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ARGOMENTO: [#1] La partita (racconti)

[#1] La partita (racconti) 08/03/2016 14:57 #17289

“Con il talento si vincono le partite, ma è con il lavoro di squadra e l'intelligenza che si vincono i campionati.”
Michael Jordan



La partita è il tema della prima tornata di UniVersi 7, c'è tempo fino al 30 aprile compreso per postare il proprio racconto in gara.

Ricordatevi che:
- Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 12000 (spazi compresi, titolo escluso); potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito.
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Re: [#1] La partita (racconti) 29/04/2016 17:45 #17627

Cartolina

Il tic tac dell'orologio finalmente sentenzia l'orario di fine giornata lavorativa. Esco con calma dopo aver timbrato il cartellino, con la mia borsa in mano e gli altri dipendenti che mi passano a fianco. Volgo per un attimo lo sguardo al cielo. E' primavera, le giornate si allungano, i fiori e gli uccelli ricominciano a vivere, io posso finalmente concedermi una passeggiata invece di usare i mezzi pubblici. Non che non potessi usare i miei piedi anche prima, ma l'atmosfera più tiepida risveglia i miei muscoli resi apatici dall'odiata stagione invernale.
La strada per casa mia non è lunga né trafficata, ma il marciapiede è sempre pregno di gente maleducata, di fretta o semplicemente sbadata. Preferisco allungare, fare il giro del quartiere, passare attraverso un parchetto maltenuto e ritrovarmi all'improvviso di fronte al cancello di casa mia. L'abitazione è piccola e vecchia, con un piccolo orto sul retro, ma è quel che mi basta. Ci abitarono i miei genitori prima di morire e io ci son venuto a vivere quando la mia ex moglie mi ha lasciato. Diceva che ero monotono, che non mostravo mai emozione per nulla, indifferente a tutti e con nessuna ambizione. Effettivamente la descrizione mi calza a pennello.
Mentre apro il cancello pedonale, cerco di prendere con le dita la corrispondenza inserita frettolosamente nella cassetta della posta. Apro il portone di casa, butto le buste sul tavolo, vicino alla tazza da latte vuota della mattina, e mi dirigo verso il frigo. Sento un rumore diverso dal solito, il lancio sbagliato o troppo forte deve aver mancato il tavolo e qualcosa è caduto a terra. Sul parquet rovinato, una cartolina ha fatto breccia infilandosi casualmente nella fessura tra un listello e un altro. La guardo, mi prendo una birra stappata la sera prima e mi siedo su una poltrona ornata da un fascio di luce filtrante tra le tende. La osservo di nuovo. Io non ricevo mai cartoline.
Mi decido ad alzarmi e prenderla. L'immagine mostra un tempio dorato immerso nel verde. Son sicuro di averlo visto in un documentario alla televisione, ma non ricordo il luogo, seppur sia sicuro dell'estremo oriente. La giro e vado diretto alla fine del messaggio per capire il mittente. Un sorriso fa capolino ad un lato delle mie labbra per poi scomparire rapidamente. Una smorfia che non si mostrava da anni, provocata dalla semplice firma di Riccardo.
Non lo vedo più da almeno due lustri. Forse non mi sbaglio nel credere sia e sia stato il mio unico amico. L'ho conosciuto alle scuole medie ma abbiamo cominciato a confrontarci solo successivamente. Io ero molto per le mie, mentre lui sapeva ben destreggiarsi tra la gente.
Durante una gita a Venezia passammo per uno dei tanti ponti della città. Mentre i miei coetanei schiamazzavano, si facevano scherzi o palpavano il sedere della compagna carina, io mi fermai a guardare una scritta. “Ponte de le tette”, una semplice frase che avrebbe fatto sbellicare ogni ragazzo della mia età. Stavo semplicemente zitto e incuriosito. Riccardo mi rivolse per la prima volta la parola, da dietro le spalle mi sorprese. “Pare che una volta questa fosse zona di puttane, ora purtroppo non più”. Mi girai e lui, facendomi l'occhiolino, proseguì seguendo gli altri.
Nei giorni successivi lo osservai maggiormente e vidi che lui faceva lo stesso. Venne naturale allora scambiare qualche parola, un saluto o una battuta stupida. Più il tempo passava però, più ci aprivamo a vicenda fino al punto, qualche anno dopo, di passare interi pomeriggi a discutere di ogni cosa.
Non erano semplici chiacchiere tra ragazzi, ma pensieri sul futuro, sulle persone, sul mondo che ci sarebbe spettato, quasi filosofici. Ad unirci è stata soprattutto la nostra comune capacità di osservare l'ambiente circostante e le persone, di trarne suggerimenti sulle logiche conseguenze. Riccardo però aveva una marcia in più. Non si limitava come me a pensare, ma voleva agire. Era individualista, molto ambizioso e voleva approfittare del talento della deduzione per ottenere tutto ciò che desiderava.
