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"Una buona cena è ed è sempre stata una straordinaria opportunità artistica." Frank Lloyd Wright
Cena è il tema della tornata speciale di Universi 8 e 1/2, c'è tempo fino al 16 Aprile 2021 compreso per postare il proprio racconto in gara. Ricordatevi che: - Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 12.000 (spazi compresi, titolo escluso); potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito. - I racconti devono avere un proprio titolo e devono essere postati in forma anonima, effettuando il login con nome utente Titivillus e password universi. - Qui potete trovare il REGOLAMENTO. RACCONTI IN GARA |
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Ultima modifica: 03/03/2021 02:30 Da Asintoto.
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L'ultima cena del silenzio
Si sedettero a tavola. Era un rito. Ogni singola sera, a cena, era assolutamente necessario quanto implicito che la famiglia mangiasse assieme. Causa e conseguenza del profondo affetto, e per questo sua rappresentazione più sincera. Vittoria guardava i suoi figli e suo marito mangiare. Li fissava, al punto di metterli a disagio. Era un'abitudine che aveva preso da sua madre probabilmente. Nemmeno sapeva che fosse un'abitudine. Ma i figli erano piccoli e schiamazzavano, suo marito le voleva bene e sopportava: tutto era perfetto. Erano la famiglia perfetta. I figli, come spesso accade, presero a crescere. Passarono per la saggezza spiccia dei 10 anni, per la rabbia dell'adolescenza, e poi il silenzio iniziò a sedersi a tavola con loro. Dapprima occasionalmente, poi sempre più spesso, e Vittoria fissava anche lui. Suo marito iniziò a presentarsi a tavola sempre più raramente. A un certo punto smise del tutto, poi ricomparve per circa una settimana, poi sparì. Torno sei mesi dopo per altre tre settimane, e quella fu l'ultima volta che lo videro in quella casa, a quella tavola. Ma del resto, dal momento che non parlavano più del necessario, nessuno chiese né si domandò mai perchè, o dove fosse, o quando sarebbe tornato. E così i figli crebbero, giorno dopo giorno. Sparivano per qualche settimana, poi tornavano. A un certo punto, uno smetteva di apparire tutte le sere, e passava solo di tanto in tanto, accompagnato da una donna o uomo. Quelli che rimanevano, quelli che continuavano ad apparire tutte le sere, avevano i visi sempre più corrucciati, la pelle sempre più diafana, gli occhi sempre più nervosamente pronti a scattare verso l'alto, intercettando lo sguardo attentissimo di Vittoria. Che, dal canto suo, era sempre pronta a distoglierlo immediatamente, certa che l'altro non lo avesse notato. Finchè un giorno Vittoria si sedette a cena, e si rese conto che era sola. I figli apparirono, sempre più di rado, sempre in minor numero. A volti accompagnati a loro volta da figli. E anche i figli dei figli si sentivano imbarazzati per lo sguardo di Vittoria, e tutti erano a disagio, e tutti si chiedevano perchè e cosa avessero sbagliato. E Vittoria ormai da anni sedeva a cena da sola, sorprendendosi a fissare le schiene delle sedie di vimini, che finalmente non alzavano la testa di scatto obbligandola a voltarsi. E di fronte a lei, il silenzio si faceva sempre più grande, sempre più pieno delle ansie e delle parole non dette da tutti coloro che, almeno una volta, avevano seduto a quel tavolo. Ormai Vittoria apparecchiava anche per lui. E passarono anni, Vittoria sempre più curva, il silenzio sempre più pieno. Un giorno, quando Vittoria si era appena seduta a tavola, il campanellò trillò. Trasalì: da anni, ormai, non ne sentiva il suono. Doveva essere un errore. Vittoria rimase seduta al suo posto, gli occhi a mezza altezza, la testa appena voltata verso la porta. Non la inquadrava nel suo campo visivo, ma sapeva con assoluta certezza dove fosse. Il campanello tornò a trillare. Era strano ascoltarne quel suono, così acuto e infantile. Provò, senza successo, ad immaginare quando lo avesse comprato. Fece una nota mentale di cambiarlo, o forse semplicemente di scollegarlo. Provò anche a immaginare chi potesse essere; incapace di formulare un'ipotesi, suppose