Benvenuto,
Ospite
|
|
La vera casa dell’uomo non è una casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi.
(Bruce Chatwin) Sulla strada è il tema della terza tornata di UniVersi 7, c'è tempo fino al 31 agosto compreso per postare il proprio racconto in gara. Ricordatevi che: - Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 20000 (spazi compresi, titolo escluso); potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito. - I racconti devono avere un proprio titolo e devono essere postati in forma anonima, effettuando il login con nome utente Titivillus e password universi. - Qui potete trovare il REGOLAMENTO. RACCONTI IN GARA: - In corsa (9063) - Nixon street (7537) - Street parade (12616) - Due strade (19949) - Strade (4454) - Lezioni di strada (2802) |
|
La mia vetrina: www.lulu.com/spotlight/gensi
-------------------------- Fortunatamente, ho sempre il difetto di prendermi poco sul serio... [cit. Carmen Consoli - Fortunatamente]
Ultima modifica: 01/09/2016 20:39 Da gensi.
L'Argomento è stato bloccato.
|
IN CORSA
Decisi di iscrivermi al Gruppo di Atletica del mio paese proprio nel giorno più freddo dell’anno. Era l’Epifania e cadeva di domenica. Avevo letto una settimana prima su un volantino all’ingresso della palestra comunale, che ci sarebbe stata una stra-cittadina poco lontano da qui. Il ritrovo era fissato per le sette del mattino davanti alla chiesa, in piazza. Puntai la sveglia per le sei e quaranta, assecondando la mia propensione a centellinare il sonno cercando di godermelo fino all’ultimo minuto possibile. La colazione sarebbe stata leggera. Non si può far attività fisica a stomaco pieno, almeno questo lo sapevo bene. Non avevo idea di come vestirmi. Senza abbigliamento tecnico, con quelle temperature non potevo pensare di andare in giro solo con una normale maglietta. Così tirai fuori dall’angolino più nascosto del mio armadio, una tuta felpata ed un giubbotto imbottito che tenevo di scorta e di cui m’importava poco, insieme ad un cappellino in stile peruviano con dei guanti di lana bianchi. Ripensando ad una pubblicità molto in voga che concludeva dicendo “Non si sa mai!”, passai gli ultimi cinque minuti a truccarmi, con un velo di mascara ed un po’ di rosso sulle guance. Era molto buio quel mattino, ma brillavano ovunque le luminarie natalizie. In paese, gli unici segni di vita erano i passi delle vecchiette che andavano alla prima messa della giornata, e le poche foglie rimaste sui pioppi davanti al sagrato, sventolate dall’aria gelida. La sera prima aveva nevicato abbondantemente, così come all’inizio della settimana. Le strade erano in parte ricoperte dalla neve indurita o da lastre di brina ghiacciata. Chissà perché, pensavo, gli anziani, che potrebbero rimanersene al caldo sotto al piumone anche per tutta la mattina, si alzano così presto per andare a messa. Considerando che ne fanno una anche alle dieci e mezza… Poi sorridevo, immaginando che loro avrebbero rivolto lo stesso pensiero a me. Arrivai per prima ed iniziai a saltellare nell’attesa, un po’ per scaldarmi e un po’ per stemperare l’agitazione. Avevo paura di non riconoscere gli altri del Gruppo, che in effetti non avevo mai visto. Ma mi dovetti ricredere quasi subito: arrivarono in perfetta tenuta da corsa, con calzamaglia e magliette in tessuto tecnico, con cuciture e rifiniture fluorescenti. Mi sentii immediatamente fuori luogo, anche se loro, che si conoscevano e frequentavano da tempo anche per attività non necessariamente atletiche come seppi dopo, facevano il possibile per coinvolgermi. Arrivammo a destinazione quando mancavano venti minuti alle otto. La piazza da dove la corsa avrebbe avuto inizio, era già piena di gente inguainata in tute aderenti e luccicanti con cappucci lucidi in testa, che li facevano sembrare tanti alieni. Misi subito le mani avanti: “Io non so correre e non sono allenata… quindi, siccome avrete un passo sicuramente più veloce del mio, andate pure avanti. Ci ritroveremo all’arrivo!” E con la mia pettorina numero undici, mi avviai alla partenza. Saremo stati in mille, o forse di più. C’erano bambini, anziani, persino cagnolini. Tutti col loro pettorale. Non mi aspettavo un’adesione così importante, soprattutto in inverno la domenica mattina. La Signora Bruna, veterana e mascotte del Gruppo, appassionata di corse ma ormai troppo avanti con l’età per dedicarvisi ancora, anche a causa di qualche problemino cardiaco, mi aveva spiegato che quella che stavamo per fare non era una corsa vera e propria, bensì una tapasciata. “Insomma… una cosa così… tanto per fare… puoi correre o camminare o corricchiare. Non si vince niente, non c’è competitività!” E tutto sommato, era proprio quello che avevo voglia - e le capacità – di fare. Alternai delle brevi corse forsennate, che mi lasciavano senza respiro, a lunghe camminate di ripresa, percorrendo l’anello più breve, quello dei cinque chilometri. Che a me però sembrò essere lungo almeno il doppio. Ricordo che mi piacque molto esplorare a piedi quel paesino: attraversai la piazza ed alcune vie con villette graziosissime, ancora tutte sigillate nelle loro persiane in legno. Il sole cominciava a fare capolino sopra i tetti, sbrinando letteralmente anche alcuni lembi di asfalto. Nella parte di percorso sterrato, passai accanto a due cascine costruite senz’altro qualche secolo fa, ma ancora