere. Ma fra le mie braccia non poteva, non doveva temere nulla. Niente poteva più farle paura, nessuno le avrebbe fatto del male. Io non lo avrei permesso. La strinsi ancora più forte e potevo sentire i suoi singhiozzi che avevano raggiunto il culmine e piano piano si facevano più flebili, il suo respiro meno affannoso e il cuore che rallentava; mentre il mio accelerava. Credetti che fossi in grado di prendere su di me il suo dolore e le sue paure. Che fossi in grado di trasferire il male su di me. Così si era calmata e la guardai; era stata una giornata lunga, intensa. Soprattutto per lei. Decisi che il mio dolore al ginocchio non era poi così insopportabile e mi misi al volante senza nemmeno chiederglielo. Riuscii a far tornare il sorriso a Viola dopo qualche chilometro. Riuscii soprattutto a rimuoverle il cancro del senso di colpa. In effetti il gatto era morto solo dopo la seconda collisione. Io l’avevo visto e ci misi un po’ a spiegarle che non lo dicevo solo per rincuorarla. Lo dicevo perché era la verità. Tornammo a Milano che la paura del vuoto – che da sempre mi accompagna - non mi era ancora passata e non sarebbe certamente svanita d’improvviso, ma sapevo che Viola non stava già più pensando alle vertigini e questo mi bastava. |
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L'ultimo suicidio
È notte e il Paziente osserva la sagoma umana al di là della vetrata. È un brav’uomo e si autocompiace facilmente: vedendo qualcuno tentare il suicidio non può fare a meno di proiettarsi nel futuro immaginandosi a spiegare a Barbara D’Urso come ha fatto a salvare quell’uomo. Avvicinandosi alla finestra la sagoma indistinta gli rivela lo Psicologo. Che ci faccia sul cornicione del palazzo dell’amante del Paziente è un mistero cui indagherà dopo. Ora bisogna salvarlo come tante volte ha fatto lui con altri pazienti. Come convinco uno psicologo a non buttarsi? - Salve, bella nottata eh? Che ne dice di venire dentro? Sa, soffro di vertigini… - Acrofobia. Le vertigini sono un’altra cosa. Cazzo, non mi è mai sembrato depresso, eppure pensavo che gli psicologi dovessero innanzitutto mantenere in equilibrio la loro psiche. - Mia moglie ha abortito e mi ha lasciato per un altro. Io non faccio altro che ascoltare pazzi - senza offesa – e non ho più lucidità, capisce? Non ce la faccio, ho accumulato troppo… Credo che sia la sua psiche ad avere le vertigini. Vacilla come mai mi era capitato. Neppure quando mi tagliai le vene. - Ma si ricordi ciò che dice ai suoi pazienti, c’è sempre un futuro se non gli chiudiamo le porte in faccia! Forse sa di illudere gli altri e non crede alle sue stesse parole. - Su venga dentro. - Non posso. Almeno ora si è seduto sul cornicione, se non altro non si butterà immediatamente. - Avvicinati. Sai che ho cercato di tirarti fuori dalla depressione, ma sei sempre riuscito a respingermi. Mi sembra una seduta quando quello sul cornicione è lui. - Non so, forse sei il mio fallimento più grande. Forse capisco dove vuole andare a parare. - Senta dottore non è colpa sua se… - Esatto! Non è colpa mia! Mi strattona e in un attimo sto volando. Lo Psicologo segue la mia caduta con un ghigno spaventoso. È la maschera di morte che ho tanto cercato in passato. Il Chirurgo non ha mai ambito a posizioni prestigiose, ha sempre avuto paura di ciò che comporta il potere: responsabilità. Ne aveva già abbastanza così. Eppure ora avrebbe potuto dirigere tutto il reparto. Avrebbe raggiunto una vetta lavorativa non indifferente. Una vetta che gli faceva venire le vertigini, tremori alle gambe e forse una psicosi da stress. Una vetta dalla quale sarebbe potuto cadere. Voleva semplicemente operare e avere le sue responsabilità, non quelle di tutto l’ospedale. Preferiva il rischio di cadere