che uno dei suoi vecchi commensali avesse tirato le cuoia. Si alzò e aprì la porta. Dall'altra parte c'erano un sacco di persone, ma non ne riconobbe nemmeno una. Una donna, quattro bambini, un uomo. Assieme a loro portavano delle borse e molti colori. "Stiamo cercando mia madre naturale. Alessandra Beccaria, vero?" Gli occhi della donna erano pieni di speranza. Vittoria pensò per un momento che ovviamente lei non era Alessandra Beccaria. Aprì quindi la bocca per dire di no. "Sì." Seguì una girandola di abbracci, lacrime, e Vittoria per un attimo ricordò quelle sensazioni, vecchie quasi quanto lei. I bambini si fiondarono in casa, mentre la donna continuava a dire parola dopo parola, in un modo che Vittoria trovava addirittura miracoloso. I bambini si fecero spazio correndo e arrivarono nel salone, inondandolo di grida fini a sé stesse come ormai non accadeva da anni. Una bambina, staccandosi dal gruppo, prese a correre intorno al tavolo. Si fermò di fronte al silenzio. I due si fissarono, in un duello formidabile che riempì la sala. "Qua!" Il verso della papera ruppe il silenzio, che prese a sanguinare un'acqua appena viscosa e trasparente. E Vittoria, senza capire cosa stesse succedendo, sentì una strana pressione al livello del diaframma. La risata in cui proruppe squarciò definitivamente il silenzio, che esplose e inondò la sala di quel suo strano sangue. Vittoria fece appena in tempo a spalancare la porta-finestra, e tutto quel liquido si riversò nel balcone e poi nella strada, tra le risate incontenibili e incomprensibili di tutti i commensali. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 01/04/2021 19:27 Da Titivillus.
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La cena del giorno dopo
Un odore di eucalipto e canfora sembrava aver inondato il locale. Ci eravamo concessi una cena fuori io e Mylena il giorno dopo il nostro arrivo. Avevamo già chiarito diversi punti della discussione aperta in volo, restavano ancora da vedere altri aspetti dei suoi giri di colloqui con le vecchie conoscenze europee. Giusto il tempo di intavolare la discussione che ricevetti un contatto. Erano Simangaliso e Menny; il messaggio era criptico e lasciava quindi intendere qualcosa che andasse oltre al semplice “come state”. Mylena s’accorse di qualcosa fuori dalle righe semplicemente guardando il mio sguardo mutare all’improvviso. Gli spiegai in via sommaria che Simangaliso e Menny volevano sentirci il giorno dopo. Chiesi a lei di organizzarsi per il luogo perché non sarebbe stata la classica conversazione. Capii al volo. Continuammo così il resto della serata senza più aprire quella finestra, passando tranquillamente a tutt’altro tipo di argomenti. Valutammo gli impegni, visualizzammo assieme il calendario per vedere come gestire eventuali altri incontri ed occasioni, insomma, tutto nella più assoluta normalità. Ma dentro… dentro avevamo un fuoco ardente, un calore figlio di emozioni che sembravano così incredibilmente diverse da quelle vissute abitualmente. Queste sembrano vere, sembrano avere vita propria e nonostante il tentativo di dissimulare al meglio che potevamo, anche io riuscivo a scorgere negli occhi di Mylena cosa stava provando. Era carica, aveva dentro di se un turbinio di emozioni che avrebbero spazzato via quel tavolo anzi, che dico, direttamente tutto il locale eccitata com’era da quella notizia improvvisa che suonava come un qualcosa di nuovo ed intrigante da affrontare. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille. |
Il commensale
