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Ogni persona è un genio. Ma, se giudichi un pesce dalla sua capacità di scalare un albero, passerà tutta la sua vita pensando di essere stupido.
Albert Einstein La scalata imperiale è il tema dell'ottava tornata di UniVersi, c'è tempo fino al 15 novembre compreso per postare il proprio racconto in gara. Ricordatevi che: - Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 6000 (spazi compresi, titolo escluso); potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito. - I racconti devono avere un proprio titolo e devono essere postati in forma anonima, effettuando il login con nome utente Titivillus e password universi. - Qui potete trovare il regolamento completo. RACCONTI IN GARA - Il ciabattino Bhialik (5131); - Red Rocks Everywhere (6000); - La finale (5984); |
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Ehi dol! Bel dol! Suona un dong dillo! Suona un dong! Salta ancor! Salice bal billo! Tom Bom, bel Tom, Tom Bombadillo!
Ultima modifica: 17/11/2015 00:01 Da gensi.
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Il ciabattino Bhialik
“E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo, che non parea s’era laico o cherco.” Dante, Inferno, Canto XVIII Fino all'età di sedici anni non avevo mai visto un paio di scarpe. Non era una cosa strana ai miei tempi vedere gente a piedi scalzi nella cittadina di Homusk. Del resto Homusk era un piccolo e povero villaggio lontano da ogni altro villaggio; così piccolo che quando passava un carro il cavallo che lo trainava ne aveva la testa già fuori quando il culo stava ancora nella piazza; così povero che mi ricordo ancora il giorno quando vidi l’ultimo pidocchio andar via, ma che volete, anche i pidocchi devono mangiare. Eravamo poveri ma anche molto generosi, ci scambiavamo tutto quello che possedevamo: sporcizia, malattie e fame. La povertà non costa niente condividerla. L’unica cosa che abbondava ad Homusk, che poi era la nostra principale fonte di cibo, era una bacca rossa che cresceva su cespugli spinosi. Noi la chiamavamo Tribulaskaja che letteralmente vuol dire: soffrire tre volte. Si soffriva per prenderla tra i rovi, si soffriva per ingoiarla a causa del suo gusto terribilmente amaro e si soffriva una terza volta per il suo tremendo effetto lassativo. La cosa che vedevi più di sovente ad Homusk era la gente correre, non perché fossimo sportivi, semplicemente andavamo il più velocemente possibile fuori dal villaggio, tra i rovi di Tribulaskaja, a liberarci l’intestino. Ora che ci penso questo nome vuol dire soffrire quattro volte. Ma che maleducato che sono, ancora non mi sono presentato, il mio nome è Bhialik e sono un ciabattino. Ma come, direte voi, non ho appena detto che non avevamo le scarpe ad Homusk? Si è vero, ma lasciate che vi racconti la mia storia. Ad Homusk camminavamo a piedi scalzi, e come potete intuire avevamo i piedi parecchio sporchi, soprattutto quando andavamo a scorticarci le natiche fra i rovi di Tribulaskaja. Così, un giorno, presi a modellare la terra che mi rimaneva appiccicata ai piedi e mi feci un bel paio di scarpe. Tutti ad Homusk ammiravano le mie scarpe e mi facevano i complimenti, e tutti ne vollero un paio.Così diventai il Bhialik il ciabattino. Avvenne un giorno che un gran dignitario di corte passò col suo carro e il suo seguito vicino ad Homusk, al dignitario si erano rotte le scarpe così mandò un suo servitore a cercare un ciabattino nel nostro piccolo e povero villaggio, naturalmente tutti gli abitanti fecero il mio nome, così si presentò alla mia porta. Io non avevo idea di come si potessero riparare ma pensai che di certo il gran dignitario non poteva