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C'era una volta una dolce bimbetta; solo a vederla le volevan tutti bene, e specialmente la nonna che non sapeva più che cosa regalarle. Una volta le regalò un cappuccetto di velluto rosso, e poiché le donava tanto, ed ella non voleva portare altro, la chiamarono sempre Cappuccetto Rosso.
Cappuccetto Rosso - I fratelli Grimm Once upon a time è il tema della quarta tornata di UniVersi, c'è tempo fino al 15 giugno compreso per postare il proprio racconto in gara. Ricordatevi che: - Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 12000 (spazi compresi, titolo escluso); potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito. - I racconti devono avere un proprio titolo e devono essere postati in forma anonima, effettuando il login con nome utente Titivillus e password universi. - Qui potete trovare il regolamento completo. RACCONTI IN GARA - L'arte della sopravvivenza (7099); - Once upon an alternative time (4001); - La favola di Dalia (6506); - I narratori (11932); - Un vero rompicapo (5251); - Luna meno un quarto (7563); - C'era una golgota (1510) - NON PRENDERA' PUNTI POICHÈ POSTATO FUORI TEMPO MASSIMO; |
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Ehi dol! Bel dol! Suona un dong dillo! Suona un dong! Salta ancor! Salice bal billo! Tom Bom, bel Tom, Tom Bombadillo!
Ultima modifica: 16/06/2015 11:08 Da gensi.
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L'arte della sopravvivenza
Gli occhi sottili scrutavano gli ultimi raggi di sole, mentre, seduto su uno sgabello scricchiolante, contava il guadagno della giornata. Il cappello nero, appoggiato sul letto, dava un tocco di solennità a quella piccola stanza invasa dai legni. Quegli occhi, fessure scavate nella pelle grigiastra, si stavano abituando un poco alla volta alle tenebre; il naso aquilino, troppo sporgente dalla faccia scheletrica, assaporava l’odore dei dollari misto a quello della zuppa nella pentola in mezzo al tavolino di fronte a lui. Il corpo gracile, allungato e leggermente ingobbito, con due stecche storte al posto delle gambe. Le mani, simili a dei ragni le cui zampe, ossute e giallastre, accarezzavano il denaro con estrema avidità. Il buio invadeva la stanza, si alzò dallo sgabello e si decise ad andare a letto: spostò il cappello, si tolse gli abiti neri piegandoli con accuratezza e, avvicinatosi un’ultima volta alla finestra, diede una veloce occhiata al deserto, il suo regno, la sua fonte di risorse. Quell’essere nero a lui tanto amico si aggirava là fuori, tra le dune. Inarcò il labbro in un ghigno di gioia, mostrando al vetro i denti ingialliti. Messosi a letto, con le mani giunte in preghiera, si rivolse a Dio chiudendo gli occhi, perché gli donasse un’altra giornata fortunata: gli rimbombarono nella testa le parole di quel tizio che aveva minacciato lo sceriffo durante il pomeriggio. Lo sceriffo non aveva fatto nulla, come sempre. Non aveva cercato né di fermare quell’uomo, né di proteggere la cittadina. Era da sempre così, per quanto si ricordasse; e i criminali andavano e venivano, sparavano e uccidevano. I vecchi abitanti, partiti con la febbre dell’oro, erano ora in balìa dei criminali e si erano forse anche stancati di cercare un nuovo sceriffo. Aprì gli occhi per un istante, pensò a come dovesse essere piacevole avere uno sceriffo in grado di sparare, la mano più veloce del West: ne avrebbe uccisi tanti. Scoppiò in una risatina isterica: soldi, soldi, soldi! Inebriato da quella visione, si girò sul fianco e dormì. I primi raggi di luce illuminarono la stanza. Si riparò gli occhi con la mano, mentre con l’altra cercò sotto il letto il bastone con il quale tirò le tende di sacco: si fece l’oscurità. Riprese la pentola del giorno prima e, scrostata la zuppa, se la mise in bocca, accompagnandola con un tozzo di pane secco. Dopo la colazione, messi gli abiti da festa, neri e tenebrosi, si recò nella seconda stanza del suo covo, adibita a bottega. Scorse un sigaro sotto la segatura e la paglia, lo pulì e se lo accese. Iniziò quindi a levigare le lastre di legno, aspettando che i soldi venissero da lui. Le sue lunghe mani raggrinzite lavoravano il legno con sapienza in una danza macabra, che gli richiamava alla mente ogniqualvolta le sue umili origini: lui, figlio di un falegname dell’Est, partito alla ricerca dell’oro, nella sfiducia generale della sua famiglia, era ora quello che non avrebbe mai pensato suo padre: era un’artista, un’artista del legno. Bastava saper pazientare e i soldi entravano nelle sue tasche. Mentre suo padre doveva faticare delle ore per racimolare qualche spicciolo, lui danzava, levigava e aspettava. Inebriato da questi pensieri, staccò la mano dal legno e, con lo sguardo fisso nel vuoto - quasi a guardare le immagini che scorrevano nella sua testa – se la passò sul volto per asciugarsi dalle gocce di sudore. Alcune schegge gli finirono in bocca e il sapore della segatura lo riportò alla realtà. Aveva quasi finito la sua opera. Sputò a terra il legno, prese un altro sigaro e se lo accese. Guardò l’ora. Il suo orologio tascabile d’oro segnava le dodici. Con una risata nervosa, si sedette alla finestra. E aspettò, pensando ai soldi che, da lì a poco, avrebbe potuto toccare. Prese una piccola scatoletta di latta dalla dispensa e, con il cucchiaio della sera prima, mandò giù i ceci in piccoli bocconi. Ora faceva particolarmente caldo, il sole era alto e il deserto bruciava. Guardò la cittadina: un mucchietto di soldi fumava la pipa con il cappello calato sugli occhi, sotto il portico della parrocchia. Accanto, dalla chiesa, tanto bianca da abbagliare i suoi occhi di serpe, uscirono dei bimbetti. Alcuni avevano già un cappello, le ragazzine una bandana