funzionanti e vive, avvolte da una foschia silenziosa. Ricordo l’odore forte del letame caldo che invadeva, dilatandoli, i miei polmoni. Non mi pareva poi tanto sgradevole, stranamente. Dovevo avere un aspetto assai bizzarro, con quello strano abbigliamento. Il fard sulle guance, capii quasi subito che era perfettamente inutile: avevo un colorito naturalmente bordeaux per la fatica. Col fiato a nuvoletta. Ero da sola, ma non ero sola: tutti mi salutavano sorpassandomi. Alcuni con la mano, non potendo evidentemente interrompere la respirazione. Altri invece scambiavano anche volentieri due parole. Ricambiavo sempre con un sorriso. Io non avevo quasi mai forza a sufficienza per parlare. La cosa fantastica di queste tapasciate, erano i ristori. Lungo il percorso ve n’era almeno uno, o anche due o tre se si facevano le tratte più lunghe. Senza contare quello solitamente più grande e ricco all’arrivo. Alcuni prevedevano “solo” acqua o tè caldo zuccherato. Dire “solo” in effetti non è appropriato perché ciò che apprezzavo di più era che mi fornissero finalmente una possibilità di sosta, seppure breve, per ridar vita ai miei arti affaticati. Erano una specie di traguardo intermedio. Correre mi dava il buon umore. Probabilmente avevo trovato il modo migliore per scaricare stress, tensione e nervoso: la stanchezza prendeva il loro posto. Ma era una stanchezza positiva, attiva, adrenalinica. I paesaggi stessi in cui si snodavano i vari percorsi, erano fonte di benessere per me: spesso si attraversavano campagne sterminate, in cui prati verdi si alternavano a coltivazioni di ogni tipo; si costeggiavano fossati con acqua sorgiva, in cui giocavano libellule blu che non avevo mai visto; e si scoprivano angolini antichi di paesi tanto belli quanto sconosciuti. Lungo il tragitto mi si svuotava la mente. Sentivo solo il mio respiro affannoso, il battito del mio cuore, l’aria fresca sulla faccia. Ed una grande serenità. Ricordo che una volta arrivai al ristoro per ultima. Tanto che le signore addette, già indaffarate a rimetter via gli avanzi e a sbaraccare, cercarono di consolarmi dicendomi che “Non è importante arrivare primi!”. E io risposi sorridendo, con una frase che avevo letto su una rivista qualche settimana prima, se non ricordo male, della Navratilova: “Chiunque dica che non conta vincere o perdere, probabilmente ha perso!” Apprezzando la battuta, mi regalarono una fetta di pane supplementare, spalmata con un’ottima marmellata di albicocche. In generale, si poteva trovare di tutto ai ristori: dalle brioches farcite ai biscotti secchi; dalle torte fatte in casa ai pandori dimenticati dallo scorso Natale. Non mancavano mai le zollette di zucchero e gli agrumi a fette. E una volta, in estate, trovai anche una ciotola piena di anguria fresca tagliata a dadini. Ma la palma d’oro per il ristoro più bizzarro, va sicuramente a quello di un paesino del Cremasco, che offriva ai corridori ravioli in brodo o trippa in comode vaschettine usa e getta. E’ vero, le tapasciate non erano competitive, quindi chi arrivava per primo non vinceva nulla, se non la soddisfazione di aver superato tutti gli altri. Ma non si tornava mai a casa a mani vuote: gli sponsor offrivano un “riconoscimento” – era proprio definito così – a tutti i partecipanti. Portavo a casa a volte bottiglie di buon vino, dolci locali, formaggi e altri viveri di ogni genere. “Devo rivedere la mia strategia” pensavo. “Se corro per dimagrire e poi mangio il mondo intero ai ristori, và da sé che il metodo non può funzionare!” Ma non correvo solo per dimagrire. Solo che ancora non lo sapevo. Anni dopo lo capii, anche grazie al mio personal trainer cui nel frattempo mi ero affidata: la strada che percorrevo era lo scopo stesso, e nel contempo il mezzo, con cui raggiungevo il mio benessere. Lui mi diceva sempre che poi la corsa non mi sarebbe più bastata, perché quando si raggiunge “la completezza” – lui chiamava così quella sensazione di poter arrivare ovunque – si ha bisogno di nuovi stimoli, di nuove strade. E forse un giorno sarà proprio così anche per me. Per ora però mi faccio bastare la strada che conosco, quella che accompagna i miei passi quasi tutti i giorni durante il mio allenamento e che ascolta i battiti affannati del mio cuore. La sento mia, quella strada. Adoro il suono vellutato delle suole di gomma sullo sterrato, i fili d’erba che si piegano al mio passaggio e persino i moscerini che mi inseguono attratti dall’odore del mio sudore. Adoro quella curva dove non batte mai il sole, che mi regala qualche secondo di ristoro durante gli allenamenti estivi. Adoro quell’attimo in cui realizzo che mi mancano solo pochi metri all’arrivo e che ce l’ho fatta e che mi fa dire “La mia strada, anche stavolta, l’ho percorsa”. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Nixon Street