andarsene da Homusk con le scarpe rotte, quale cattiva reputazione ne avremmo ricavato? così dissi al servo di lasciarmele e tornare all’indomani. Quel giorno stesso andai a prendere un bel po’ di terra da sotto i rovi di Tribulaskaja e feci una copia della scarpe lasciatemi dal servo, che l’indomani se le venne a ritirare. Passarono mesi di vita tranquilla ad Homusk, si mangiavano le bacche di Tribulaskaja, si correva verso i rovi di Tribulaskaja, si pativano il freddo, la sete e le malattie. Eravamo felici. Un giorno un altro carro si fermò al limitare del paese e ne scese un altro servo, con un paio di scarpe in un vassoio, che venne diritto filato a casa mia. Mi disse che il conte Tal della casata dei Tali desiderava avere un paio delle mie famose scarpe, come quelle fatte al gran dignitario o anche meglio, e che me le le avrebbe pagate molto bene. Così feci le scarpe anche al conte. Da quel giorno fu un viavai di carrozze e servitori che non si erano mai visti ad Homusk, tutti i dignitari, i cavalieri e nobili del regno volevano le scarpe fatte da me: Bhialik il ciabattino. Finché arrivò ad Homusk un carrozza tutta d’oro trainata da 100 cavalli bianchi, era la carrozza dell’imperatore, che era stata mandata per portarmi al suo cospetto. Così raccolsi un bel sacco di terra da sotto la Tribulaskaja a andai a trovare l’imperatore in un carrozza d’oro. Giunto al palazzo reale fui portato alla sala del trono. Tutt’intorno a me vi erano i più grandi nobili del regno, e tutti avevano le mie scarpe ai piedi. Davanti al trono m’inginocchiai. L’imperatore mi chiese: Come ti chiami e da dove vieni, ciabattino? Mi chiamo Bhialik e vengo dal piccolo e povero villaggio di Homusk, mio imperatore, dissi io. Vedi tutti questi nobili e dignitari - disse l’imperatore - essi vogliono adularmi facendomi dono delle scarpe fatte da te. Dicono che sono le migliori scarpe del regno, e che non ve ne sono eguali al mondo. Ma io mi chiedo, ciabattino, come può l’uomo più povero, un uomo che vive in un paese dove non c’è nulla, fare le calzature senza pari? Con le sole cose che abbiamo ad Homusk, mio imperatore, - risposi - la terra sotto la Tribulaskaja e la merda che ci facciamo sopra. A queste mie parole prima si fece silenzio in tutta la sala, poi tutti i nobili e i dignitari iniziarono a gridare: a morte Bhialik, a morte Bhialik il ciabattino che ha messo la merda dei poveracci ai piedi dei nobili del regno! E sicuramente mi avrebbero messo il cappio al collo se l’imperatore stesso non li avesse fermati con una grassa risata. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Red Rocks Everywhere
Daniel Avramov aprì gli occhi, vedendo solo stelle. Controllò le proprie funzioni vitali e l'integrità della tuta sul computer da polso. Un leggero mal di testa sembrava essere l'unica conseguenza dello spaventoso incidente. “Bastardo incompetente!” Il suo urlo rimbalzò all'interno del casco; lo spazio profondo non l'avrebbe propagato in nessun modo, ma il trasmettitore sì. Si alzò a sedere ed osservò il Mako, ribaltato, con due delle sei enormi gomme che ancora giravano. “Dove cazzo siete? Uscite da lì dentro, idioti!” La gravità non era tanto alta su Kalindus; Daniel si mise in piedi con solo una lieve vertigine. Evitando le rosse rocce di cui la montagna era ricoperta, si diresse a piccoli balzi verso il mezzo di trasporto. Parte della fiancata destra era smembrata, l'uomo si affacciò all'interno; ciò che vide gli provocò svariati conati di vomito, trattenuti a fatica e presto degenerati in un accesso di tosse. L'autista aveva la testa schiacciata sul cruscotto, col casco sfondato; le sue due guardie del corpo avevano la schiena spezzata e le membra disposte in angoli innaturali. Daniel capì che si era salvato perché nell'impatto aveva sfondato uno dei finestrini ed era stato catapultato fuori. “Maledetto stronzo, chi ti ha insegnato a guidare?”