“Sai che una volta ho conosciuto un cannibale?” L’uomo parlava biascicando a bocca aperta, la carne tra i suoi denti era cruda ed un rivolo di sangue scese sulla sua barba sporca. Il commensale dall’altra parte del tavolo restò in silenzio; provava quasi sempre ribrezzo nel vederlo mangiare, quindi di solito preferiva ignorarlo. La capanna di legno era piuttosto piccola e la candela accesa sul tavolo era sufficiente ad illuminare l’ambiente. Il sole era tramontato da poco e dalle persiane decadenti filtrava ancora un po’ di luce. “Senti qua perché è una bella storia. Cioè, è una bella storia per me, magari non per te, ma sentila e basta ok?” Il commensale tagliò un piccolo pezzo di carne e se lo portò alla bocca, con movimenti curati. “Tempo fa ero a caccia nel bosco con un tizio conosciuto da poco. Mentre cercavamo un cinghiale, o magari un cerbiatto, questo cazzone mi racconta che a volte aveva fatto il cannibale. Sai, mi era sembrato da subito un tipo strano, ma ho pensato: in fondo chi non è un po’ matto in questo mondo schifoso? Però cioè, capiamoci un attimo, lo sai cosa fanno i cannibali, no? Mangiano altri uomini, cazzo. Mi stava rivelando questa cosa, forse perché si sentiva mio amico, o magari perché si sentiva in colpa, chissà. E allora mi sono detto: che cazzo faccio? E se poi non troviamo niente da mangiare e a questo qui vengono strane idee? Allora gli sono saltato addosso, ecco che cazzo ho fatto! L’ho fatto fuori, col mio coltello! E poi me lo sono mangiato, mi è venuto d’istinto di farlo, non potevo non approfittarne. Cioè, non tutto insieme, non sono mica un serpente, ma a piccoli pezzi. Ricordo che ci ho messo un sacco di tempo, ma il congelatore funzionava ancora a quel tempo.” Prese un altro pezzo di carne con le mani e succhiò il sangue che colava fuori, prima di ficcarselo in bocca. “A questo punto lo sai cosa mi chiedo? Mi chiedo chi fosse il vero cannibale dei due! Ahahahah!” La risata si trasformò presto in un attacco di tosse, sputacchiando saliva mista a pezzi di cibo su tutta la tavola. Il commensale lo fissò per qualche secondo con uno sguardo pieno di disgusto, poi ricominciò lentamente a mangiare, con garbo. “Comunque a volte ci penso su. Cioè: un uomo è cannibale a priori o è nel momento in cui ha l’occasione di mangiare qualcuno che diventa cannibale? Cioè, lo sei dalla nascita o...va beh hai capito cosa cazzo intendo, no?” Ancora silenzio dall’altra parte del tavolo. “Che poi, secondo me non c’è nessun problema a mangiare un’altra persona. Cioè, piuttosto che morire di fame mangerei qualsiasi cosa. Mio nonno mi raccontava sempre che in guerra mangiavano di tutto: un gatto o un cane erano prelibatezze, anche se spesso dovevano accontentarsi di topi e ratti.” Il commensale continuava la sua cena, ascoltando il suo compagno di tavola, contenendo la repulsione. “Maledetti pipistrelli invece, tutto è nato da lì, ricordi? Quando quei musi gialli si sono messi a mangiare i pipistrelli...che cazzo ti mangi un pipistrello? Cioè, un pipistrello è un topo con le ali, ma questi cinesi del cazzo mica erano in guerra, avevano un sacco di altre cose da mangiare, che cazzo se li sono mangiati a fare i pipistrelli? E’ tutto da lì che è cominciato.” Si zittì un attimo, mentre cercava di togliersi un nervetto dai denti con le dita. Il commensale si fermò qualche istante a guardare il suo compagno che si infilava in bocca le unghie sudicie, scavando fra denti neri e cariati. Poi deglutì per trattenere la nausea e riprese il pasto. “Uff, questa gamba mi fa troppo male.” L’uomo si sporse dalla sedia scricchiolante e guardò in basso, una smorfia di dolore gli attraversò il viso butterato. “Mi toccherà trascinarla”. Sembrò quasi che il commensale stesse per ribattere, ma poi continuò la cena. “Qualche volta potresti anche rispondere, sai?” L’uomo sbatté un pugno sul tavolo, facendo tremare le stoviglie. “Mi sembra di parlare da solo, vivi con me o no? Guarda che te ne puoi anche andare se vuoi eh?” Il commensale deglutì il boccone, bevve un sorso di acqua sporca dal lurido bicchiere che aveva davanti a sé e sentenziò: “No, non possono andarmene. Lo sai bene.” Poi infilzò un altro pezzo di carne con la forchetta e se lo portò alla bocca. L’uomo osservò il commensale per qualche secondo, poi cominciò a ridere. Prima sommessamente, quindi sempre più forte, quasi a crepapelle. Lacrime iniziarono a solcargli il volto, scavandosi un cammino nello sporco atavico e perdendosi infine nella folta barba. Dopo qualche minuto riuscì a calmarsi. “Ti piace questa carne eh? Te l’avevo detto che sarebbe stata tenera e saporita, ma tu non mi credevi!” Il commensale smise di mangiare, per seguire l’ennesima elucubrazione dell’uomo che aveva davanti. Questi portò la mano al fianco ed estrasse