Il signor Kappa quel giorno si era alzato dal letto davvero di buon umore. Aveva gustato con piacere la colazione preparata dalla moglie a base di uova, bacon e caffè lungo e adesso era pronto per fare il suo solito giro per “Nixon Street” fino a raggiungere il “Bush Junior Park”. Il signor Kappa aveva 76 anni ed era pensionato. Aveva lavorato tutta la vita presso la “Lyndon B. Jhonson Memorial Library” in qualità bibliotecario; questo gli aveva permesso di potere acquistare una casa, di cambiare la macchina abbastanza regolarmente (ogni 10 anni circa), di avere una moglie casalinga e di crescere dignitosamente due figli, che oramai si erano sposati e vivevano non lontano dai genitori. Il signor Kappa era nonno di tre nipoti, due maschi e una femminuccia, che lo adoravano. <<Mary, io scendo>> disse il signor Kappa alla moglie, che intanto stava stirando le camicie. <<Ricordati di passare dalla drogheria della signora Harding per prendere il sale>> rispose la signora Kappa. <<Certo, cara>> rispose il signor Kappa. Il signor Kappa amava passeggiare per Nixon Street, soprattutto nelle belle giornate primaverili come quella. Nulla era cambiato da quando vi abitava, ossia da quasi cinquant’anni. Una fila d’alberi, aceri americani, gettava un’ombra che rendeva freschi i marciapiedi, e i negozi che vi facevano capolino erano gestiti da generazioni sempre dalle stesse famiglie. <<Buongiorno Franz.>> Disse il signor Trump. Franz non era il vero nome del signor Kappa, si chiamava Frank, ma il signor Trump amava ricordargli le sue origini dell’est europa, giusto per stuzzicarlo un po’. Il signor Trump era un grasso e giulivo chiacchierone, proprietario dell’edicola di Nixon Street. Portava sempre dei panciotti molto colorati e aveva dei papillon con varie fantasie. <<Hai visto cosa combinano i democratici? - ricominciò il signor Trump - con la loro politica sugli stranieri vedrai che a breve non rimarrà neanche un vero americano, ci saranno solo messicani e portoricani!>> Al signor Kappa la politica interessava solamente per le questioni relative al proprio quartiere, non aveva la visione a carattere nazionale del suo edicolante di fiducia, votava per i repubblicani, ma solo perché li riteneva migliori nelle questioni pratiche: la pulizia delle strade e la possibilità di tenere un’arma in casa. Acquistò il giornale che titolava “PASSA LA LEGGE, ASSISTENZA SANITARIA GRATUITA AGLI IMMIGRATI”, scambiò due chiacchiere col signor Trump e si diresse verso il Bush Junior Park dove lo aspettavano la sua panchina preferita e il laghetto con le papere. Uscendo dall’edicola accadde che un piccolo scarafaggio nero gli si parò davanti. Il signor Kappa l’osservò per un istante poi, con fare deciso ma con volto disgustato, si decise a sopprimerlo. L’operazione durò un attimo, anche se il signor Kappa ebbe la sensazione che il piccolo scarafaggio si fosse messo in piedi sulle zampe posteriori, ad atteggiamento di supplica, prima d’essere schiacciato. Sul marciapiede rimase solo una macchia verdastra. <<Ha fatto bene>> disse la signora Harding che era uscita proprio in quel momento dalla drogheria. La signora Harding era una una teutonica donna di origini tedesche, alta più di un metro e ottanta e con una folta capigliatura biondo oro che teneva raccolta in una grossa treccia; vedova del defunto signor Harding, che invece era stato un uomo piuttosto scuro e mingherlino. <<Buongiorno signora Harding, speriamo che non ce ne siano altri in giro>> rispose il signor Kappa che proseguì verso il parco, avrebbe preso il sale che gli aveva chiesto sua moglie sulla via del ritorno. Giunto al parco si sedette sulla panchina ad ammirare il laghetto, peccato che quel giorno non c'erano le papere <<che strano - disse - eppure ieri c’erano.>> Così aprì il giornale: “NON PASSA LA LEGGE, NO ALL’ASSISTENZA SANITARIA GRATUITA AGLI IMMIGRATI”; eppure era sicuro d’aver letto che la legge era passata, come aveva fatto a sfuggirgli quel “NON”? <<Mi sto rimbecillendo>> si disse, e pensare che ne aveva fatto argomento di discussione con Trump! <<Ci faremo due risate appena glielo dirò.>> Finita la lettura decise che era giunto il momento di prendere il sale e tornare a casa, così si avviò nuovamente verso Nixon street. Il cielo intanto si era fatto nuvoloso, sembrava voler piovere. Gli aceri avevano assunto un triste grigiore, molti aver perso le foglie pur essendo l’autunno ancora lontano, e i loro rami si stagliavano lugubri su quella massa di nubi cariche d'acqua. Piccoli mulinelli fatti dal vento avevano sparpagliato per strada cartacce e altra immondizia, e in alcune parti il marciapiede sembrava essersi crepato. Il signor Kappa si avviò con una certa nuova fretta verso la drogheria ma entrandovi ebbe una sorpresa, mancava la signora Harding. Al suo posto, dietro al bancone, vi era una piccola donna molto scura, dalla faccia larga e piatta, con occhi molto grandi e sporgenti. Sulle prime rimase bloccato a guardarla, poi pensò che si trattasse di qualche strana nipote, da parte del signor Harding presumibilmente, non somigliando a nessun tipo germanico di sua conoscenza, venuta da chissà quale paese dell'America latina a cercare lavoro. Quindi si decise a chiedere il sale. <<Shifischicìfisch!>> rispose la donna. <<Ha pure dei problemi con la lingua - disse il signor Kappa – sarà davvero un problema ottenere il sale, ma dov'è la signora Harding? Non può mica lasciare da sola questa povera immigrata al bancone, ma soprattutto non può lasciarmi senza sale!>> Le si avvicinò e ripeté scandendo per bene <<SA-LE.>> La donna allora si girò per cercare il sale negli scaffali lasciando vedere una treccia bionda che scendeva giù per la schiena, che anziché essere una schiena in realtà sembrava un grosso carapace nero e ricurvo che usciva dai vestiti strappati, quindi, rigirandosi, posò sul bancone una scatola di sale con due zampe sottili e nere che uscivano dalle maniche della camicia. <<Shifischicìfisch!