...cough cough...”Brutto bastardo, guarda che hai combinato. Meno male che sei morto, altrimenti ti avrei ucciso io.” Prese a pugni la lamiera del veicolo. “Andate in culo, tutti quanti, mi farete fare la figura dell'idiota!” Suo padre non l'avrebbe presa bene: aveva preparato quella riunione da mesi e non avrebbe accettato scuse per un ritardo, di nessun tipo. Daniel fece un paio di respiri profondi per calmarsi ed entrò nel Mako; se avesse chiamato subito i soccorsi forse sarebbe arrivato comunque in tempo. Con orrore scoprì ben presto che l'autista aveva avuto la sfortuna di sfondarsi la testa proprio sulla radiotrasmittente; non c'era possibilità di avvertire nessuno di quel disastro. L'uomo uscì dal veicolo e cadde in ginocchio, disperato. Dopo qualche secondo, alzò gli occhi e notò che la cima della montagna sembrava non essere così lontana, forse c'era ancora una speranza. Si rialzò e cominciò la risalita verso la vetta. Il pianeta Kalindus, scoperto tredici anni prima in una delle missioni di esplorazioni, non aveva presentato alcuna possibilità di terraformazione o di sfruttamento minerario, pertanto era stato scartato come sito di colonizzazione. Il pianeta era però entrato lo stesso nei libri di astronomia per una sua peculiarità: aveva la montagna più alta mai scoperta. Con i suoi 37 km di altezza superava di gran lunga i 22 km del monte Olimpo su Marte. Suo padre Abraham Avramov, settimo Imperatore dell'Impero Galattico, si era preso l'onore di dare un nome a questo formidabile rilievo montuoso e l'aveva prontamente chiamato monte Avramov. Dopo una trentina di minuti di risalita, Daniel si sentì accaldato e decise di prendersi un attimo di pausa, sedendosi su una roccia. Sorseggiando un po' d'acqua dal tubicino vicino alla guancia, osservò il panorama di fronte a sé. Kalindus non aveva un'atmosfera densa come la Terra: la bassa gravità del pianeta tratteneva solo gli idrocarburi più pesanti, che costituivano una sorta di strato di nebbia. Il monte Avramov era così alto che la sua sommità si trovava nello spazio; l'atmosfera era quindi come un manto grigio che copriva il resto del pianeta. Daniel osservò la curvatura del mondo, molto evidente da lassù, poi guardò la stella di quel sistema, poco meno luminosa del Sole. Pensò che sarebbe stato un bel posto dove costruire un bordello. Decise di ripartire. “Maledetti inferiori, per colpa vostra devo sudare come un maiale per arrivare fin lassù. Spero che soffriate all'inferno.” Rifletté che avrebbe dovuto benedire il fatto che il monte Avramov non avesse pendii ripidi, altrimenti non sarebbe mai riuscito a scalarlo; ma scacciò con furia quel pensiero. Del resto tutto era nato dalla sua solita fobia sul teletrasporto: se si fosse deciso ad usarlo si sarebbe teletrasportato direttamente in cima con gli altri, dall'astronave atterrata su una zona desertica alla base del monte, senza essere obbligato a farsi il viaggio col Mako. “Usatelo voi quel cazzo di teletrasporto, io non mi ci disintegro.” Non riuscì a non ripensare al fatto che il disallineamento atomico era un'eventualità ormai impossibile, con i congegni di ultima generazione. Scacciò via anche questo pensiero, imprecando. Era sudato, stanco e furioso, pensò a qualcuno con cui prendersela e lo trovò subito: suo padre. “Vecchio idiota, tu e le tue idee da arterosclerotico. Come può venirti in mente di fare una riunione in questo posto? Avresti dovuto dichiarare guerra e basta.” L'umanità era