Ogni tanto facevamo una partita a scacchi, un gioco in cui il cervello la fa da padrone. Lui però non era dello stesso avviso e si annoiava presto. Lo definiva un semplice esercizio in cui tutti quelli dotati di un minimo di ragionamento o esperienza, avrebbero potuto vincere. Il gioco era statico, le mosse varie ma limitate, a lungo andare era solo memoria su schemi predefiniti. Riccardo preferiva invece il poker. Non mi ricordo una volta in cui abbia vinto. Seppur nella singola partita, o giocata, non mi ricordo come si chiama, la fortuna ha un peso fondamentale, a lungo andare il più bravo, o il più capace a cogliere i minimi atteggiamenti dell'avversario, si impone.
E' stata proprio per questa passione che non l'ho più visto. A dir la verità il tutto è avvolto nella nebbia e non riesco ancora a vedere uno spiraglio di luce. Una sera mi ha salutato, dicendo che avrebbe giocato una partita importante e che la sua vita sarebbe cambiata.
I fatti non li conosco, ma in un paese piccolo come il nostro le voci corrono. E a occuparsene furono anche i giornali, con tutte le loro incorrettezze e le storpiature volute per far ancora più notizia. Successe che fu ritrovato un uomo riverso sul ciglio di uno scolo, in aperta campagna. Per il contadino di passaggio era sembrato un ubriaco ben vestito che la sera prima avesse esagerato un po' troppo. Giorno dopo giorno giunsero sempre nuove notizie sul fatto. L'uomo in verità era morto. Non naturalmente, bensì avvelenato. E alcune tracce di pneumatici riconducevano a una villa lussuosa. E chi era il proprietario della sfarzosa residenza? Casualmente un uomo molto potente, noto per i suoi affari loschi e le sue mormorate conoscenze con la malavita.
In tutto questo trambusto, nessuno notò la notizia stampata in piccolo all'interno del quotidiano. I familiari di Riccardo ne denunciavano la scomparsa. Una notizia messa ben presto in sordina. Riccardo era maggiorenne e con poche vere conoscenze a cui importasse di lui.
Io sembravo l'unico a fare un semplice collegamento. Non era difficile, eppure la gente pareva non farci caso, o forse non voleva.
Riccardo faceva coppia con Claretta, una bella bionda ricciolina dai capelli lunghi. La ragazza era dotata di una buona dialettica e della capacità di pensieri più alti rispetto alla fauna femminile della stessa età. Era molto solitaria, sia per carattere personale che per invidie nei suoi confronti. Ed era la figlia dell'uomo ricco e potente.
Ancora meno voci si occuparono della sua partenza per un viaggio studio negli USA, due settimane dopo il ritrovamento del corpo sul ciglio del fosso.
Ci sono ancora sere in cui i pensieri mi tengono occupato su cosa potesse essere successo, ma nulla di certo ne viene mai fuori, solo illazioni e possibilità.
Osservo di nuovo la cartolina e mi sovviene in mente il monumento raffigurato. E' il tempio del padiglione dorato di Kyoto. Mi compiaccio di essermi ricordato e leggo finalmente il messaggio.
“Qui è il paradiso di Claretta. Alza il culo e vieni!”.
Ho conosciuto poco Claretta, ma so che non amava l'Asia. L'occhio mi cade sul timbro postale. Questo dev'essere uno dei giochi di Riccardo. Santiago del Cile. Lo conosco, sono quasi certo non si trovi neppure lì.
Le scritte impresse sulla cartolina continuano. “PS la vita è una partita a scacchi in cui l'alfiere può diventare re e a volte il pedone mangia anche non in diagonale”.
Sono ancora sulla poltrona. Non si sta male qui. Non intendo sprofondato sul cuscino, mi riferisco alla mia vita. Non ho alcun legame, sto bene fisicamente e psicologicamente, faccio un lavoro tranquillo che mi ha già permesso di mettere via qualcosa per un ipotetico futuro. L'ultima parola mi incupisce. Sono abitudinario e monotono, ma pensare di fare le stesse cose anche tra vent'anni mi rende nervoso.
Lancio la cartolina sul tavolino poggiapiedi, mi alzo e guardo fuori dalla finestra, scostando leggermente la tenda. Non ho intenzione di decidere al momento, ma so che un tarlo si sta già insinuando nel mio cervello come fosse legno morbido.
E' ora di fare la prima mossa e dare inizio alla partita della mia vita.
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Re: [#1] La partita (racconti) 29/04/2016 22:49 #17628