un coltello lungo, molto affilato, e cominciò a rigirarselo tra le mani. Era il coltello che usava per andare a caccia. “Eccolo qua, lo vedi ma bello che è? Questo è il nostro fornitore di carne, colui che ci porta da mangiare nel piatto. Ti piace? La lama passava tra le mani dell’uomo, che l’accarezzava come se fosse un pargolo. Il commensale seguiva l’arma con lo sguardo, chiedendosi cosa avesse in mente il compagno di cena. “Quanti giorni erano che non mangiavamo qualcosa, ormai? Cinque? Sei? Sette? Ho perso il conto. Ma lui, il mio caro coltello, ci ha portato un’altra volta qualcosa da mangiare, ci permette di andare avanti, di continuare questa follia che è diventata la vita.” Oramai, lacrime sempre più copiose scendevano sul suo viso. “Maledetto virus, hai distrutto tutto. Ci hai portato via qualsiasi cosa. Prima credevamo di sconfiggerti, anzi ne eravamo certi. Contenimenti, distanziamenti, vaccini...tutte cazzate, quando sei mutato, quando sei diventato terribilmente letale, hai polverizzato in breve tempo la nostra società. A quel punto ognuno ha pensato solo a come poter sopravvivere...” Ora anche il commensale stava piangendo. L’uomo guardò ancora una volta la sua gamba destra; vide di nuovo la fasciatura sanguinante sul polpaccio, da dove aveva preso la carne da mettere nel piatto, per poter finalmente masticare qualcosa dopo tanti, troppi giorni. Aveva urlato di dolore quando aveva scavato la propria carne con il coltello, ma la fame era più forte. La fame era sempre più forte di tutto. Scacciando il pensiero, alzò gli occhi e osservò lo specchio che aveva appeso dall’altra parte del tavolo, per illudersi di avere un ospite a cena. Vide il commensale, vide se stesso, solo se stesso, come sempre vedeva da tanto, troppo tempo. Aveva ancora il coltello in mano. In fondo, perché no? Poteva chiedergli aiuto per l’ultima volta. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille. |
Fagiani a cena
Avete in mente quelle giornate così belle e serene che anche l’atterraggio di una astronave aliena nel vostro giardino vi lascerebbe indifferenti? Per Saverio detto Rio era quel giorno. Seduto sulla panchina del parco da quasi due ore senza fare nulla con ancora 6€ di mangime per piccioni da buttare a terra, quelle creature lo affascinavano. La testa era libera da pensieri e la vibrazione del cellulare tardò un attimo ad essere riconosciuta, era Antonio detto Tony, chissà in quale parte del mondo era stavolta. Simpatico Tony, amico da sempre, leggermente sprovveduto. - Pronto Tony ciao. - Ehi Rio, mi senti bene? - Si bene, che mi racconti? - Mah niente di che, tra due giorni sono di nuovo a Bologna, passerò a trovarti mi devi aiutare su una cosa poi ti spiegherò meglio. Ora sto cercando un posto dove mangiare, qua è ora, non riesco a trovare un ristorante italiano, ti pare possibile? Cinese, giapponese, kebab, anche se cerco sulla guida non ce n’è uno italiano. - Ma è impossibile, dove sei al polo nord? - Sto a Casalecchio. - ... ma sei fuori? - Perché? - Tony non trovi un ristorante italiano perché sono tutti italiani, non serve specificarlo capisci? - Ok ok non ti arrabbiare, volevo solo più chiarezza da parte degli esercenti. - Ma chiarezza di cosa? E perché ci metti due giorni? Sta a 30km da qui. - Sono a piedi. - Dai ti vengo a prendere. - No no devo fare altre cose, vengo io. - Vabbè lasciamo stare, quando sei qua avvisa, ciao. Il dito di Tony premette il campanello due giorni dopo... - Chi è? - Scendi facciamo due passi, ti racconto.. - Tony sei tu? - No sono Mattarella, dai scendi! Prese la felpa e uscì. Rio Fagiani era uno che se c’era da fare una battuta scema era sempre in prima fila, camminava allegro verso il suo amico. Non si vedevano più come prima quando erano vicini di casa ma certe volte non serve: c’era armonia. Si comportavano come chi si parla ogni sera anche se erano passati due anni dall’ultima volta che si erano visti. - Come te la passi? - Beh non male direi, ho una notizia buona e una cattiva. Ti ho mai parlato di Donatella, quella che chiamano tutti Dèlla? - No, che ha fatto? - Ha smesso di fumare finalmente. - Ah bene e come ha fatto? - È