per ripararsi dal sole. Un paio di ragazzetti si spintonavano, uno rotolò nella terra. Per ultima, lei, una donna sulla trentina, bionda; due guance sproporzionate rispetto al visino e al corpo esile. Il vestito azzurro la rendeva ancora più sgradevole. Quella donnina stomachevolmente graziosa era la maestra della scuola. Alle assemblee cittadine aveva sempre sostenuto ideali di giustizia e democrazia, per un futuro migliore per i suoi giovani studenti. Guardando la scena da dietro la finestra, scoppiò in una risata amara, unendo le dita in una ragnatela sottile. Scosse la testa e sibilò poche parole: “Il male e il bene, piccola sgualdrina, non esistono” e aggiunse ad alta voce “esistono la vita e la morte”. Si girò, scrutando nella semioscurità della stanza. Scorse due mosche, intente a lottare sulla pentola che era sul tavolo dalla sera prima: l’una tentava di resistere agli attacchi del’altra per difendere il proprio posto. Si compiacque: quella lotta era la fonte del suo guadagno. Rise. E gli uomini lottano spesso. Lo scocco della frusta lo destò dalla sedia. Erano arrivati; finalmente. Congiungendo le mani speranzoso, scostò con il gomito la tenda e soffermò il suo sguardo su quell’uomo, aspettando di vedere le sue mani avvicinarsi alla cintura. Il bandito, alzata la testa, si guardò intorno, posando gli occhi sulla banca. Ed eccolo, quello sguardo assetato di soldi si accese: con una rivoltella nelle mani, si incamminò verso il suo obbiettivo. L’aria era ferma e il sole scottava le fronti degli abitanti attaccati ai vetri per vedere la scena. In piedi e strabuzzando gli occhi, tremava dalla voglia di vedere cosa sarebbe successo, con il cuore che gli batteva a mille: era la parte che preferiva, intravedere da lontano i soldi dopo la lunga attesa; a ogni passo che quel pover’uomo faceva verso la banca, sentiva che i soldi si avvicinavano alle sue tasche. All’improvviso, dal nulla, uno sparo. Due spari. Il corpo dell’uomo steso a terra, i suoi occhi fissi nel vuoto, verso il cielo. Con un gesto di stizza, scattò fuori dalla stanza, imitando la gente. Si fece strada tra la folla e lo vide lì, morto. Il divertimento non c’era stato. Dannazione, la parte più dilettevole. Ora il mucchietto di soldi era buttato a terra, in sembianze umane. Ormai niente era più da vedere, la folla stava diminuendo, quando una donna uscì da una via secondaria piangendo silenziosamente, nelle mani un fucile. La signorina maestra si puntò il fucile in bocca. Un colpo. Il divertimento tornò, tutt’a un tratto. Rise tra sé e sé, interrogandosi sulla condizione della donna. Ma mettendo da parte il pensiero, prese il metro e misurò i due corpi. C’era una volta nel lontano West un uomo la cui vita era la morte della vita altrui. C’era una volta nel caldo del deserto un uomo che per sopravvivere faceva il becchino. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Once upon an alternative time
Sarebbe finanche assai facile iniziare questo racconto con il canonico “c’era una volta”. E se non fosse che per la necessità di restare in tema, statene pur certi, avrei escogitato chissà quale ombroso mistero per sollazzarvi sin da principio in diversa maniera e raccontarvi d’un mondo diverso da quello scontato. Ma proprio non posso, mio Sire. E per quanto banale vi possa sembrare codesto giullare, sappiate che anche stavolta, il tutto comincia con: c’era una volta una formica. Ma non una formica di quelle qualunque. La formica di questo racconto è quella che ebbe l’onore e l’onere di bacchettare l’estiva cicala canterina. Tornata nelle stanze della propria colonia ricevette le congratulazioni direttamente dalla Regina. Fino ad allora nessuno ebbe l’ostinazione di catechizzare quella fastidiosa accattona. Certo, imparare il linguaggio delle cicale non fu impresa facile ma alla fine, proprio quella formica, riuscì a rispondere facendo presente che, cantare per tutta un’estate, non poteva che portare a morire. E mentre lei sgobbava per procurarsi del cibo già ripensava alle scorpacciate notturne durante i freddi e bui inverni che l’attendevano. Peccato che quella famosa formica morì di lì a qualche giorno. E questo nessuno ebbe mai il coraggio di raccontarlo. Morì anche la cicala, è vero, ma passò il resto di quei pochi giorni ad accoppiarsi scongiurando la morte. Che poi, povera cicala: avesse davvero lei scelto quel destino meschino di dover cantare un’estate intera? Neanche quello, la sorte, le ha potuto donare. Ma questa è anche la storia della famosa volpe che, scocciata, lasciò quel grappolo d’uva appeso battezzandolo come acerbo. Da tutti considerata soltanto arrendevole e vigliacca, quella volpe è in verità la più caritatevole che il regno conosca. E non sgrani gl’occhi a codeste parole mio inarrivabile Sire. Chi, affamato, rinuncerebbe davvero ad un succulento grappolo d’uva solo perché troppo distante? Nessuno e neanche quella volpe fece altrettanto. Così, seppur rammaricata nel dover condividere, decise di cercare qualcuno che il destino potesse premiare. Passò da quelle parti un cinghiale. La volpe non perse occasione per decantare le virtù di quella vigna carica d’uva. Lo scuro compagno di storia, era così affamato e goloso che decise di abbattere a testate quanti più tralci possibili. E cadde a terra non solo quel grappolo, risultato poi veramente acerbo ma buona parte del resto del raccolto. E la volpe ed il cinghiale mangiarono fino a saziarsi come mai ebbero fatto. Infine, vostra Maestà, questa è la storia di quella lepre disgraziata che s’addormentò facendosi battere da una tartaruga. Ma voi l’avete mai veduta una lepre dal vivo? Riuscirebbe a farsi spaventare da una foglia che cade! Com’è mai possibile che s’addormenti per un così lungo