>> Tutto il resto no, ma la treccia era proprio quella della signora Harding. Che quell'essere l'avesse ingoiata? Il signor Kappa, corse come un razzo fuori dal negozio, nella bufera che imperversava in Nixon street. Vide la porta dell'edicola aperta e vi si avviò per cercare aiuto. Se c'era qualcuno che sapeva cosa fare con gl'immigrati cannibali quello era di sicuro il signor Trump. Ma entrando di corsa nel negozio inciampò su qualcosa, un grosso essere nero con un panciotto colorato stava camminando sul pavimento su otto zampe. <<Shifischicìfisch>> disse come un rimprovero. <<Trump?>> chiese disperato da terra il signor Kappa. <<Shifischicìfisch>> ripete l'enorme insetto. << O Signore mio, aiutami tu!>> gridò disperato il signor Kappa scavalcandolo e uscendo fuori dal negozio. Nixon street era nel centro della tormenta, gli alberi, oramai completamente spogli, si agitavano al vento. Polvere e pioggia insieme gli sferzavano il volto. Cumuli d'immondizia venivano trascinati in ogni direzione. Il signor Kappa riuscì a raggiungere casa, correndo nella tempesta, non gli restava altro da fare che recuperare il fucile, prendere sua moglie e scappare, scappare via da Nixon Street. Salì i gradini a due a due, entrò a casa, e si diresse verso l'armadio dove teneva l'arma, intanto gridava <<Mary, Mary, dobbiamo scappare. Nixon street è infestata da immigrati cannibali. Mary. Dove sei?>> <<Shifischicìfisch>> sentì dopo un lungo silenzio. Il Signor Kappa non ci pensò a lungo, caricò il fucile e se lo puntò alla testa. <<Shifischicìfisch!>> disse prima di morire. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 30/08/2016 01:02 Da Titivillus.
L'Argomento è stato bloccato.
|
STREET PARADE
Ogni mattina mi reco al lavoro a piedi. Ormai sono anni che faccio lo stesso tragitto che attraversa la mia tranquilla città che tutto è fuorché una metropoli. Memore di vecchie lezioni di scienze ed usando il mio latino maccheronico, cerco ogni mattina di catalogare i personaggi che incontro sul mio cammino. E’ nato come un gioco ma con il tempo mi sono convinto che la strada è uno degli zoo più interessanti che ci siano. Proverò a condividere il campionario fino a qui messo insieme con chi avrà la bontà e soprattutto la pazienza di leggerlo. Intanto mi sono autocatalogato, trovando però tanti miei simili sulla strada. Sono l’homo pinguino. E’ quello che con qualsiasi tempo gira per motivi di lavoro in giacca e cravatta (troviamo sempre più diffusa la sottospecie senza cravatta, ma che comunque non ha perso le peculiarità della sua specie). Nei mesi caldi si riconosce in quanto lascia per terra un fiume di sudore da far invidia al Rio delle Amazzoni e si ferma in qualsiasi parte dove sembra esserci un filo d’ombra. E’ quello che trovi all’ombra del cartello di divieto di sosta oppure è quello a cui la scarpa slacciata diventa un pretesto per accucciarsi al riparo del sole nel cono d’ombra di un furgoncino in sosta. Nei mesi freddi invece lo identifichi dalla sua abilità nello stare in equilibrio sui marciapiedi bagnati o ancora peggio ghiacciati con le sue scarpe con rigorosa suola in pelle. Qualche componente di questa specie, quando la temperatura scende sotto lo zero, può anche presentare qualche segno di congelamento perché è un peccato coprire il nuovo completo firmato con un umile giaccone. Un’altra categoria molto frequente sulle strade cittadine è l’homo genitore. E’ una persona in perenne corsa contro il tempo. Sa già che alle 8 di mattina ha già accumulato una serie di ritardi da guiness dei primati. E’ quello che generalmente parla solo, perché i figli non lo ascoltano neanche per sbaglio. E’ quello ansioso che non va via tranquillo se non ha dispensato almeno ottantaquattro consigli al figlio, di cui ottantatrè inutili e uno inascoltato. E’ quello che nella convinzione di far prima si muove anche per cento metri con l’auto, per poi impiegare 20 minuti per trovare un posto in terza fila attirandosi le ire di mezza via che ha intasato. Generalmente è dotato di una fantasia superiore alla media, che gli permette di trovare le scuse più disparate per coprire i costanti ritardi con i quali si presenta ogni mattina al suo datore di lavoro. Quando i figli dell’homo genitore diventano un po’ più grandi, diventano homo studens. Si caratterizzano dal fatto di vivere in branchi e si riconoscono dal fatto che generalmente portano gli stessi abiti, gli stessi zaini e comunicano solo tramite smartphone. Sulle scale antistanti il portone di ingresso della scuola, loro habitat abituale, è facile trovare due sottospecie soprattutto nella mezz’ora antecedentel’apertura. Sebbene entrambi siano sedute sulle scale una a fianco all’altra con il libro aperto, intente a ripassare la lezione in programma quel giorno, si distinguono a colpo d’occhio. Da una parte abbiamo la sottospecie “secchions” che è quella che si caratterizza dall’essere sempre in perenne agitazione, in quanto afferma sempre di non sapere nulla, di non aver avuto tempo di studiare e paventa esiti catastrofici in caso di un’ipotetica interrogazione. Molto spesso è di genere femminile. La si ritrova sempre all’uscita della scuola che commenta il suo ennesimo dieci preso nell’interrogazione paventata alla mattina con una frase del tipo “Che fortuna! Non