da metà montagna. Come fare allora per frenare quell’ascesa senza fine apparente? Avrebbe dovuto sbagliare consapevolmente. Forse significava avere tormenti per tutta la vita. L’unica cosa che avrebbe tamponato una ferita dell’anima del genere sarebbe stata non dare il meglio su un paziente già molto compromesso. Magari un uomo malvagio. - Salve dottore, lo opererà lei? Lo Psicologo è in sala d’attesa come se fosse un parente del Paziente. - Sì. Lei è? - Il suo psicologo. Ha tentato di uccidermi stasera. Proprio con il metodo del serial killer… - Ah, quello che architetta finti suicidi. - Esatto. Lo Psicologo deve architettare anche il modo per venirne fuori. Ormai il rischio è troppo elevato. Ha capogiri al solo pensiero di ciò che potrebbe riservargli un futuro in prigione dopo aver ucciso quelle persone. E quei bambini. - Quante probabilità ci sono che riprenda le piene funzionalità? - Direi nulle. Se riusciamo a tenerlo in vita sarà un successo. Ma che vita sarebbe da vegetale? Il Chirurgo ha già deciso. Lascia a intendere una possibile eutanasia. - In effetti, per uno che ha anche tentato il suicidio prima di riversare il suo odio su della povera gente… La brama della probabile vittoria, così più semplice del previsto, gli provoca una scialorrea tale da farlo quasi sbavare. Il Chirurgo si accorge che il Paziente ha aperto gli occhi quando ormai lo Psicologo si è allontanato. Non abbastanza perché il Paziente non lo veda. Che succede, chi è questo? Un dottore, ma che…oh, sì ora ricordo. Ma…non sento…non sento niente! Le gambe, dove sono le gambe? Perché non riesco a parlare? Dottore mi aiuti! Oddio è lì, lo psicologo è lì! È lui! Mi voleva uccidere! Dottore! Il Chirurgo guarda il Paziente con aria di disapprovazione. Gli si avvicina con uno sguardo torvo. - Lei non dovrebbe essere sveglio. Ma tanto non può parlare. Sa, lei è un bastardo figlio di puttana. Ma che vuole da me? Dottore mi aiuti! È lui che ha tentato di uccidermi! - Sa che è completamente paralizzato? Bene. Non so ancora se resterà così o finirà dritto all’inferno. Ha rovinato troppe vite. Troppe. Anche bimbi innocenti, cazzo! Se ne rende conto? Non sono io, non sono io, non sono io. - No, non se ne rende conto. Tra poco non si renderà più conto di nulla. No, dottore, lei mi deve aiutare! Non sono io il pazzo! È lui, Dottore! È lui! Dottoreee! Ho la bocca, ma non posso urlare. |
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La solita sgambata
L’aria frizzantina del mattino soffiava dalla finestra aperta, un soffio leggero che stuzzicava i sensi. Lui era appollaiato sul divano dopo una notte tranquilla, senza niente da fare. Da quella posizione defilata gli pareva la prima giornata buona dopo giorni di pioggia. Non resistette al richiamo della natura, doveva farsi un giro. Si stirò le membra con un gran sbadiglio, quindi si tirò su agile e scattante nonostante fossero le sei di mattina. L’orario non era mai stato un problema. Diede una fugace occhiata al tavolo poco distante, poi pensò che avrebbe trovato qualcosa da mangiare strada facendo. Si fece coraggio, spalancò quel che restava della finestra e in un attimo fu sul cornicione. Per qualche istante rimase lì, in equilibrio, auscultando le voci della città che si svegliava. Era un mormorio indistinto e flebile, i contorni delle case ancora confusi nella scarsa luce, nessuno che lo poteva vedere o chiamare. In quel momento si sentiva davvero libero, al di fuori di ogni legame o controllo: non doveva niente a nessuno, c’erano solo lui e l’altezza degli scuri palazzi addormentati. Diede un’ultima occhiata allo strapiombo sotto il parapetto, un volo di venti metri prima di toccare i tetti delle auto o il bidone verde dell’organico. Fu scosso da un brivido, ma non