tempo? La verità, vostra Maestà, è che quella lepre ben conosceva la storia di quell’anziana tartaruga. E pur di non darle un dispiacere e ben consapevole della lezione che voleva insegnare, perse miseramente passando alla storia come la lepre più stolta e sorda che sia mai esistita. Ma è proprio grazie a quel gesto d’altruismo se oggi, noi tutti, possiamo imparare che nulla è davvero come ci pare. Ed ora, mio Sire, per quanto sia assurdo ed azzardato dar retta a un cialtrone, consideri il gesto che sto per fare come l’autentico augurio di un uomo ormai condannato che nulla ha da perdere se non l’azzardo e il fato. Vorrei regalarvi il mio mantello e codesti pantaloni di prezioso velluto. Ma per piacere, abbiate la decenza di levarmi dagli occhi la visione di voi nudo e di quel vostro gingillo reale che continua a distogliere la mia attenzione in questo momento solenne e ufficiale. E poi condannatemi se lo ritenete opportuno. Ma prima di farlo, vi prego, trovate la fuori un bambino innocente e domandategli che cosa vede: l’ Imperatore dal vestito prezioso o solo un ignaro, ignudo che s’è fatto finora beffare da falsi, vigliacchi buoni solo a corteggiare? |
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La favola di Dalia
C’era una volta un’eroina, che era in realtà un’esile bambina, così piccola e bianca che molti la scambiavano per una bambola di porcellana. Dalia si chiamava, e a quel tempo aveva nove anni, giorno più giorno meno. Dalia aveva un dono, più unico che raro: riusciva a migliorare le persone. In che senso? direte voi. Ora ve lo racconto, questa è la sua storia. La piccola Dalia nacque in una grande città, da genitori amorevoli, in un modernissimo ospedale. Venne al mondo senza difficoltà, giusto un po’ prematura, nessun piagnisteo o inutile lamento. I suoi occhioni scuri studiavano il mondo curiosi, la testa scattava a destra e sinistra, gambe e braccia in continuo movimento. Era già speciale, ma ancora non lo sapeva. A differenza però di altre migliaia di pargoli, trascorsi i primi anni di inconsapevole felicità tra casa, scuola e giochi all’aperto, si trovò improvvisamente ad affrontare un terribile nemico. Forse lei se ne accorse troppo tardi, forse lui si fece sotto già molto forte, difficile dirlo. Eppure Dalia non si tirò indietro, la piccola eroina in gonnella affrontò con coraggio il difficile scontro, che a tutti gli effetti non fu mai giocato ad armi pari. L’infimo nemico si dimostrò infatti un grandissimo vigliacco: non l’attaccò di fronte, come avveniva negli epici duelli tra magnifici cavalieri o nelle polverose sparatorie del vecchio west. Non ebbe nemmeno il finto coraggio di coglierla alle spalle, di sorpresa, nella millenaria tradizione dei migliori assassini. E da dove, allora? vi starete chiedendo. La attaccò dal luogo più inaspettato e nascosto, dal punto meno difendibile di tutti: lui l’attaccò dall’interno. Ebbene sì, viscido come un serpente si insinuò nel labirinto umido e ombroso del suo giovane organismo, strisciando indisturbato tra ossa e tessuti, scegliendo infine il posto che gli parve più adatto. Fu così che l’ospedale divenne la sua casa, il suo rifugio e anche il suo terreno di battaglia; ma Dalia era pur sempre un’eroina, non bastò questo primo, maledetto attacco a scoraggiarla! Usò tutte la armi a sua disposizione: laser, radiazioni, pillole, massaggi…mai si arrese, mai gettò la spugna. Si racconta però che la cosa più straordinaria di questa lotta, continua ed estenuante, non era tanto la strenua resistenza della piccola guerriera, o la sua mancanza di paura, ma quel potere quasi magico che emanava dal dolcissimo viso, la sua capacità più vera e naturale: sorridere, sempre e comunque. Ecco il suo vero segreto, la sua forza, il suo insegnamento. Che fosse in mezzo ai “grandi”, come li definiva lei, o insieme ad altri compagni di sventura, tutti piccoli ed eroici combattenti, Dalia spiccava come una stella nell’oscurità della notte per quel suo splendido sorriso. Ed era proprio così, sorridendo senza esitazione, che lei cambiava le persone. Gli occhialuti medici dalla bianca veste, i simpatici e rumorosi infermieri, gli uomini e le donne che incontrava nei suoi giri all’aperto, talvolta burberi e scontrosi, tutti subivano il suo fascino, la serenità con cui affrontava l’invisibile nemico. Era sveglia e molto attenta, la piccola Dalia. Sapeva bene che ogni mese, forse addirittura ogni giorno, poteva essere l’ultimo su questa caotica e bellissima terra, e forse per questo viveva come nessuno sapeva vivere, assaporando intensamente ogni attimo di luce, ogni respiro profondo. Forse per questo osservava affascinata il progressivo mutare delle stagioni, odorava deliziata i fiori dei vasi e le margherite dei campi, ascoltava rapita il canto degli uccelli e la ninnananna di sua madre. Si dice che un giorno andò da un ragazzo triste e isolato che piangeva sempre, era preso in giro dal consueto branco di adolescentis ignorantis per il suo aspetto. “Dicono che sono un down, che sono diverso da loro, che non capisco…invece io capisco, capisco tutto!”