sapevo nulla ma mi ha chiesto l’unico argomento di cui mi ricordavo qualcosa”, incurante del fatto che negli ultimi due mesi è il ventesimo dieci che prende e che sempre ha questa “fortuna” di beccare l’unico argomento che sapeva. Non ammetterà mai nemmeno sotto tortura che abitualmente studia otto ore, che non esce di casa e che ha puntato la sveglia alle quattro di mattina per ripassare quella nota scritta in piccolo nell’appendice del libro, vuoi mai che ci sia una remota possibilità che venga richiesta dal terribile prof. E’ terribilmente invidiata, anche se esclusivamente per il suo rendimento scolastico, dall’altra sottospecie, il “ripetens”. E’ quello che cerca disperatamente di immagazzinare qualche informazione tra le pagine del libro, a lui terribilmente oscure sebbene le abbia intraviste varie volte. Ha sempre la speranza di riuscire a studiare tutto in cinque minuti seduto sulle scale e che il prof gli chiederà l’unico argomento, di cui ha sentito parlare o di cui ha letto il titolo, cosa che avviene con la stessa frequenza con cui i pianeti del sistema solare sono tutti allineati. Il risultato finale per lui è sempre quello. Si ritrova costantemente a fine quadrimestre ad affidare i suoi voti alla vecchia e cara schedina del Totocalcio, con la vana speranza che almeno lì l’esito sia meno fallimentare. E’ una sottospecie molto sedentaria: tende a rimanere vari anni nella scuola in cui si iscrive arrivando anche a permanenze che arrivano al doppio rispetto alla media della sua specie. In una città anziana come la mia, non può mancare l’homo pensionatus. Si caratterizza dal vagare per città apparentemente senza meta. Lo trovi in branchi numerosi nelle sale d’aspetto dei medici, non tanto perché malato, ma perché è il luogo di conversazione sui temi a lui più cari. E’ sempre sui mezzi pubblici negli orari di punta in cui l’homo pinguino va a lavorare e lo si riconosce in quanto sbraita giornalmente con l’azienda di trasporto locale perché gli autobus sono super affollati. Spesso lo si trova in prossimità di cantieri dove delizia con i suoi pareri da tuttologo il povero geometra che svolge regolarmente il suo mestiere. E’ fortemente attratto dagli incidenti stradali. Nel caso avvenga uno, lo sciame degli appartenenti alla specie si dispone intorno a mezzo cerchio coordinando a parole soccorsi e soprattutto rilievi, coadiuvando a suo dire attivamente le forze dell’ordine nell’ingrato compito. Abitando in una città di mare, alcuni di loro si sono evoluti nella sottospecie balneans e si riconoscono per girare con la sdraio pieghevole anche in pieno inverno, cercando l’angolo riparato per poter prendere anche un solo raggio di sole. Questo li ha portati ad essere riconoscibili anche dalla pelle che è più scura di quella di un abitante del centro Africa. Ormai vivono in simbiosi con il mare, loro elemento naturale e non rinunciano ad un tuffo nemmeno se la temperatura esterna è sotto lo zero. Un'altra specie abbastanza diffusa è l’homo caninus. Contrariamente al nome, non è un uomo con tratti somatici di un cane, ma è uno che porta a spasso al guinzaglio quello che per lui è il suo miglior amico a quattro zampe. Normalmente lo incroci alle prime ore dell’alba con l’occhio a dir poco assonnato. Rimpiangendo il caldo tepore del letto dal quale è stato brutalmente strappato, guarda con fare rassegnato il quadrupede che fa i suoi bisogni, pensando poi che li deve raccogliere con il sacchettino di cui è dotato. Spesso il suo pensiero va alla definizione della giornata. Quella che si dice una giornata di m….. Quando incontra un suo simile, sa già che lo aspetta il consueto allenamento al tiro alla fune, cercando di staccare il suo amico cane che si azzuffa con quello dell’altro. Molto spesso a condividere i luoghi dell’homo caninus, si trova l’homo sportivus. E’ quello che si sente sempre giovane e che ha deciso che per lui non è un problema prepararsi per la prossima maratona, pur di aver modo di vantarsi delle sue performance con i suoi simili. E’ facilmente riconoscibile da come si veste. Non gira mai senza la sua maglietta e i suoi pantalocini in tessuto ipertraspirante. Per lui la scelta delle scarpe non è un semplice acquisto, ma ha valore di adesione ad una religione. Normalmente lo trovi bardato di fascia per la misurazione del battito cardiaco e si porta dietro sempre il suo smartphone con il quale ascolta musica cercando di alleviare la fatica. Lo trovi in circolazione con qualsiasi tempo e molto spesso lo trovi per le strade cittadine incurante del traffico e del benzene che respira. E’ quello che arriva sempre distrutto a scuola o sul lavoro, ma contento di aver battuto di un centimetro il suo record giornaliero di percorrenza come omologato dalle sue duecento app sul tema che ha con cura installato prima di cimentarsi nella corsa. Molto fastidioso da incontrare sia negli spostamenti a piedi che in quelli con l’auto è l’homo incavolatus. Perennemente arrabbiato con il mondo, il soggetto gira per la città alla ricerca del motivo per litigare che trova in qualsiasi frangente. Se è motorizzato, per lui chi gli sta davanti o chi lo segue è un emerito incompetente alla guida e ogni occasione è giusta per condividere con l’ignaro passante questo suo pensiero. Spera sempre di trovare un suo simile per poter dar sfogo con una bella rissa al suo