Paesi troppo bassi

Budapest, Agosto 2017


Heleen, coi lombi che sfiorano il muretto del ponte, pare quasi volersi sottrarre ma poi, con un riflesso felino, si rigira e, avvicinandosi, bacia romanticamente Giulio.
È il primo bacio tra i due nonostante si frequentassero già da qualche tempo.
Budapest è in tutto e per tutto la cornice perfetta per quest'immagine da conservare per il resto dei giorni.

Heleen, viso rubicondo, capello biondo leggermente mosso tagliato a mo' di caschetto, è nella capitale magiara in quanto componente della nazionale di pallanuoto femminile dei Paesi Bassi. Giulio, italiano d'origine, è invece un massaggiatore sportivo tra i più noti nell'ambiente. Ha fatto parte dello staff della nazionale ungherese maschile per quasi dieci anni fino al cambio di dirigenza ed alla sua successiva decisione di ripiegare sull'Olanda, paese che aveva avuto modo di apprezzare durante le abituali trasferte.
Per lui Budapest era perciò una seconda casa dove aveva lasciato parecchi buoni amici e molte conoscenze.

Quel baciò però cambiò un po' le carte in tavola.

La nazionale femminile dei Paesi Bassi infatti, nonostante fosse tra le più quotate a livello mondiale, non s'aspettava di fare così tanta strada in quella competizione. Alcune corazzate come quella degli Stati Uniti sembravano letteralmente inaffondabili e, infatti, il ritrovarsela come avversaria proprio nella finale pareva impresa titanica da superare.

Al termine di quel bacio, forse ancora ubriacati da quel turbinio di sentimenti frutto anche delle naturali reazioni ormonali, cominciarono a parlarne. Mancavano due giorni a quell'evento. Teoricamente l'attenzione e la concentrazione dovevano essere massime e nessuna distrazione era consentita.
Non a caso, Heleen e Giulio, fecero ben attenzione nei giorni successivi a non far trapelare nulla a chicchessia di quel bacio. Avrebbero reso pubblica la loro nuova relazione solo al termine dei mondiali anche e soprattutto per non distrarre le compagne o scatenare altresì equivoci e incomprensioni.
Heleen sapeva bene che Giulio era ambito non solo da lei ma da più di una compagna di squadra. Ovviamente non proferì nulla di tutto ciò al massaggiatore italiano che accettò di buona lena la scusante del rischio concentrazione.
Nondimeno però cominciò a far frullare un paio di idee strambe nella testa.