morta. - Ah mi spiace, sono così addolorato che eviterò elegantemente di dire è mortadella, lo penserò soltanto. - Sei gentile grazie. - Ma non sei venuto qui per dirmi questo giusto? - No, o per lo meno non solo questo. Il fatto è che sto indagando sulla sua morte, penso sia stata uccisa. - Indagando? - Si questa è la notizia buona, ti spiegherò con calma a cena, ora scappo. Ci vediamo stasera, prenota tu alle venti. Alle 19:50 Rio era all’entrata del ristorante, Tony sarebbe arrivato soltanto mezz’ora dopo. Lo sapeva ma non gli piaceva comunque arrivare in ritardo. Il posto era nuovo, ne aveva sentito parlare, era veramente bello come dicevano, elegantissimo. Poco dopo l’arrivo di Tony il cameriere se ne stava andando con l’ordinazione, era ora di mettere le carte in tavola. - Allora Rio, ti dicevo della Dèlla che è morta, il medico dice per asfissia. Mentre stava mangiando, un’oliva le è rimasta in gola ed è soffocata, ma non è possibile. - E perché? E da quanto tempo fai l’investigatore? - Nel frigo hanno trovato delle olive in scatola comuni da supermarket ma lei era pugliese, mangiava solo olive provenienti dalla sua terra, non avrebbe mai assaggiato altro. Quelle olive sono state messe lì da qualcuno come anche quella in gola. Non so come né da chi ma ne sono certo. Invece per prendere la licenza da investigatore non ci crederai ma ci vogliono pochi minuti. - Ah si? E dove si va a farla? - Me l’ha stampata un mio amico. Rio era pensieroso. Tony era veramente preso da questa situazione, gli succedeva spesso, cadeva nello sconforto per un nulla e ci rimaneva per mesi, quando ne usciva era come vulcano che erutta in tutte le direzioni, impossibile non restarne coinvolti. Lui solitamente gli dava ‘spago’ assecondandolo bonariamente, sembravano un po’ Sherlock Holmes e Watson ma sta volta era diverso, c’era una vita di mezzo. Così disse: - Interessante, continua... Nel frattempo la zuppa era stata servita. Un caldo profumo di ceci e rosmarino gli era appena arrivato al naso, il chiarore arancio del tramonto colorava i loro volti attraverso la vetrata facendo sembrare la sala del ristorante un tempio Shaolin, dove tutti sono sereni. - Beh ci sono altre informazioni che sono riuscito a trovare - il tono di Tony era serio - L’ultima persona a vederla viva è stata la coinquilina, una studentessa universitaria, mi pare di Pesaro. Tra le cose che abbiamo c’è anche il rapporto della autopsia, che ovviamente non dice nulla di nuovo, morta per soffocamento e basta. - Bene, cioè male. - C’è dell’altro se proprio vogliamo mettere tutto - continuò Tony - la coinquilina dice che nei giorni passati Donatella le era sembrata un po’ strana, parlavano spesso ed erano confidenti e non di rado ultimamente si finiva a parlare di complotti, se cerchi in rete oramai c’è una teoria di complotto per ogni cosa, Lady D uccisa, le scie chimiche e molte altre. - Ah si si conosco, lei ne preferiva qualcuna o erano “tutte buone” diciamo? - Tutte buone, anzi buonissime! Ma una in particolare era la sua preferita. - E quale? - Una nuova, c’è una teoria che ipotizza che la dieta mediterranea sia un’invenzione degli abruzzesi per avere il controllo mondiale della produzione dello zafferano. - Puoi ripetere? - Si lo so è assurdo... per questo lo ho messa tra le cose di poco conto. Era il momento della tartare di manzo. Un mucchietto di capperi in una ciotolina era soltanto uno degli accompagnamenti forniti, li vicino c’erano anche maionnayse, cipolla, ketchup e un uovo crudo. Saperli miscelare sapientemente era difficile, la maggior parte delle persone facevano un mix di tutto, se avessero avuto l’ardire di provarli separatamente si sarebbero aperte delle nuove sensazioni. La modalità investigativa di Tony era in pausa, il cibo era così buono che non c’era bisogno di altro, neanche di parlare o di fingersi detective. Fosse stato un film però, un attento telespettatore avrebbe potuto notare che la pacatezza di Rio aveva lasciato il posto ad un’espressione più attenta, quasi di preoccupazione. La nuova fissazione di Tony era esagerata ma c’era forse dell’altro? C’era uno strano pensiero che turbava l’animo di