. Allora pare che Dalia gli sorrise, come faceva sempre, gli poggiò la dolce mano sulla spalla e gli disse queste parole, o qualcosa di molto simile. “Loro ridono di te e anche di me perché siamo diversi, ma è proprio questo il bello! Allora sai noi cosa facciamo? Noi ridiamo di loro perché sono tutti uguali, come un bel branco di capre”. Ecco, questa era Dalia, la nostra eroina. Dalia aveva anche un sogno nel cassetto, nemmeno troppo nascosto. Semplicemente, voleva volare. Desiderava affrontare l’emozione del vuoto, librarsi in alto come le nobili aquile, o i velocissimi falchi pellegrini. Allora, in un fresco giorno di primavera, il padre le bendò quegli occhi curiosi e, ignorando le premurose proteste della madre, la portò sulla cima di un monte. Qui, come un grande volatile di tela, sostava un colorato aliante che l’avrebbe lanciata nel limpido cielo blu. E così Dalia realizzò il suo più grande sogno, lanciandosi coraggiosamente dall’alto picco, legata al padre tramite la sottile vita, e lasciandosi trasportare dal capriccio del vento: vivendo sulla pelle, fisicamente, quella libertà che già le apparteneva nell’animo. C’era una volta Dalia, ma ora non c’è più. Passati pochi giorni da quel primo e unico volo, il nemico alla fine si dimostrò troppo forte, persino per lei. E così da qualche tempo non si ode più la sua vocina allegra inondare le corsie dell’ospedale, la sua risata pura e cristallina non si perde più nel vento dei prati e nei boschi dei dintorni. I suoi grandi occhioni scuri non spiccano più sulla testolina immacolata, e nessun adulto prova ora il piacere di rispondere a tutte le sue domande, o a ridere e stupirsi di quelle semplici osservazioni che solo una mente giovane e libera può esprimere. Allora ha vinto il nemico direte voi. Ha vinto il male, non c’è speranza, è stato tutto inutile. E invece no! Il nemico ha perso perché anche lui non c’è più, e non solo per questo. Ha perso perché ha donato al mondo un’eroina come Dalia, le ha dato una forza che molti di noi non riescono nemmeno a sfiorare, le ha fatto vivere una vita unica, come tutte le vite, ma intensa e appassionata come poche altre. Non starete mica piangendo, vero? Lei non lo vorrebbe, lei non lo avrebbe permesso. Lei sarebbe già lì, a sfiorarvi con le sue manine delicate, regalandovi il più dolce dei sorrisi, facendovi forse cambiare idea su cosa è giusto e cosa è sbagliato, sul valore reale delle cose, sull’importanza del tempo e la potenza dell’allegria. C’era una volta Dalia, e in realtà c’è ancora oggi. Lei vive nei ricordi di chi l’ha conosciuta, e vive anche, eternamente, tra le righe di questo racconto. |
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I Narratori
Il giovane uomo lava il corpo del suo Maestro, preparandolo per il Fuoco Finale, il momento in cui l'anziano potrà finalmente essere liberato dalla costrizione del corpo terreno per tornare da Mìsh, al contempo Padre e Madre di tutti noi. Non può fare a meno di osservarne con attenzione le venerande mani, macchiate dall'età avanzata, eppure con le unghie perfettamente curate. Il Maestro è stato un uomo pulito e gli insegnato ad esserlo, nei quindici anni in cui l'ha allevato e educato. Il corpo esanime è ora magro, scavato dentro dalla malattia che l'ha consumato negli ultimi mesi e lo fa sembrare ancora più minuto di quanto non sia stato in vita. Quando l'aveva raccolto nei Bassifondi di Jik, gli era sembrato immenso e fortissimo, anche se si era trattata soltanto della percezione di un bimbo. Le monache del piccolo monastero in cui verrà celebrata la funzione mortuaria lo aiutano, ma l'uomo sa che deve essere lui a compiere il pietoso lavacro, in prima persona. Glielo deve, perché per lui quell'uomo è stato tutto, famiglia e casa, protezione e istruzione, maestro e amico. Gli ha anche dato un nome, poiché non ne possedeva uno, orfano abbandonato, più simile a una bestia che a un essere umano. L'ha chiamato Oneìm, che nella Vecchia Lingua significa 'Il Primo'. Non ha mai capito perché proprio quel nome, non gli è mai parso di essere il migliore, solo uno dei tanti. Forse il Maestro ha visto qualcosa in lui che non è ancora emerso e che forse non emergerà più ora che se ne è andato. Il giovane uomo alza lo sguardo e guarda il vecchio volto, incorniciato da una curata barba bianca, degna di un Narratore. La carnagione scura lo indica come un gomoriano, così come la bassa statura e la grande bellezza dei lineamenti, mai svanita nonostante l'avanzare dell'età. Le palpebre sono abbassate, ma Oneìm sa bene che non si tratta di semplice sonno. Gli occhi sono ormai senza scintilla vitale e una lacrima scorre sul volto di quello che è solo poco più di un ragazzo. Rivede il Maestro più giovane, anche se già anziano e rivede sé stesso bambino, raccolto da poco tempo. “Maestro, perché prima di una Storia dovete dire quella strana frase, 'Once upon a time'? Non ha senso, non significa nulla”. Oneìm ricorda ancora il dolore per il manrovescio ricevuto all'orecchio come punizione. “Ormai lo dovresti sapere ragazzo, eppure ogni volta me lo chiedi e ogni volta mi vedo costretto a picchiarti. E' tutto quello che è rimasto della Prima Lingua, quella precedente alla Vecchia. Era la frase che usavano gli Antichi venuti dal cielo quando raccontavano una Storia e ha il potere di far stare in silenzio un uditorio in modo che tutti gli ascoltatori siano richiamati all'attenzione. In quei lontani tempi le parole avevano una magia che purtroppo ai nostri tempi non hanno più ed è per questo che la nostra Gilda usa ancora la Frase, perché ha potere e funziona con ogni popolo e ci permette di esercitare la nostra Arte ovunque”. Il Maestro gli ha insegnato a leggere e scrivere, primo passo nell'educazione di un futuro Narratore, ma soprattutto gli ha insegnato a Ricordare. Ricordare è il fulcro dell'Arte ed è un modo di vivere le Storie oltre che di memorizzarle. Una Storia non è una poesia e neppure una canzone, bensì una forma d'espressione che presenta caratteristiche di entrambi i generi pur essendo 'altra'. Non la si canta né la si declama, bensì la si Narra. Non ha ritornelli, eppure è musicale ed è dotata di un ritmo, sempre diverso da componimento a componimento. Non ha mai un linguaggio aulico, si rivolge piuttosto al cuore e alla pancia della gente, sapendo far ridere o piangere, far sognare o amare, che l'ascoltatore