Voleva provare ad aiutare in qualche modo la nuova fiamma nonché la squadra a tentare la quasi impossibile impresa di battere le statunitensi. Cassate tutte le intuizioni circa doping o cose simili cominciò a scrollare tra i vecchi contatti ungheresi che aveva ancora a sue mani.
Aveva bisogno almeno di più informazioni. Magari qualcuno di questi suoi contatti poteva essere a conoscenza di tattiche piuttosto che di notizie utili affinché la sua squadra ma, soprattutto, Heleen, fossero state poi in grado di superare anche quell'ultimo ostacolo.

Il primo giorno a disposizione fu un buco nell'acqua. Niente di niente. Anche le sue conoscenze un po' più navigate non avevano agganci né presso la struttura d'allenamento delle americane né all'interno del complesso che ospitava quella che era una vera e propria carovana statunitense con tanto di famiglie al seguito.
In questo primo giorno da dopo il bacio, Heleen e Giorgio ebbero l'occasione di ritrovarsi solo durante l'allenamento pomeridiano in piscina e durante la cena di squadra all'interno dell'hotel. Cercarono di evitare per quanto più possibile contatti diretti, giusto per non destare attenzione ma non furono rare le occasioni nelle quali i loro sguardi finirono per incrociarsi scambiandosi al tempo stesso emozioni intime, profonde ed intense.
Poi, il mattino seguente, durante la sessione di defaticamento in palestra, ci fu un nuovo colpo di scena del tutto inaspettato.
Erano circa le dieci quando il telefono di Giulio vibrò.
A scrivergli era una sua vecchia conoscenza ai tempi del nuoto agonistico. Roba di più di venticinque anni fa.

"Ciao sono Carmelo, ti ricordi di me?"
"Ciao. Scusa, ma Carmelo chi? Ne conosco più d'uno e questo tuo numero mi risulta nuovo"
"Carmelo Lapagljda, un tuo vecchio compagno di nuoto di tanti anni fa, ti ricordi di me?"
"Carmelo!!! Ma certo! E dimmi chi ti ha dato il numero? Nuoti ancora? "
"Una storia lunga. Sono a Budapest perché lavoro al complesso continental. Lo conosci? Il numero me lo ha dato Roberto. Lo sai che lui ora fa il preparatore della nazionale femminile statunitense? Mi ha detto lui che anche tu sei qui e che anche tu sei rimasto nell'ambiente. Io purtroppo avevo dovuto abbandonare ed ero finito in un cattivo giro. Ma da qualche anno che sono in Ungheria mi sono ripreso e non devo più pensare al passato"
"Wow, incredibile. Sono contento per te. Roberto si che me lo ricordo. Era un pezzo di merda ai tempi delle nostre gare. Ma magari ora è migliorato..."
"No, te lo posso garantire. È solo diventato più uomo ma, come dicono qui, lejárat tette még büdös seggfej"
"Mi toccherà tradurre ma credo d'aver intuito..."
"Se ti va, io dalle due di oggi stacco e rientro a lavoro per le sette. Mi farebbe molto piacere vederci per parlare un po'"
"Perfetto, anche noi siamo liberi fino alla cena di stasera. E poi letto presto, domani finale..."
"Lo so ma io lavoro. Vi seguirò dalla TV quasi sicuramente..."
"Allora ci vediamo dalla Basilica di S. Stefano per le tre, ok?"
"Perfetto, a dopo"

Giulio fece giusto in tempo a fermare Heleen lungo il corridoio per informarla che nel pomeriggio avrebbe incontrato questo suo vecchio amico. Heleen prese atto senza battere troppo ciglio con la tipica flemma nordeuropea. D'altronde, nonostante smaniasse all'idea di passare del tempo col suo bell'italiano, la mente era inevitabilmente presa dall'agitazione di quel match così importante. Sentiva di dover stare vicina alle compagne per cercare di compattare il gruppo per quanto possibile.