Rio? La tartare era quasi finita, Tony stava raccogliendo le ultime cipolline quando Rio con molta calma posó il tovagliolo sul tavolo, si alzò diede un bacio sulla guancia all’amico e si allontanò, prese il soprabito velocemente e uscì. Tony rimase a bocca aperta dallo stupore, era incredulo... almeno all’inizio, poi continuò a rimanere a bocca aperta perché non riusciva più a respirare. Il veleno iniziava a fare effetto ma tutti avrebbero dato la colpa all’oliva che Rio gli aveva messo in bocca pochi attimi prima, Tony non se ne era quasi accorto mezzo intorpidito come era. Rio era già lontano quando Tony stramazzò sul tavolo, era stato attento a scegliere il ristorante senza telecamere, aveva fornito un nome falso e per tutta la sera aveva parlato quasi per niente con i camerieri, mostrando sempre poco il volto. Era praticamente irrintracciabile. Nessuno lo avrebbe smascherato facilmente, il treno per Pescara sarebbe partito di li a breve con lui sopra. L’Abruzzo avrebbe dominato il mercato dello zafferano ancora per anni! |
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Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 19/04/2021 23:30 Da Titivillus.
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Tutte le cene del mondo
Akmad si lascia accarezzare fugacemente dagli ultimi tepori del giorno, mentre inforca la bici e un raggio del sole crepuscolare balugina sui suoi polpacci scoperti. Pronti, via. Un enorme zaino cubico in spalla e giù a rotta di collo a pedalare. In un attimo forme e colori si mescolano in un insieme dai contorni sfumati e indistinti, come quella sfilacciata distesa temporale che i più definiscono con una certa eufemistica approssimazione ora di cena. Akmad non ha bisogno di concentrarsi fra quelle strade familiari. Lo guidano i sensi: il rumore del vento fra gli aceri di Viale della Repubblica, i profumi dei ristoranti etnici nelle stradine intorno a Piazza dell’Unità, i colori dei cipressi in fiore di Via dei Bersaglieri. Riconosce le strade dagli infissi delle finestre, dai vasi in mostra sui balconi, dai sorrisi dei passanti che le animano fino a tarda notte, e in un attimo raggiunge ogni destinazione. La porta si spalanca e lo accolgono urla chiassose dal fondo di un corridoio illuminato, che per qualche istante si fa finestra su altre vite e su altri mondi. Ne erutta un viso familiare e un attimo di confusione smorza il sempiterno sorriso di Akmad: ha mica sbagliato indirizzo? «Ma che ci fai qui?». Risate. «Eh, sono a casa di amici! Come stai Akmad? Grazie della pizza!». Gli sembra quasi di salutare un amico di vecchia data, anche se è solo da pochi mesi che Enrico è in quella città – studente fuorisede – e i loro volti hanno acquisito reciproca familiarità in quei fugaci attimi vespertini. Quando ordina a casa sua prende sempre una pizza cipolla e acciughe, la sua preferita, ma questa volta non ve n’è traccia nel numeroso ordine. Questa volta Enrico si è accontentato di una margherita: spera di accompagnare a casa Fabiana, al ritorno e, chissà, magari ci scappa un bacio. Mentre Enrico insegue il vociare proveniente dal salone e vi entra con le pizze, questo pensiero sembra essere rimasto fuori con Akmad, in fuga con la sua bicicletta: Fabiana, sul divano, non ha occhi che per Giovanni ed Enrico avrebbe una gran voglia di una pizza cipolle e acciughe. Una consegna grossa ora. Ordine abbondante da uno dei sushi più esclusivi della città. Akmad non è avvezzo né al ristorante né al destinatario. Una zona residenziale leggermente al limite del suo solito giro. Akmad si lascia eccitare dalla novità – e dalla cifra sulla ricevuta che gli fa sperare in una lauta mancia – mentre si fa strada fra villette a schiera e condomini eleganti, separati da strade poco trafficate e tranquille, capaci di infondere alternativamente una placida serenità o una velata malinconia, a seconda di come la luce del sole decida di farsi strada fra le fronde dei tigli che ne puntellano i marciapiedi, o a seconda di come le quotidiane noie piccolo borghesi affliggano l’animo dell’occasionale passante. Sulla porta si affaccia una donna vestita e truccata di tutto