bisogno quotidiano. Se non trova terreno fertile nel quotidiano, lo senti inveire contro il governo di qualunque colore esso sia. Tanto gli dà sempre enorme materiale per le sue incavolature. Soprattutto nei periodi invernali, è facile incontrare l’homo contagiosus. Si caratterizza per avere visibilmente poca salute. Normalmente presenta sintomi quali tosse, raffreddore e lo vedi a cento metri di distanza che è febbricitante. Predilige i posti affollati quali autobus, scuole e uffici dove può esprimere tutta la sua potenza di fuoco. Per non si sa quale strano motivo, non rimane mai a casa a curarsi e lo senti dire frasi del tipo “cosa vuoi che sia un raffreddore, io 38 di febbre li reggo benissimo, con tutto quello che avevo da fare, non posso permettermi di stare a casa”. Ha sulla coscienza le più importanti epidemie influenzali stagionali, ma al momento non è soggetto ad alcun provvedimento restrittivo come meriterebbe. In alcuni momenti dell’anno, compare l’homo saldus. Normalmente di sesso femminile, lo trovi in gran numero nei negozi di abbigliamento da cui entra ed esce con grande frenesia alla ricerca dell’affare del secolo. Alla mattina lo trovi con le mani libere, ma con il passare della giornata è sempre più travolto da pacchi e pacchetti colorati. Sembra in tranche ed diventa pericoloso se bloccato nel pieno della sua attività. Molto raramente è accompagnato dall’homo saldus di sesso maschile, che però pur appartenendo alla medesima specie, presenta delle peculiarità completamente diverse. L’homo saldus maschio normalmente presenta segni di rassegnazione nei confronti della femmina capobranco. Non appare interessato a quanto gli accade intorno e con l’esperienza ha imparato a non emettere suoni soprattutto quando riceve da parte della donna domande del tipo ”Come ti sembra? Mi sta bene?”. Da un po’ di tempo è comparso in città e nei luoghi più disparati l’homo pokemonens. E’ l’evoluzione del terzo millennio dell’homo cacciatore. Si aggira per città tenendo in mano il suo smartphone alla ricerca di non si sa quali entità che cerca di cacciare con il suo aggeggio elettronico. Non si cura di quello che gli accade intorno. E’ facile trovarlo schiacciato sotto a qualche auto oppure spiattellato contro qualche palo o qualche muro, ma sempre con il cellulare in mano. Non esita a colpirti con il suo infernale strumento urlandoti frasi incomprensibili del tipo “non me lo lascio scappare, non sono riuscito a prenderlo, sta scappando, ecc.”. Normalmente gira solitario e diventa pericoloso quando sulla strada un suo simile che sta puntando la sua stessa preda immaginaria. Piuttosto raro da incontrare è l’homo segway. Si caratterizza per sfrecciare sui marciapiedi ritto in piedi su un trabiccolo motorizzato a due ruote. Acerrimo nemico dell’homo pensionatus, si diverte a dribblarlo, evitando gli improperi che gli arrivano puntualmente. Purtroppo le teorie di Darwin lo danno con la tendenza ad avere le gambe sempre più atrofizzate, tanto che non è raro vederlo andare al bagno a fare i suoi bisogni con il suo amato mezzo. Per la pace dei pedoni, non sembra stia trovando un ambiente a lui favorevole per la proliferazione. Rischia l’estinzione ma il genere umano se ne farà una ragione. Quello che dalle mie parti non ho ancora trovato è l’homo normale. E’ quello che non ha assilli, non vive schiavo dell’orologio, non ha pensieri, non ha alcuno che gli dice cosa deve fare e quando, gode di ottima salute, ha un carattere adorabile che si sposa con qualsiasi componente delle altre specie, cammina felice. Dicono che sia un essere mitologico, ma io non dispero prima o poi di incrociarlo sulla strada e invidiarlo per il resto della mia vita. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Due strade
1 Carlo spinge forte sui pedali, regolare e costante, ora che la salita si è fatta impegnativa. Non c’è nessuno per strada, in questo pomeriggio domenicale, soleggiato ma fresco. Ha sempre adorato andare in bici alla fine di settembre, periodo in cui si è anche espresso al meglio dal punto di visto atletico. Ma oggi è una giornata particolare, uno di quei rari momenti di passaggio in cui potrebbe nuovamente sentirsi se stesso, oppure perdersi del tutto. E’ la prima volta da due anni a questa parte, in cui torna a salire su per un pendio, dopo il grave incidente a causa del quale ha rischiato di non poter più camminare bene come prima. Carlo ora non sta pensando a niente, immerso com’è nella fatica. Ha sempre amato la bicicletta, fin da quando era soltanto un bambino. L’ha preferita agli altri sport, pur essendo atletico e coordinato, bravo sia a calcio che a pallavolo. La soddisfazione di domare una salita, di arrivare in cima e di girarsi per un attimo prima di scollinare, per dire alla strada “Ho vinto io anche questa volta”, non l’ha mai provata per un gol o una schiacciata. Neppure per la vittoria in una partita tirata. Carlo affronta un tornante stretto e inevitabilmente perde velocità. Ora dovrebbe rilanciare, dovrebbe spingere al massimo per ritrovare il giusto ritmo. Ma per farlo non può che alzarsi in piedi sui pedali. Per lui è proprio questa la prova finale, la dimostrazione concreta che il suo corpo è tornato a rispondergli come prima dell’incidente. “E se non ci riesco? E se il ginocchio si ribella?” La scelta del percorso non è stata casuale, tutt’altro. Carlo