Le idee che frullavano nella testa di Giulio presero sempre più corpo. Quel Carmelo giuntò così, all'improvviso, pareva veramente un segno del destino. Bisognava solo capire come poterlo sfruttare nel migliore dei modi possibili per il suo scopo visto anche il tempo ormai tiranno.
I punti in comune c'erano. Entrambi avevano odiato Roberto in adolescenza perché un vero e proprio bullo in costume. Nettamente superiore a livello fisico non perdeva occasione per sbeffeggiare chicchessia e, quelle parole proferite per messaggio, lasciavano ancora trasparire un velo d'amarezza. Così come quei trascorsi turbolenti. Forse, confessare a Carmelo in tutta sincerità il caso poteva essere la tattica giusta per far si che qualcosa, nella storia, cambiasse.

Quando si rividero nei pressi della Basilica non persero occasione per sciogliersi in un lungo abbraccio. Seppur per poco meno di due anni, Giulio e Carmelo avevano davvero costruito una sincera amicizia anche se solo in ambito sportivo. Le ore tra i due trascorsero rapidamente. Giulio fece un breve riassunto della sua vita, Carmelo si prese parecchi minuti in più per descrivere il suo percorso e poi, alla fine, virarono inevitabilmente sulla partita del giorno successivo.
Giulio decise di aprirsi. Raccontò del bacio di qualche giorno prima e raccontò di come ci tenesse a fare qualcosa per Heleen e le sue compagne di squadre che limitasse un po' l'evidente gap tecnico e fisico tra le due compagini.
La frase finale di Carmelo, quel suo "ci penso io", intriso e denso d'un dialetto misto ormai tra il romano e l'ungherese, convinse Giulio d'aver fatto la scelta giusta.
Carmelo aveva capito il senso del discorso. La vittoria non era assolutamente scontata né, tantomeno, era scontato il fatto che davvero si potesse fare qualcosa ma Giulio uscì da quell'incontro rasserenato, contento d'aver ritrovato un amico in quella Budapest dove era di casa e consapevole d'aver cercato d'aiutare per quanto possibile il suo nuovo amore.
Fece rientro in hotel, ricercò con lo sguardo Heleen ripetutamente durante la cena prima della finale, venne contraccambiato per quanto possibile ma, la bella olandesina aveva già la testa altrove.
Ne prese atto e si rifugiò a letto. Non ebbe il coraggio di scrivere nulla a Carmelo, né lui fece altrettanto con Giulio.


L'atmosfera era stata un crescendo di luci, di pubblico, di vociare, di musica, d'arrivo di telecamere fino all'ingresso delle atlete ed al loro riscaldamento in acqua.
Le ultime disposizioni e poi il fischio d'inizio.
Heleen fu la prima ad accorgersi che qualcosa in quella corazzata inarrivabile era cambiato. Sembravano più compassate del solito facendo un gioco davvero troppo semplice che per nulla si addiceva a loro, come se non volessero rischiare.
A pochi minuti dall'inizio ci fu quello che può tranquillamente essere definitivo "dramma sportivo".
Durante un'azione d'attacco, una nuvola nerastra cominciò a colorarsi attorno alla centroboa americana. Incredibile ma la campionessa Carole s'era letteralmente cagata addosso in acqua. Passarono poco meno di cinque secondi che la stessa nuvola si colorò attorno ad altre due giocatrici in piscina mentre, altre tre riserve, dovettero correre in bagno onde evitare figure peggiori.
La scena, tra l'imbarazzante ed il grottesco, provocò le reazioni più svariate. Alcune olandesi inorridite da quanto stava accadendo s'affrettarono ad abbandonare la piscina per non entrare in contatto con quella diarrea semigalleggiante. Ma, la reazione peggiore, fu tra il pubblico. Tra l'olezzo e l'evidente visione poco invitante, si scatenò una reazione a catena di vomito tra almeno una decina di tifosi.
Il momento fu talmente schifoso che seguì un concistorio tra gli ufficiali addetti e, alla fine, dopo quasi un quarto d'ora, si prese atto della situazione e si decise di rinviare la partita, molto probabilmente al giorno successivo.