punto; un’eleganza quasi ridondante, a stento trattenuta dallo sfociare in una fastidiosa cacofonia; ma magari è solo il contrasto con lo sguardo austero, le labbra vermiglie contratte sotto il peso di un umore che potrebbe soffocare qualsiasi sorriso, ma non quello di Akmad mentre le porge due grosse buste: «Ecco a lei signora! Buon appetito!». Lo sguardo basso della donna si guarda bene dall’incrociare il suo. Un mugugno indistinto è tutto quello che gli lascia mentre il lussuoso portone finemente decorato si chiude dietro di lei. È andata male, niente mancia. Ma il sorriso di Akmad non si spegne, mentre risale sulla bicicletta: andrà meglio la prossima volta. Lucrezia lascia cadere le buste sul pavimento e poi il suo corpo alla parete della sala da pranzo, a cui affida il peso di tutti i suoi malumori. Nicola, suo marito, le ha telefonato solo cinque minuti prima per farle sapere che no, non manterrà la sua promessa di cenare assieme stasera, scusa amore, il lavoro, magari domani eh? Questa volta Lucrezia non ha fatto tragedie, non ha urlato, non ha pianto. Sa che non serve che a peggiorare le cose. Solo ora concede a qualche lacrima di rigarle il volto, in silenzio; e nel suo pianto clandestino questa volta riesce a sentirsi un pochino meglio e forse avrà la forza di raggiungere il letto e trovare consolazione nei sogni. Il cibo abbondante è rimasto abbandonato in un angolo, dimenticato e ormai freddo. La fame è passata da un pezzo e Lucrezia vorrebbe nutrirsi di cose che il denaro non può comprare. Akmad intanto è già dall’altra parte del quartiere. La sua zona preferita: case di studenti, strade vive e chiassose, l’odore occasionale di fritto che si libera da una finestra spalancata al primo piano, qualche urlo sguaiato che lo insegue nelle sue corse e si infila fra i pedali. Akmad conosce la casa: vi abita un’avvenente ragazza sui vent’anni, che indossa la sua bellezza giovanile con la grazia sacrale con cui si indossa un abito nuziale. Ordina spesso e Akmad è sorpreso di vedersi aprire la porta da un uomo a torso nudo, decisamente più maturo di lei. Mentre consegna le due pizze lui gli sorride sornione e gli allunga una banconota da 10 euro. Grazie. Buon appetito. La ruota gira ed ecco la sua generosa mancia. Nicola chiude la porta dietro di sé. Si sente tornato indietro all'adolescenza con lei, a passare la notte sveglio, fra umori e sudore, trangugiando fette di pizza sul letto sfatto, intervallando così baci sconci e carezze proibite. Il sorriso sornione non abbandona il suo volto: il sole è ormai tramontato sui sensi di colpa. Ancora viuzze, passaggi nascosti, scorciatoie. Akmad le conosce come le sue tasche, come conosce clienti e ordini abituali. Ed ecco ora gira a destra, una stradina quasi completamente nascosta dall’enorme campana verde per il vetro. Taglia a sinistra e attraversa un piccolo cortile interno e via, di nuovo sulla strada, ma parecchi metri più in là, parecchi minuti prima. Le luci elettriche, che timidamente si riscaldano, tingono di bianco i grandi appartamenti residenziali, così rassicuranti nella loro disciplinata uniformità. Rossella è una garanzia: ristorante cinese, tutti i venerdì sera. Pollo con mandorle, riso alla cantonese e tre involtini primavera. Pochi minuti dopo è sul divano, abbracciata alla coperta, davanti alla sua serie tv preferita, portando alle labbra il secondo involtino; e per i pochi istanti di una cena consumata in solitudine, la sua mente conosce tregua e non pensa al lavoro, a quel progetto da definire, a quella promozione da conquistare, alla sua agenda piena e a quel qualcosa dentro di sé che invece proprio non riesce a riempire. Sul tappeto, ai suoi piedi, giacciono teglie di alluminio ancora tiepide, svuotate con la stessa famelica voracità di chi è abituato a mordere la vita senza assaporarla. Solo il terzo involtino è ancora lì, e lì resterà abbandonato come tutti i venerdì sera. Chissà se l’artista, dipingendo il quadro con metodica cura, ha consapevolmente scordato quella piccola imperfezione sulla tela, in un catartico memento. Le ore passano, ma è sempre ora di cena e Akmad non smette di pedalare. Domicilio