sia un Re o un pastore. Un Narratore quando vuole raccontare una Storia, alza le mani al petto e comincia a muoverle secondo il ritmo previsto dalla Narrazione. Tutti gli astanti lo seguono a loro volta con le mani e soprattutto con il capo e l'ondeggiare amplifica ulteriormente l'effetto d'immersione totale all'interno delle parole. Le Storie sono centouno e un Maestro Narratore le Ricorda tutte e le sa raccontare in un qualunque momento, soprattutto a richiesta. I più abili tra i componenti della Gilda rimangono fissi presso una Corte, un nobile mecenate oppure una ricca Locanda e vengono pagati profumatamente per i loro servigi. La maggior parte vagano per il Continente, da Città in Città, da villaggio in villaggio e portano un raggio di sole nelle vite dei contadini e dei lavoranti, ben accolti ovunque. Dappertutto vi è qualcuno che conosce qualcuna delle centouno Storie perché fanno parte di noi in quanto uomini e donne, ma solo qualcuna e mai tutte. Invece un Narratore le sa raccontare tutte, perché lui le Storie le Ricorda. Tutti ospitano e dividono il loro cibo con uno di loro e se possono gli danno anche una moneta, perché si sa che porta buona sorte. Perfino i selvaggi guerrieri Bulaj non li uccidono o derubano, anzi li accolgono presso i loro bivacchi, dividendo con loro la cacciagione e rimangono in silenzio ad ascoltarli anche se per lo più non comprendono la Lingua Comune. A loro basta la voce e il ritmo e i loro occhi sognano come quelli di chiunque altro, perché il potere delle Storie va oltre la comprensione delle parole, anzi è intrinseco al semplice atto del Narrare. E' tutto racchiuso nella Frase, in quel “Once upon a time”, è lì il segreto e il cuore dell'Arte e in un certo senso la maledizione, perché quando si impara a Ricordare non si riesce più a smettere, fino alla consunzione e alla morte. Nel corso degli anni il Maestro gli ha raccontato la sua vita e si può dire che sia stata un'esistenza straordinaria. Prima che l'anziano prendesse l'Anello, i Canti erano soltanto novantanove. Due li ha creati lui, quando era Narratore presso la Corte di Akram e l'amante della sorella del Re. Da piccolo Oneìm si è bevuto tutte gli aneddoti che gli sono stati raccontati, pensando a quanto grande e abile fosse il Maestro. Poi durante la pubertà ha cominciato a mettere in dubbio la veridicità dei racconti, probabili fanfaronate di un vecchio abituato a raccontare storie per professione. Eppure in seguito ha dovuto ricredersi, poiché ogni volta che hanno incontrato un appartenente alla Gilda, il Maestro è sempre stato trattato con grande deferenza e rispetto e indicato come “Il migliore tra tutti noi”. Oneìm però ha notato come nessuno l'abbia mai chiamato con il suo vero nome, quasi che non dovessero pronunciarlo di fronte a lui, l'Allievo. Per il resto il vecchio non gli ha mai nascosto nulla, neppure il fatto di come abbia perso tutta la fortuna guadagnata ad Akram in una sola mano, giocando a Mattoni Colorati. Di come gli siano usciti i Sette Neri, la sfortuna della sfortune, mandata senza dubbio dai Demoni del sottosuolo per i peccati carnali commessi con la Principessa. Due anni prima il Maestro l'ha portato al grande raduno della Gilda, presso la Radura dell'Albero di Hut, il luogo ancestrale ove sono soliti riunirsi i Narratori ogni vent'anni. E lì finalmente ha compreso che cosa sia la grandezza e come tutto ciò che gli era stato raccontato fosse vero. Tutti si sono inchinati davanti a Hunki, il suo Maestro e tutti hanno invidiato il ragazzo, perché vicino al più grande del suo tempo, che fossero membri girovaghi della Gilda o residenti presso la Corte di Fantiriam. Oneìm ha anche scoperto di non essere stato il primo Allievo, ma addirittura il terzo e che i precedenti due sono diventati grandi e ricchi esponenti dell'Arte. “Maestro, perché non avete cercato un'altra Corte o una Locanda importante? Siete anziano e avete continuato a girovagare, faticando giorno dopo giorno. Certamente qualcuno sarebbe stato ben propenso ad accogliervi anche se ora credo che voi non l'abbiate voluto: mai avete pronunciato il vostro vero nome, famoso ovunque e mai lo avete rivelato, neppure a me”. “Hai ragione Oneìm, ma l'ho fatto per te, perché tu imparassi a diventare un Narratore, conoscendo al contempo la strada e la fatica. Solo chi tra di noi ha affrontato gli stenti è diventato grande senza perdersi nell'orgoglio, nelle comodità o nel denaro. Io come te sono stato un orfano e come te ho girovagato con il mio Maestro per tutto il Continente, prima di apprendere come Ricordare. Ma ora è giusto che tu conosca tutto di me, chi io sia, ora che manca poco al termine del tuo apprendistato”. Quanto aveva riflettuto su queste parole nelle notti successive e quanto si era concentrato sull'ultima frase del Maestro. A lui sembrava di essere così lontano dal potersi definire un Narratore, da poter gridare al mondo 'Io Ricordo'! Sapeva soltanto metà delle Storie e di molte non aveva ancora appreso tutte le sfumature del ritmo. Eppure Hunki gli permetteva sempre più spesso di Narrare quelle che conosceva alla perfezione, ascoltandolo con palese approvazione e ammirazione. Gli aveva detto che lui era il suo Allievo migliore e che gli altri due avevano impiegato molto più tempo ad apprendere i segreti dell'Arte rispetto a lui. E in effetti negli ultimi due anni, Oneìm ha imparato a Ricordare tutti le Storie in maniera straordinaria, tranne una. Ora Oneìm finisce di preparare il corpo del suo Maestro e ripensa alla notte precedente, alla Taverna del piccolo villaggio in cui si trova. Ricorda la gioia con cui sono stati accolti dalla gente, avendo tutti notato l'Anello al dito di Hunki mentre entravano nell'abitato. Il capo