Carmelo Lapagljda aveva sicuramente colpito. Le olandesi non avrebbero comunque vinto ma, quella delle statunitensi, fu una vera e propria figura di merda mondiale.
Heleen si girò verso Giulio. Percepì dal suo viso soddisfatto che lui centrava qualcosa in quanto stava accadendo. Non lo avrebbe mai ammesso ma prese quella orrenda scena marrone come il vero gesto di un uomo degno d'essere eletto a compagno di vita.
Strizzò l'occhio e si rifugiò nello spogliatoio.
Tra i due era definitivamente sbocciato l'amore.
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Ultima modifica: 29/04/2016 22:50 Da Titivillus.
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Re: [#1] La partita (racconti) 30/04/2016 15:35 #17630

Due regni

Nessuno sapeva come fosse iniziata quella guerra e nemmeno perché i due regni combattessero con tutta quella ferocia, con quell'assoluta volontà di sopraffare il nemico. Sembrava che i guerrieri fossero spinti da un qualcosa di impalpabile, da una forza soprannaturale. Forse un dio o un demiurgo si erano impossessati della volontà degli uomini e delle donne, trasformando la naturale avversione per i confinanti in un odio selvaggio oltre ogni limite. O più semplicemente si agiva all'insegna di una di quelle famose leggi non scritte, quella per cui l'uomo tende sempre a sopraffare chi non fa parte del proprio branco naturale.
Eppure gli scontri erano iniziati blandamente, con gruppi di soldati inviati ai confini quasi timidamente, per saggiare la forza e la capacità di risposta del nemico. Piccole azioni di guerriglia, dove parecchia carne da macello era stata sacrificata pur di testare l'avversario. Talvolta si era trattato di azioni coraggiose, altre volte di imboscate proditorie, di piccoli inganni tesi a far fuori anche solo una manciata di uomini. Non sembrava che i Re avessero fretta, ma era evidente che non si sarebbero fermati, che pur di prevalere avrebbero spinto i propri soldati allo sterminio totale. Pareva che nessun abominio fosse impossibile, che chiunque potesse essere sacrificabile pur di ottenere l'obiettivo prefissato. Si trattava di una gara al massacro tesa alla vittoria assoluta, anche se questa avesse significato l'annientamento di se oltre che dell'altro.
Dopo le prime occasionali schermaglie entrarono in gioco i cavalieri, più abili rispetto ai fanti, eppure non ancora i migliori guerrieri degli opposti schieramenti. Furono capaci di mietere vittime come spighe di grano, percorrendo il fronte in lungo e in largo, talvolta addentrandosi profondamente nel regno nemico. Erano stati respinti grazie alla minaccia rappresentata dai grandi campioni della corona, i Portabandiera dei due regni. Quest'ultimi si erano lanciati nelle battaglie più importanti e decisive, razziando, uccidendo, distruggendo e la guerra aveva assunto una dimensione prossima al nichilismo assoluto. Non vi era pietà alcuna, non vi era obiettivo se non quello di decimare l'avversario. Quando era necessario sacrificarsi pur di trucidare un guerriero più importante o famoso, lo si faceva senza pensare, come se le forze in gioco fossero altre rispetto a quelle umanamente percepibili. Sembrava che consiglieri arcani ispirassero e guidassero le azioni degli uomini, persino oltre il normale e naturale istinto di autoconservazione.
Il popolo soffriva e spesso era costretto a fuggire, mentre i villaggi venivano devastati e bruciati, le donne stuprate barbaramente, i neonati straziati nelle culle. La carestia cominciava ad incombere su entrambi i Regni, ma i due Re non sembravano intenzionati a fermarsi e le persone comuni morivano come mosche, vittime delle epidemie e della malnutrizione.
Mano a mano che gli eserciti si assottigliavano, le tattiche dei due sovrani diventarono sempre più sofisticate, sebbene la violenza degli scontri non tendesse a diminuire. Assunsero maggiore importanza le fortificazioni, dove i fuggitivi cercavano di riparare: molti soldati vennero impegnati in lunghi assedi, troppo spesso catastrofici per gli assedianti. La guerra cominciò a stagnare, i combattenti sembravano meno intraprendenti, sebbene la crudeltà non scemasse mai.
Fu allora che entrarono in gioco le due Regine, le spose dei sovrani regnanti. Quest'ultimi erano anziani, e pur guidando le truppe con ordini sagaci, non potevano condurre gli uomini in battaglia come avrebbero voluto. Entrambi erano rimasti vedovi ben dopo la mezza età e si erano risposati con nobili donne più giovani di moltissimi anni. Si trattava non già di deboli principessine dedite alla cura del proprio aspetto, bensì di due autentiche furie, abili con la spada e dotate di grande carisma. All'inizio cominciarono col portare conforto e rinforzi alle truppe già impegnate al fronte, ma ben presto divennero gli agenti fondamentali di quella bolgia infernale chiamata guerra.