recentemente entrata in contatto con altre tre specie aliene intelligenti. Dopo brevi comunicazioni di conoscenza, le quattro razze avevano indetto una riunione fra i loro capi per fare il punto sulla colonizzazione della galassia. Suo padre aveva suggerito quel sistema, essendo localizzato più o meno al centro delle zone controllate dalle quattro civiltà. La sommità del monte Avramov era stata scelta come luogo dell'incontro in quanto simbolo del raggiungimento di una comune vetta di civilizzazione. Daniel raggiunse infine la cima, imprecando, con il volto imperlato di sudore. Il pianoro era largo circa due o trecento metri ed era disseminato delle solite rocce rosse, di svariate dimensioni. Non c'era nessuno in vista. Controllò l'ora e vide che la riunione sarebbe dovuta già iniziare da una decina di minuti. Avanzò dubbioso esplorando la zona; dopo qualche secondo svoltò dietro un'enorme roccia e notò qualcosa: sul terreno rossastro c'erano dei mucchi di polvere grigia, disposti in cerchio. Sembravano... “No, non è possibile.” Una scarica di adrenalina gli attraversò la schiena, producendogli brividi in tutto il corpo. “Lo sapevo, lo sapevo! Siete tutti morti disintegrati, ahahah! Addio padre, l'Impero è mio ora. E la galassia lo sarà presto!” |
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La finale
La trasmissione cominciò con le telecamere che passavano in rassegna il pubblico della maestosa Global Arena, splendida struttura da ventimila posti. Erano presenti le maggiori celebrità del momento, le donne più belle, gli uomini copertina, i Capi di Stato o di Governo. Non mancava nessuno e non vi era nemmeno un seggiolino vuoto, in qualunque ordine di posto. Ogni cinque anni vi era una finale, ed era quello il momento di mettersi in mostra e di affermare “Io c'ero”. Ma quell'edizione era più sentita delle precedenti poiché per la prima volta un butterato contadino delle Pianure era riuscito ad essere in lizza per il titolo. L'occhio digitale del regista si soffermò su Pierre Armand, un uomo bellissimo e nobile, circondato dal suo staff composto unicamente da modelle. Le ragazze gli stavano massaggiando le spalle e le braccia, esperte e allo stesso tempo lascive, mentre il numero uno del ranking mondiale teneva gli occhi socchiusi. Quando l'inquadratura si strinse in un primo piano ravvicinatissimo, il campione spalancò gli occhi, sorridendo all'obiettivo con fare sapiente. I cuori di tutte le donne del mondo cominciarono a palpitare, mentre le labbra formavano il bacio che ognuna avrebbe voluto rubargli. L'inquadratura passò svogliatamente sullo sfidante, Bob Kampa, l'uomo che aveva osato “interferire” nella Gara. Le stesse donne che avevano palpitato pochi istanti prima, distolsero lo sguardo, disgustate. Mentre il corpo del suo avversario era slanciato e perfetto, modellato da anni di palestra e interventi estetici, quello di Bob era sgraziato e tozzo. Una spalla decisamente più bassa dell'altra, le gambe troppo corte, le braccia più lunghe del normale, così che nelle Città era stato soprannominato “La Scimmia”. Eppure gli occhi di Bob bruciavano di vita, due tizzoni di energia e forza. Non aveva alcuno staff e in quel momento stava affilando da solo le Lame, brutte a vedersi poiché logore e annerite dall'uso prolungato. “Non lasciarle mai, figlio mio, saranno loro a portarti alla grandezza. Le nostre Lame sono passate da un Capo Famiglia all'altro, sono la storia della nostra gente”. Le ultime parole del padre, pronunciate sul letto di morte, continuavano a rimbalzare in testa a Bob. Era stato il genitore ad insegnargli tutto, a trasmettergli l'ambizione e il desiderio per riuscire ad arrivare alla fase finale