villaggio ha rivelato loro che da ormai tre anni non arrivava in quei luoghi un Narratore e ora addirittura ve ne erano due, un Maestro e un Allievo. Hunki e Oneìm si sono alternati nella Narrazione, arrivando addirittura a otto Storie, un numero impossibile per un uomo solo. Alla nona è accaduto il disastro: toccava al Maestro perché era stato richiesta la Storia centouno, la più difficile tra tutte, essendo l'unica priva di ritmo, la sola che Oneìm ancora non Ricordava. E' infatti sgangherata e studiata per risvegliare i dormienti e gli ubriachi, essendo una Storia di chiusura, normalmente richiesta dall'oste per mandare via la gente. Narra di come un uomo e una donna, una volta abbandonata una locanda s'imbattano rispettivamente in una Fata dei Boschi e in uno Spirito del Faggio e si intrattengano sessualmente con loro. Saltella in varie direzioni e mette il desiderio a chi è ancora in un locale di andarsene fuori a cercare creature fatate da insidiare. Il Maestro non ha quasi fatto tempo a pronunciare la Frase che si è sentito male e così l'allievo è intervenuto e ha saputo Ricordare e Narrare l'unica Storia che ancora non conosceva, e finalmente in modo eccellente, come tutte le altre. Quando ha finito il Maestro era già morto, ma il giovane uomo ha fatto in tempo a vedere come Hunki l'abbia guardato con approvazione, attraverso l'ultimo sguardo. Una delle monache, piccola e scura di carnagione, gli si avvicina per celebrare il grande uomo, poiché ha rivelato loro l'identità del defunto. “Ragazzo, un grande Maestro se ne è andato. Gli diedero il nome a lui adatto, dato che in gomoriano Hunki significa 'Il Primo'” Ora Oneìm capisce, sa di poter infilare l'Anello perché conosce tutte le Storie e indovina la ragione del suo nome. Ora è lui il Migliore, quello destinato a raccogliere il testimone del suo mentore, nonostante la giovane età. L'impossibile accade, poiché Ricorda una Storia sconosciuta che in realtà è la vicenda terrena del suo Maestro, l'avventurosa vita di un Narratore, del migliore tra tutti loro. Oneìm porta le mani al petto e comincia a muoverle seguendo un ritmo, il ritmo di una grande esistenza. “Once upon a time un bimbo nato a Gomor...” Le monache e i becchini rimangono ammutoliti, poi cominciano a seguire le mani del nuovo Maestro, ondeggiando con la testa, rapiti dalla bellezza di quella Storia, la centodue. Nel giro di pochi mesi arriverà ovunque nel Continente, perché una nuova Storia si diffonde rapida come un incendio, così come la gloria del primo Narratore che la Ricorda. |
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Un vero rompicapo
L’uomo si schiarì la voce e cominciò a leggere: “Tanti, tanti anni fa - c’è chi dice un milione, c’è chi dice un miliardo - l’umanità raggiunse e colonizzò anche l’ultimo pianeta abitabile della galassia.” Sììì papà! Mi piacciono le storie con i viaggi spaziali! L’uomo sorrise e riprese la lettura. “I più grandi scienziati volsero lo sguardo in avanti, rendendosi conto ben presto che la galassia più vicina era davvero troppo lontana per essere raggiunta con i loro antiquati sistemi di trasporto. L’Imperatore indisse dunque una grande assemblea tra gli studiosi più saggi e di tutto l’Impero Galattico. La lunga discussione che prese corpo, durata ben tre giorni, portò alla decisione di voltarsi: non avrebbero più dovuto guardare avanti, ma indietro. Forse potevano tornare su tutti quei mondi che avevano abitato fino ad esaurirne le risorse, sperando di trovarli rifioriti; del resto per quelli più lontani erano passati milioni di anni da quando l’umanità li aveva abbandonati. Dopo altri cinque giorni di acceso dibattito, i cervelloni decisero quindi di iniziare la missione cercando per primo il pianeta da cui tutto cominciò: quello su cui l’umanità era nata e da cui era partita per la sua esplorazione spaziale. Sorse però subito un grosso problema: nessuno conosceva l’esatta ubicazione del pianeta d’origine! Dando fondo a tutti i sistemi possibili, ossia ricerche computazionali, rilettura di antichi libri, analisi delle dicerie del popolo, preghiere a divinità di ogni tipo, sedute di ipnosi, oroscopi, eccetera...si arrivò finalmente ad una possibile posizione del corpo celeste in questione. L’unico dubbio rimasto era quello del nome del pianeta: alcuni propendevano per “Terra”, legandone il significato alla coltivazione di alimenti di prima necessità per la vita umana, altri per “Tetra”, affermando con convinzione che se l’umanità se ne era andata un motivo doveva pur esserci stato, altri ancora per “Tetta”, facendo un chiaro riferimento al ruolo di pianeta madre (questi ultimi erano anche coloro che, curiosamente, non vedevano l’ora di partire). Era un vero rompicapo! Dopo dieci giorni di baruffe e diatribe, l’Imperatore intervenne e decretò, con un’acuta intuizione, che il nome del pianeta non fosse così essenziale e che sarebbe potuto anche restare nel dubbio; ordinò quindi di cominciare finalmente la missione alla ricerca della Te...ehm, del pianeta. L’astronave che partì era stracolma di menti geniali, che avrebbero potuto prontamente risolvere qualsiasi incidente o problema fosse capitato durante il viaggio. Dopo un tempo imprecisato, la nave spaziale giunse infine a destinazione. Il pianeta che si trovarono davanti non era però come speravano che fosse: la totalità delle terre emerse erano desertiche o ricoperte da ghiacci perenni e gli oceani risultarono profondamente inquinati. Gli scienziati non si persero d’animo e fecero immediatamente la cosa più saggia (e che sicuramente riusciva loro meglio): si riunirono in uno stretto conciliabolo. Dopo quattro giorni di sudati scambi di opinione, arrivarono alla naturale e logica intuizione che se questo