La Regina del Regno del Giorno fece laccare di bianco la propria armatura, per differenziarsi dall'avversaria, la Regina del Regno della Notte, la quale indossava una corazza nera come la pece. Le due donne percorrevano le linee in lungo e in largo, combattendo, guidando, ispirando e ovviamente uccidendo. La Bianca, come cominciarono a chiamarla i suoi sudditi, si batté in duello contro uno dei due Portabandiera avversari, trucidandolo dopo pochi istanti. Fece mettere la testa del campione ucciso su una picca e quello divenne il suo stendardo personale. La Nera espugnò una delle fortezze nemiche, uno di quei luoghi fondamentali dal punto di vita strategico, vitali per la difesa di un regno, e ordinò di scuoiare vivi tutti quelli che erano rimasti imprigionati nella fortificazione.
“Nessuna pietà per i Bianchi! Loro sono un Nemico senza onore, noi possediamo la Verità”.
La Madre del Giorno era andata su tutte le furie e dopo aver ucciso personalmente un grande numero di prigionieri, aveva parlato all'esercito dopo averlo riunito.
“Quella baldracca è senza dubbio un'inviata di Satana! Non avrò pace finché il suo lurido cuore di peccatrice le batterà nel petto”.
In seguito a questo scambio a distanza, era iniziata una caccia reciproca e senza quartiere. Le due Regine si cercavano spietatamente, distruggendo tutto quello che incontravano sul loro cammino, intendendolo come un ostacolo al compimento della propria missione. Nel frattempo entrambe le parti cominciarono a cercare con insistenza di uccidere il Re avversario e con qualunque mezzo. Bande di assassini venivano inviati di nascosto nella Capitale avversaria e le Regine dovettero talvolta desistere dal loro intento omicida nei confronti dell'omologa, pur di proteggere gli amati consorti. Poi, in un batter di ciglia, caddero le due principali fortezze dei Neri e la guerra iniziò a prendere una direzione diversa da quella che tutti avevano immaginato. I Bianchi erano stati abili in un caso e nell'altro assurdamente fortunati, e anche se l'esito dello scontro non era ancora del tutto certo, ormai difficilmente la vittoria sarebbe sfuggita al Regno del Giorno.
Il Regno della Notte aveva un'ultima carta segreta, un ultimo tentativo occulto per riuscire a riequilibrare le forze in campo. Tra le file dei fanti combatteva una donna d'origine umilissima, eppure di straordinaria abilità, la quale si era distinta come spadaccina fin dalla più tenera età, ed era molto amata dai commilitoni e dagli ufficiali superiori. Una ragazza intelligente, rispettosa degli ordini e straordinariamente amichevole nei confronti dei compagni di lotta, ma che allo stesso tempo sapeva essere feroce e crudele nei confronti del nemico, spietata e implacabile. Assieme al piccolo plotone comandato da lei stessa, era riuscita a penetrare profondamente nel regno nemico, fino quasi a raggiungerne la Capitale. La sua missione non era quella di uccidere il Re, bensì quella di dimostrare quanto deboli fossero ormai le difese del Nemico. Se fosse riuscita ad entrare e ad aggirarsi non vista nella grande città portando indietro una prova dell'impresa, avrebbe di certo dato una sferzata d'orgoglio al proprio esercito. E probabilmente avrebbe potuto diventarne una condottiera, seguita come e quanto la Regina stessa. Eppure, nel tentativo di arrampicarsi nottetempo durante un temporale sulle mura della Capitale nemica, finì per commettere un errore fatale: scivolò e cadde, rimanendo uccisa sul colpo. L'ultima speranza dei Neri era ormai svanita, poiché a difendere il Re della Notte restavano solo più la Regina, uno dei due Portabandiera e un piccolo drappello di Cavalieri.
Il popolo abbandonò il vecchio sovrano lasciando la città, poiché tutti erano certi che presto sarebbe stata presa d'assedio dalle forze nemiche. Quello era l'intento anche del Re Bianco, ma non l'intenzione della sua Regina, la quale non si era dimenticata della propria promessa. Grazie a un tranello, la donna riuscì a cogliere di sorpresa la grande avversaria, obbligandola a quello che certamente si sarebbe rivelato come lo scontro decisivo di tutta la guerra. Al termine di un duello lungo, emozionante e terribile, avvenuto davanti al grande Cancello che conduceva alla Capitale, la Madre del Giorno ebbe ragione della Signora della Notte grazie a una stoccata al cuore, uno di quei colpi così violenti da forzare persino l'acciaio di una buona armatura. La guerriera rimase alcuni istanti a rimirare il cadavere della nemica, dopo averla fatta spogliare. Ora il corpo della sua nemesi non sembrava altro che quello di uno spaventapasseri, uno di quei pupazzi troppo segnati dalle intemperie e dalla furia degli elementi per poter impaurire anche solo un passerotto. Dopo aver ordinato che la caduta venisse sbranata dai cani, la vincitrice avanzò tronfia varcando il Cancello, addentrandosi nella città nemica senza essere ostacolata da chicchessia.
Ora...