ha voluto quella strada per due ragioni, entrambe fondamentali. La prima è data dal pendio così impegnativo, per quanto si tratti soltanto di una collina e la salita non sia quindi troppo lunga. Una buona occasione per tornare a salire sul serio, senza andare troppo oltre i limiti fisici attuali. La seconda ragione è che l’incidente che l’ha visto protagonista in negativo è avvenuto proprio su questa strada. Vuole esorcizzare le sue paure, i timori che gli hanno impedito di poter praticare la sua attività fisica preferita. Non è stato ostacolato soltanto dal suo corpo, bensì anche dalla sua mente. Carlo si vede passare davanti agli occhi gli ultimi mesi in una frazione di secondo. Ha trascorso l’estate ad andare in bici in pianura per fare fondo e fiato. Prima cinque ridicoli chilometri, poi dieci. Quando è arrivato a venti sembrava non riuscire più ad andare oltre. Attorno al quindicesimo cominciava ad avere dei dolori incredibili al ginocchio operato e ricostruito. Dolori inspiegabili, poiché dagli esami non risulta nessuna ragione fisica che possa originarli. Il suo medico di famiglia gli ha consigliato uno psicologo che si occupa di sportivi, specializzato nel recupero dagli infortuni più gravi. “Poche persone sarebbero tornate in bicicletta dopo essere rimaste coinvolte in un incidente come il suo, signor Giovine. Il dolore che prova è quasi certamente generato dalla sua mente, da un comando involontario trasmesso al suo sistema nervoso, a scopo di auto protezione. Qualcuno li chiama dolori psicosomatici. Ma visto che vuole tornare in bici con tutto se stesso, deve imparare a gestire il dolore. E mano a mano che uscirà a pedalare, acquisterà nuova sicurezza e anche il suo subconscio si placherà, così come le sue paure”. Carlo esce dal tornante lentissimo, perché si è distratto a rimuginare. “Ma vaffanculo!” Si alza sui pedali, subito pesta, poi spinge forte. La bici ondeggia prima a destra, poi a sinistra, e alla fine schizza in avanti. L’adrenalina invade il suo corpo, creando eccitazione e benessere. Finalmente sembra essere tornato se stesso, giacché il corpo risponde come previsto. Il lieve dolore che stava cominciando ad attanagliare il ginocchio, quel dolore senza motivo, svanisce come neve al sole. Carlo continua a scodare con la bicicletta, si impegna, rilancia ulteriormente, raggiunge la velocità alla quale era abituato prima del disastro. Il fresco di settembre gli dona ulteriori energie, facendolo salire come una scheggia per il ripido pendio. Ora è libero davvero, non pensa più ai tempi bui, al coma, alla carrozzina, alle operazioni, alla fisioterapia, lenta, faticosa e snervante. Ora è Carlo Giovine, architetto e ciclista, come fa scrivere sui suoi biglietti da visita. La sua mente vola sulle onde della gioia ritrovata, sull’ebbrezza della sfida contro la strada. Non c’è altro che il nastro d’asfalto sotto le sue ruote, pronto per essere sconfitto nonostante le insidie che ogni volta racchiude. La vetta non è lontana, potrà scollinare tra un paio di chilometri. Nemmeno si accorge che è proprio questo il punto in cui è stato travolto da quel pirata della strada, già noto alle forze dell’ordine per ragioni simili. Un piccolo stronzo figlio di papà, pieno di soldi, capace solo di distruggere macchine veloci e far mettere sul conto. “ARCHITETTO IN FIN DI VITA A CAUSA DEL SOLITO FANNULLONE”. Questo titolo tratto da un giornale locale ha spopolato sui social, rendendo nota la vicenda a livello nazionale. L’investitore era ubriaco, e la notizia è stata riportata e discussa persino in qualche talk show televisivo. Non si è fermato, ed è tornato sulla scena dell’incidente soltanto perché “obbligato” dalla ragazza che viaggiava al suo fianco. Hanno chiamato i soccorsi appena in tempo affinché Carlo potesse salvarsi la vita. Ricorda bene di quando il ragazzo che l’ha travolto è venuto in ospedale a trovarlo. Non si è certo trattato di un risveglio di coscienza, bensì di una carta da utilizzare con il giudice per addolcire la propria posizione processuale. Sulle prime a Carlo aveva fatto addirittura piacere: dopo due mesi trascorsi in coma farmacologico si sentiva un sopravvissuto, un miracolato, disposto a perdonare persino chi l’aveva ridotto in quella condizione. Poi si è reso conto di chi sia davvero il personaggio e la sua opinione è cambiata, radicalmente. Adesso tutto questo è lontano anni luce da Carlo. Esiste ancora, sempre sarà presente da qualche parte nella sua mente, motore di potenziali rabbie ed angosce, ma finalmente scivola in secondo piano. Anche il fatto che il suo investitore guidi ancora, grazie ai lavori di pubblica utilità svolti subito dopo l’incidente e ai soldi spesi dal suo facoltoso paparino, non lo disturba più come prima. Ci sarà un processo penale dove Carlo si costituirà parte civile, ma tutto questo è il futuro, è oltre. Ora esiste solo il benessere attuale, l’aver ritrovato se stessi. Non ha mai amato perdere parti di se e ora che finalmente recupera questa, per lui così importante, riesce finalmente a sentirsi davvero completo. Carlo giunge a un breve rettilineo dove la strada è meno impegnativa e finalmente alza la testa per guardarsi attorno. Sorride, rendendosi conto di non essersi neppure accorto di essere passato dal punto in cui è stato travolto, concentrato com’era sulla sua bicicletta. Per