primo pianeta era in queste pessime condizioni, allora sicuramente anche tutti quelli occupati successivamente dall’umanità dovevano esserlo, per un semplice ragionamento di tempo trascorso. Questa rivelazione li portò allo sconforto ed al pianto ininterrotto. All’alba del secondo giorno di lacrime, si erse dal concilio la mente più eccelsa del tempo, che invitò i colleghi a smettere di intristirsi per gli errori commessi in passato ed a rimboccarsi le maniche. Decisero quindi di cercare su quel primo pianeta tracce di come l’umanità viveva prima di cominciare a diventare un virus sfruttatore di mondi, per poter tornare a casa ed applicare questi insegnamenti, così da salvare almeno gli ultimi luoghi rimasti abitabili nella galassia. Gli anni passarono infruttuosi, dato che la ricerca produceva solo desolazione e sabbia. Infine, in un’incredibile quanto insolita condizione ambientale sotterranea che ne aveva impedito la degradazione, venne ritrovato un congegno elettronico che gli scienziati identificarono come una sorta di magazzino dati di tipo ancestrale. Ci vollero altri anni per riuscire a recuperare qualche dato leggibile, convertirlo ai sistemi informatici dell’astronave ed a tradurlo, o meglio decifrarlo, da quella lingua così antica e ormai dimenticata. Una volta ottenuto il risultato, gli scienziati eruppero in grida di gioia, dato che la sezione recuperata, che al momento del ritrovamento era intitolata con un criptico “once upon a time”, era stata tradotta dal computer di bordo come “c’era una volta”, che sembrava identificare appieno quello che stavano cercando: una qualche descrizione di come l’uomo fosse riuscito a vivere prima di cominciare a devastare il proprio pianeta e l’intera galassia. Dopo dieci giorni di meritata festa, gli scienziati posarono i fiaschi di vino e si decisero ad andare oltre il titolo, leggendo finalmente anche il resto dei dati recuperati. Chiamarono quindi l’Imperatore in videoconferenza e scelsero come lettore lo scienziato che tempo addietro aveva avuto la geniale idea di effettuare quella ricerca. L’uomo si schiarì la voce e cominciò a leggere: |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Luna meno un quarto
Andavo sempre in quel locale perché c’erano tre sorelle bariste niente male. In realtà ci andavo solo perché una delle tre era una figa pazzesca. Si chiamava Giulia e sapeva perfettamente di essere il centro dell’attenzione. Le due sorelle ci avevano fatto l’abitudine, anche se la più piccola, Olga, aveva delle gran tettone e questa cosa andava sempre bene. Purtroppo era davvero troppo giovane per non farmi sembrare un vecchio porco bavoso, e quindi ci avevo messo una pietra sopra. Tanto la mia attenzione era focalizzata esclusivamente su Giulia. Si poteva calcolare un numero approssimativo di quindici/venti corteggiatori all’ora. Il che non permetteva al singolo aspirante di poterci interagire per più di tre minuti. Cercavo di farla ridere con qualche battuta ma non era il tipo di ragazza che si metteva a ridere. O magari qualche volta sorrideva ma solo per questioni di correttezza politica. Olga invece il più delle volte si sbellicava senza contegno, con tanto di manine sulla pancia, mentre il petto le ballava su e giù in modo ignobile. Però era sempre allegra, e alla fine era l’unica con cui parlavo. La terza sorella era Monica. Avevo saputo il suo nome per caso – era anche l’unico nome che non avevo scoperto chiedendolo direttamente all’interessata. Era la più grande delle tre e non saprei che altro aggiungere dato che non le avevo quasi mai parlato. Una sera particolarmente calda avevo in serbo una battuta coi fiocchi. L’avevo inventata mentre camminavo in direzione del locale. C’era la luna e le mancava uno spicchio. - E’ luna meno un quarto – dissi a Giulia Lei guardò l’orologio alla parete. Segnava le undici ed era perfettamente funzionante. Le feci cenno di guardare la luna che risplendeva da una finestrella. Lei la guardò e non sembrò capire la battuta. Forse non c’era proprio arrivata. Olga - che senz’altro non c’era arrivata - si era piegata in due dalle risate. Persino Monica aveva sorriso. Lo avevo notato perché si era fermata di fianco a Giulia a guardare dove indicavo. - Vabbè, prendo un mojito Non che mi piacesse granché il mojito, ma almeno era bello fresco. Naturalmente me lo aveva preparato Olga, che nel mentre mi aveva confidato il suo piano di conquista del mondo. - Sai, io sono molto intraprendente. Dopo l’estate voglio partire e girare il mondo e fare un po’ quello che capita. Lavo anche i piatti. Tanto lo faccio già qui. E poi, se mi ricordo di un motivo per cui tornare, torno E giù a ridacchiare. E io con lei, poveretta. E povero me. Ero incastrato in questo posto dove non conoscevo nessuno per via di un lavoro che nemmeno mi piaceva. - Sta uscendo con qualcuno Giulia? – chiesi sottovoce a Olga - Penso di no Che cazzo di risposta è? - Phil, vieni qui! – urlò uno che avevo riconosciuto in un mio collega di lavoro Era seduto a un tavolo di soli uomini, tutti ancora in giacca e cravatta. Conoscevo solo un paio di altri colleghi. Gente abbastanza simpatica. Mi sedetti con loro ma non riuscivo ad ascoltarli. Ero ipnotizzato da Giulia. Era praticamente perfetta. Magra ma muscolosa. Capelli castani, chiari. Abbronzatissima. Due tette mica male e un culo da ergastolo. E poi questo sguardo sempre un po’ incazzato che me ne andavo fuori. Stasera l’aspetto quando stacca. - Scusate, devo andare in bagno – dissi, cercando di divincolarmi dalla morsa di sedie e persone. Feci il breve tratto che mi separava dal bancone e lo costeggiai senza volgere lo sguardo verso Giulia. Raggiunsi l’ingresso delle toilettes e vi entrai. Non c’era un cattivo odore, tutto