Pietro si riscosse dalle proprie fantasie poiché finalmente aveva individuato la mossa decisiva. La sua mano destra, tremolante e chiazzata dalle macchie dell'età, prese la regina bianca e la spostò in G7. Con una voce flebile e arrochita dalle troppe sigarette, disse:
“Matto, in tre”.
E schiacciò il segnatempo.
Per un istante temette di aver commesso un errore, di non avere individuato la mossa giusta. Non ebbe paura di perdere, quello no: ormai il suo avversario non aveva più nessuna possibilità di ribaltare la partita e nemmeno di pattarla. Quello che temeva era di aver fatto una figuraccia nei confronti di una delle persone che rispettava e al contempo temeva maggiormente in quegli ultimi anni della sua vita. A gettarlo nel dubbio era l'espressione sul volto di Ettore, quel sorrisetto apparso all'interno della folta e bianca barba dell'amico/nemico. Pietro non riusciva a comprendere se fosse rispetto o compatimento. Sperò si trattasse di un modo cavalleresco per riconoscergli la vittoria, ma sul volto del contendente non gli parve di vedere alcun segno di resa. Tremò ancor più di quanto già non lo facessero tremare l'età avanzata e i molti problemi di salute che l'affliggevano.
Dopo averlo lasciato a macerare a lungo nel dubbio, Ettore prese il re nero e senza smettere di sorridere lo coricò sulla scacchiera.
“Sei stato bravo, davvero. Non so ancora come hai fatto a mangiarmi quelle due torri, ma lì è girata la partita. Complimenti, una bella vittoria”.
Pietro tirò un sospiro di sollievo e se fosse stato più giovane e non costretto su una sedia a rotelle, avrebbe forse festeggiato in maniera più pacchiana e scoppiettante.
Mancava poco al momento in cui le inservienti avrebbero portato il pasto serale ai degenti. Un altro lungo pomeriggio era trascorso nella casa di riposo e Pietro era riuscito a trarne qualcosa di buono poiché non gli capitava spesso di battere Ettore a scacchi. Il giorno dopo avrebbero certamente giocato la rivincita, dando vita ad un'altra terribile guerra totale e a nuove sfrenate fantasie.
Fragmina verborum titivillus colligit horum
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Ultima modifica: 30/04/2016 15:43 Da Titivillus.
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