noto, ristorante nuovo. Il cameriere lo scruta torvo mentre gli consegna il pacco da cui emanano vapori e fragranze esotiche. Veronica lo accoglie con un sorriso; gli occhi azzurri venati da un tremolio di curiosità. Veronica non sa ancora cosa mangerà stasera, ma già quei profumi la stanno trasportando lontano, tanto che i piedi nudi a malapena sembrano sfiorare il delicato parquet di mogano, mentre Veronica si avvia volteggiando in camera. Lì, fra l’eccitazione che si prova davanti ai regali di Natale e con la delicatezza con cui si accarezzerebbe un bambino, Veronica apre i piccoli contenitori di cartone, annaspando dietro quei profumi, e nell’attimo di un boccone si ritrova in Libano, insieme al suo ragazzo. Sta viaggiando per lavoro e ad ogni nuovo Paese che tocca, lui le ordina qualcosa e così le fa sapere dove si trova. Veronica socchiude gli occhi e veleggia lontano, per cenare con lui all’ombra dei cedri. Akmad accetta l’ultima consegna e mentre la ripone nello zaino il pizzaiolo gli urla qualcosa in arabo: «Akmad! Ti va qualche trancio avanzato?». La bicicletta giace stanca, abbandonata al muro marcescente. Graffiti neri si confondono al buio, dipanandosi dal sellino, tatuaggi sul cemento. Akmad allunga un trancio a Zante, seduto in terra di fronte a lui, fra due cartoni e una coperta, e in un attimo la barba incolta si riempie di briciole. Lungi dal farsi più sciatto, il volto di Zante prende invece colore e gli occhi opachi acquistano nuova vivacità; sotto la luce tremolante di un lampione incerto, Zante appare ora molto più rassicurante di quanto appaia di giorno allo sguardo sdegnato degli impiegati affrettati in giacca e cravatta. «Oggi Marco ha ordinato pollo al curry sai? Strano, non lo prende mai!», mormora Akmad con una solennità che Zante deve giudicare insufficiente, dal modo in cui strabuzza gli occhi: «Deve essersi innamorato! Gli uomini iniziano a fare cose inconsuete, quando si innamorano... Ah!» e scoppia in una risata sguaiata. «Ma che ne sai tu dell’amore?» lo sfotte Akmad, ma in fondo invidia il vecchio barbone e quanto lui sappia del mondo. Akmad conosce tutte le porte del quartiere, ma Zante possiede tutte le chiavi. La catena della bici cigola nel silenzio della notte, quasi a lamentarsi e a reclamare, anch’essa, un po’ di meritato riposo. Le strade, sempre vive e trafficate, languono ora deserte, mentre i profumi delle cene serali hanno ormai lasciato spazio ai freschi effluvi della brezza notturna. Akmad si avvia lentamente verso casa, camminando, la bici accompagnata a forza di braccia – ha pedalato abbastanza per stasera. Mentre lega la bicicletta Akmad alza per un attimo lo sguardo al palazzo di fronte. La finestra al quinto piano è ancora illuminata. Marco giace ancora vestito sul letto, perso in fantasticherie e nel pensiero di lei; lo schermo del telefono, adagiato vicino al cuscino, conserva nel suo tepore il calore dei loro scambi amorosi. Il sonno ha timore degli innamorati e questa notte volerà altrove a regalare i suoi doni. Akmad si sforza di far piano mentre entra in casa e a stento trattiene quel sospiro liberatorio che accompagna il desiderio di soffiare via la stanchezza. Corrono ad abbracciarlo i profumi assopiti di una cena lontana: sommacco, cumino e coriandolo lo prendono per mano e delicatamente lo guidano verso il divano, dove sua moglie e sua figlia sono cadute assieme fra le braccia di Morfeo. Akmad si muove leggero nel rinvigorire il morbido abbraccio delle coperte e con la stessa leggerezza si siede vicino ai suoi tesori. Il profumo dei capelli di sua moglie sembra irradiarsi lungo la stoffa del divano e annodarsi in morbide trecce con le spezie orientali che pervadono l’aria. Akmad chiude gli occhi e lascia che quei profumi lo coccolino. In un attimo è al di là del mare, a cenare con la sua famiglia fra case bianche, basse: un foglio di pietra evanescente su cui si mescolano le sabbie del deserto e quelle delle spiagge. A casa. |
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Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 30/04/2021 17:09 Da Titivillus.
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