sommato. Da dentro il bagno, che era inspiegabilmente vuoto, riuscivo a sentire la musica per la prima volta. Perlomeno, mi ero concentrato sulla musica, che arrivava ovattata, per la prima volta da quando ero entrato nel locale. Una musica un po’ di merda, se proprio bisogna dirlo. Tirato lo sciacquone andai verso il lavandino, sopra il quale mi aspettava un piccolo specchio. Mentre mi lavavo le mani vedevo riflesso un uomo con gli occhiali, né vecchio né giovane, che si scrutava con il se stesso fuori dallo specchio come si scruterebbero due che si riconoscono ma non si ricordano dove si sono conosciuti. Una sistemata ai capelli, un paio di smorfie collaudate, ed ero pronto per tornare alla vista di Giulia. Eh sì, stasera è la volta buona. Ordinai ancora da bere tante volte ed ero bello allegro. Altre corse anonime al bagno si alternavano ai drink. Eravamo rimasti in pochi nel locale. E tutti puntavamo Giulia. La fortuna volle che gli altri non si reggevano quasi in piedi. Continuavano a sghignazzare e non sapevano che questo modo di fare con lei non funzionava. Mentre lo pensavo, naturalmente, sghignazzavo. Andai al bancone e le dissi che l’avrei aspettata fuori per accompagnarla a casa. Lei non disse nulla e, mentre uscivo, la vidi con la coda dell’occhio che andava a parlare con Monica. Aspettai fuori un tempo indeterminato e fumai almeno cinque sigarette. Mi ero fatto dei viaggi mentali assurdi su come avrei dovuto comportarmi per non sembrare troppo ubriaco e aumentare le mie chances ma non riuscivo a essere totalmente lucido e quindi di fatto pensavo quasi solo al suo culo. Finalmente le luci si spensero e le tre creature uscirono. Giulia mi venne incontro e mi disse che sarebbe tornata a casa con le sorelle. Si scusava e mi ringraziava; e non aggiunse altro. Ci rimasi di sasso e non riuscii a controbattere. La vidi allontanarsi verso la loro macchina. Stetti lì, come un idiota, a finire il pacchetto di sigarette, sotto quella maledetta luna. Spensi l’ultima sigaretta sulla portiera di una macchina parcheggiata. Luna meno un quarto. Bah. Ma come cazzo mi è venuto in mente? Presi la macchina e la testa cominciava a girarmi parecchio. Le luci mi davano fastidio. A un certo punto, lungo il vialone, delle luci blu. La sirena di un’ambulanza. Sarei passato oltre se non avessi visto Giulia fuori da una macchina sfasciata che piangeva. Parcheggiai e corsi verso di lei, ma era isterica e urlava contro tutti. Mi si faceva cenno di andarmene ma non ne volevo sapere. Cercai di capire cos’era successo e vidi il corpo di Olga sdraiato sull’asfalto accanto alla macchina. Per un attimo ci fu il vuoto nella mia mente, e non per via dell’alcool. C’era un’altra macchina, accartocciata su se stessa, circondata da una mezza dozzina di pompieri. Ancora non erano riusciti ad aprire le portiere. Persino nel mio stato ero riuscito a ritrovare la lucidità per ricostruire idealmente l’incidente. L’altra macchina aveva sbandato e aveva sbattuto frontalmente con quella delle ragazze. Vidi Monica. Era seduta sul marciapiede, circondata dai volontari dell’ambulanza. Piangeva, senza fare rumore. Mi guardò e le sorrisi. Mi sorrise per un attimo e riprese a piangere. Giulia non la smetteva di urlare e la portarono via. Me ne andai anch’io. Smisi di andare al locale per qualche mese. Un giorno vidi per caso Monica. Stava camminando dall’altra parte della strada e aveva appena superato un ragazzotto con gli occhi un po’ vuoti e malinconici, seduto su una cassetta di legno, che vendeva dei fiori. Non sembrava averne venduti molti. Monica si era fermata, aveva chiuso gli occhi e poi era tornata indietro a comprare dei tulipani. Quelli gialli. - Hai scelto i più belli – le aveva detto il ragazzo Chissà se era vero che avesse scelto i più belli. Chissà se il ragazzo lo pensava davvero. In fin dei conti, ha poca importanza. Presi un po’ di coraggio, attraversai la strada e la chiamai. Come si voltò, mi sorrise; e mi parve più bella che mai. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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C'era una Golgota
C'erano una volta o forse due un bimbo riccio e biondo, asino e bue. Zaffate di escrementi giungevano al suo naso, il bue soffiava forte, scaldando in un afflato. Udì per primo il padre, con sega e martello sposato con la Vergine: il bisogno di un bordello. Lei avvolta in una luce, mirava il fanciullino lui non la ricambiava, trastullava il fagiolino. “Tale padre tale figlio!” d'orgoglio gridò forte. Il bue svenne d'un colpo, un embolo alle porte. “Respirazione bocca a bocca?” Si chiesero gli ingrati. “Ma manco per idea, buttiamolo nei prati”. “I prati...bell'idea” pensò il bambino riccio “Peccato che qui intorno non ci sia l'ombra di un faggio Terra infame dove nascer, bella pensata. Nell'altra vita, raccomando, scegliete l'autostrada. Palestina o Israele, spiegate cosa cambia, se ho i soldi di un barbone? Manco in Rwanda. Mi faccio una preghiera, mi crocifiggo io di trasferirmi altrove, lontano dal mio Dio. Vi lascio sotto al cielo, amati confratelli e se cado dal barcone, pregate i miei brandelli. Son certo, son deciso! Son pronto per salpare! Non voglio dei rimpianti, non provatemi a fermare! In verità ho paura, in verità vi dico ma son stanco del mio mondo, io salto nell'oblìo: dimentico la stalla, dimentico i rumori, rimuovo i tuoni forti, cancello i miei tremori. Abbandono il vostro fumo e spiego le mie vele, la rotta è Lampedusa, non voglio più comete. Fossi nato lì in Italia, fanculo voi e Istraele Sarei nato sì più libero, pedofilo ma prete.” |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 16/06/2015 00:49 Da Titivillus.
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