della Gara. Aveva cominciato a partecipare alle competizioni venti anni prima, poco più che bambino, iscrivendosi inizialmente a quelle di paese, dove avrebbe potuto vincere un cestino di frutta o un sacco da dieci chili di patate. Negli anni aveva costruito una reputazione nella provincia, poi nella regione, alla fine addirittura nel suo piccolo e povero Stato, un luogo lontano da tutto, senza una vera capitale. “Sei la nostra sola speranza per quanto assurdo possa essere e ti sosterremo contro i nobili delle Città”, aveva promesso il Primo Ministro, ora seduto in tribuna d'onore assieme alla madre e alla sorella di Bob. Le due donne gli assomigliavano molto e il regista passò velocemente su di loro, poiché non voleva continuare a disgustare il pubblico. L'avevano sempre accompagnato ad ogni torneo, sia nei circuiti minori che in quelli internazionali. Nel corso degli anni gli sponsor si erano accorti di lui e anche se si trattava di marchi poco noti, Bob era riuscito a guadagnare da vivere per se e la sua famiglia. Entrato nella Gara come numero sessantatré del ranking, si era fatto immediatamente notare poiché al primo turno aveva sconfitto la seconda testa di serie del torneo. In seguito era emerso che il campione battuto lamentava un grave infortunio a un polso, ma Bob l'aveva letteralmente spazzato via. La sua scalata era proseguita rapida e impetuosa, nulla sembrava distrarlo o infastidirlo, né le scorrettezze degli avversari, né le sconcezze degli arbitri. Era incontenibile e nonostante affrontasse contendenti sulla carta sempre superiori, il suo cammino non aveva conosciuto la minima incertezza. Almeno fino alla semifinale, dove aveva rischiato una rovinosa battuta d'arresto, poiché l'avversario, il numero tre del rankig, era ben diverso dagli altri, duro e compatto, meno dedito allo stile e più alla sostanza. Eppure alla fine l'aveva spuntata, costruendo un ulteriore pezzo di sogno. Il presentatore avanzò tra i due, presentandoli assieme agli arbitri designati per amministrare la finale. Il Vincitore della passata edizione diede l'addio, le lacrime agli occhi, regalando un “in bocca al lupo” al solo Pierre, ma Bob nemmeno se ne accorse, spasmodicamente concentrato. Del resto era la sua prima ed ultima occasione, poiché si poteva partecipare una sola volta alla Gara. Il gong risuonò in tutte le case del Mondo e i duellanti iniziarono lo scontro. Le Lame mulinarono, il sangue cominciò a schizzare i vestiti candidi dei contendenti, i tendini vennero recisi, le ossa spezzate, le carni tagliate con precisione quasi innaturale. Pierre era dotato di tecnica straordinaria e d'innata eleganza, la quale rendeva piacevole qualunque suo movimento. Invece Bob era animalesco, spiacevole alla vista, sudato dopo pochi istanti, mentre l'avversario sembrava fresco e riposato. Dopo alcuni minuti i due cominciarono a sogguardarsi e apparve chiaro come il nobile mostrasse i primi segni di preoccupazione e cedimento. Pierre aveva compiuto alcuni evidenti errori, mentre il lavoro di Bob era a dir poco perfetto. Quando risuonò il gong di chiusura, i finalisti crollarono a terra esausti e gli arbitri misero sul fuoco il frutto della loro fatica. Bob seppe di aver vinto ancora prima che il risultato venisse ufficializzato. La sua Gara era stata semplicemente perfetta, un autentico capolavoro. Da lì a poco sarebbe stato nominato Bob, Imperatore della Griglia, Primo del Suo Nome e per cinque anni avrebbe governato a livello globale il mondo della cucina, guadagnando denaro e rispettabilità oltre ogni limite. Non male per un ragazzo di campagna butterato e simile ad una scimmia. |
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