era paura. Il vuoto lo eccitava, risvegliava i suoi istinti più profondi, sentiva di essere nato per sfidare il pericolo. Decise che era arrivato il momento, il suo momento. Fissò l’obiettivo assottigliando le pupille scure, quindi caricò il peso sugli arti inferiori e saltò. Per un singolo, infinito istante rimase sospeso in aria, uno scuro aquilone senza filo che veleggiava pericolosamente tra due appigli. Atterrò perfettamente sul terrazzo a fianco, iniziando subito la risalita verso il tetto. Quella facciata del vecchio palazzo del centro era colma di appigli più o meno utilizzabili: qualche mattone in rilievo, le griglie degli stendini vuoti, i grossi motori dei climatizzatori. Tutti sostegni improvvisati, spesso temporanei, qualche volta traditori. In realtà non ricordava più le volte che era scivolato, o che un appoggio era venuto a mancare all’ultimo, rischiando di farlo precipitare di sotto. Ma era proprio questa la sua droga, l’adrenalina del rischio, una delle poche cose per cui valeva la pena alzarsi a quell’ora, evitando di poltrire su un comodo cuscino, al caldo, in casa. Un grugnito gli morì in gola all’ennesimo sforzo, era da un po’ che non faceva un’uscita, troppa pioggia. Continuava a salire, un’ombra scura in movimento, mentre il bagliore del mattino iniziava a diffondersi fornendo alle cose un colore diverso. Ma lui non poteva notarlo, lanciato com’era verso la meta; il fiato corto, il sangue bollente nelle vene, l’espressione decisa e quasi feroce. Salì su un balcone a poca distanza dal tetto, la ringhiera di un nero lucido, qualche vaso di fiori riempito di umido terriccio. La ringhiera forniva la giusta base per l’ultimo salto, l’arrivo gli avrebbe garantito una visuale unica e affascinante in quella fresca alba primaverile. Ma fu proprio l’ultimo salto a tradirlo. Quella infida, scivolosa ringhiera fece mancare l’appoggio per il poderoso stacco verso l’alto. Tutto accadde in un attimo, un tocco di orologio. In un convulso movimento di arti il suo corpo sbatté contro un vaso, a cui aveva cercato disperatamente di appigliarsi. Il vuoto lo inghiottì senza pietà, risucchiandolo verso il basso come una forza invisibile. Il tempo si era fermato, mentre lo spazio vorticava impazzito. Terra e cielo si confusero, nessun punto di riferimento. Il vaso precipitò con lui, un silenzioso testimone di quella caduta improvvisa. Assurdamente, in quegli istanti di smarrimento dominati solo dal vuoto e dall’aria, non sentiva paura né eccitazione. Solo una fredda, istintiva consapevolezza di girarsi per atterrare nel modo migliore possibile. Non sapeva il come o il quando, seguì semplicemente il più primitivo istinto primordiale. Un arto sbatté su un cornicione con un tonfo secco, forse era spezzato. Ignorò il dolore pungente e girò il corpo in tempo per notare un appiglio, un’unica, flebile possibilità di salvezza. Non c’era tempo. Concentrò tutto se stesso in quell’unico veloce movimento: urtò di proposito una parabola poco distante, e rimbalzandoci contro si avvicinò al tendone del terrazzo vicino che prontamente ghermì, con tutte le sue forze. Lo lacerò in fretta, arrestando l’impeto della caduta, e poi d’un tratto, così velocemente come era iniziato, quel vertiginoso viaggio era finito. Si ritrovò immobile, stordito e malfermo, ma soprattutto salvo. In lontananza sentì il vaso sfracellarsi al suolo, un botto assordante nel silenzio mattutino. Un minuto dopo rientrava dalla sua finestra, dolorante e ancora confuso. Barcollando tornò sul suo divano, la testa che girava, un senso di vertigine mai provato. Stava diventando vecchio. Un bellissimo, coraggioso e vecchio gatto nero. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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