mesi non ha voluto percorrere questa strada nemmeno in macchina, terrorizzato dal ricordo dell’incidente. L’elemento che gli è rimasto più impresso di tutta la vicenda, è stato il rumore fragoroso e frastornante del motore potente della fuoriserie del bastardo, più ancora del momento dello scontro. A volte quel suono terribile lo sente ancora nei sogni peggiori, e quando succede si sveglia urlando, rimanendo poi con gli occhi sbarrati per tutto il resto della notte. Attorno a lui la natura è splendida, nonostante le foglie abbiano cominciato a cadere. Il verde e il marrone brillanti dell’estate, hanno lasciato il passo al giallo e all’arancione/rosso dell’autunno. Il grigio della pioggia battente non è ancora arrivato e la campagna è dolce e accogliente, anche se si sta addormentando giorno dopo giorno, per poi scivolare nel letargo vegetativo. Carlo stacca la mano dal manubrio incurvato e se la mette sul ginocchio. E’ incredibile pensare a quanto fosse martoriato dopo l’incidente, a come gli abbiano dovuto sostituire la rotula con una protesi in lega di titanio, a come i suoi legamenti siano ora del tutto artificiali. Per non piangere ha provato a scherzare spesso su questa cosa, chiamandosi da solo “Uomo da un milione di dollari”, “Architetto bionico” o con altre facezie simili. Ma nelle lunghe notti insonni dopo gli incubi, le lacrime sono arrivate, pensando a come avesse dei corpi estranei dentro di se. La piccola vetta adesso è perfettamente visibile, fino ad ora rimasta nascosta dietro a dei pioppi da taglio. Carlo si alza ancora sui pedali ed accelera in maniera imperiosa, raggiungendo una velocità davvero notevole. Poco prima di scollinare si gira verso la strada, come d’abitudine, e questa volta alza il dito medio, mettendosi a ridere fragorosamente. Prende la discesa a bomba e mano a mano che scende in picchiata, incrementa ulteriormente la velocità. Ha sempre amato l’adrenalina del rischio e non ha mai avuto paura, incosciente e sicuro di se. Si concentra sul rumore delle ruote, avvolto dal fischio del vento e non sente più nulla. E’in una perfetta bolla di stasi, quella che ha sempre cercato e trovato grazie all’amata bicicletta. All’improvviso Carlo intravede due macchie marroni provenienti da un boschetto, situato oltre il bordo della strada. Sia lui che le due “cose” sono talmente veloci che non riesce ad identificarne la natura. Per evitarle, deve scodare con violenza e toccare i freni, perdendo così il controllo della bici. Finisce in un piccolo fosso ancora a cavallo della sella, ma ne viene immediatamente sbalzato via non appena la ruota si infila nel solco, il corpo trasformato in una scheggia impazzita di energia cinetica. Eppure avviene una sorta di miracolo, o meglio una bizzarria casuale e imprevedibile. Cadendo rovinosamente al suolo, Carlo protende in avanti proprio il ginocchio che tanto l’ha fatto dannare nel corso degli ultimi due anni. Incredibilmente la rotula di titanio regge, assorbendo l’urto terribile, permettendogli di rimbalzare dolcemente sul prato, senza danno alcuno. 2 Silvano orina a lungo, tenendo il pene raggrinzito con la mano destra. Appena finito, scrolla e si rende conto di aver bagnato le sue Hogan da 350 Euro. Bestemmia con una voce sorda, quasi afona, alterata dalla febbre che lo sta attanagliando ormai da qualche giorno. Come abbia fatto a prendersela non lo sa. Forse gliel’ha attaccata quella escort bulgara che ha affittato per tre giorni la settimana scorsa, o forse la cameriera filippina della zia. Entrambe tossivano parecchio, tra un pompino e l’altro. Dopo qualche passo traballante, Silvano monta sulla sua Porsche giallo fluo e sbatte forte la portiera, senza neanche riuscire a chiuderla, la cintura presa in mezzo. Non è giornata e non soltanto per l’influenza che si sente addosso. Apre il cruscotto con nervosismo, tira fuori una bustina piena di coca e uno specchietto da trucco, preparando poi due piste. Appena le inala, avverte una botta pazzesca. “Cazzo, che neve fantastica!” Rimane con gli occhi chiusi a lungo, godendo dell’effetto immediato della droga. Questo è il momento che gli piace di più di quando si fa di coca. L’attimo perfetto, prolungato all’infinito, durante il quale il corpo raccoglie tutte le energie possibili e le trasforma in iperattività ad ogni livello pensabile. Silvano riapre gli occhi e si sente come un super eroe, il malessere fisico alle spalle, pronto per qualsiasi cosa. Raccoglie la cintura e chiude la portiera con energia, mettendo in moto la macchina. Parte facendo slittare le gomme sulla ghiaia della strada di campagna dove si è fermato per la sua minzione. In questo momento non ha la più pallida idea di dove si trovi. Eppure questi luoghi gli sembrano in un qualche modo famigliari. Non guida quasi mai di pomeriggio, normalmente lo passa a dormire, ma oggi ha fatto un’eccezione perché è andato a battere cassa al padre. Il vecchio gli ha staccato il solito generoso assegno senza neanche guardarlo in faccia. Non gli fa mai mancare i fondi, ma lo disprezza in maniera fredda, totale. Silvano ha smesso di sognare di riuscire a farsi amare da lui, ormai è troppo grande per avere ancora quella pretesa. Eppure ogni volta fa male, anche se ormai soltanto per un istante. Accelera, spinto dalla cocaina e dal bisogno di rischiare. Adrenalina, adrenalina, adrenalina. Non chiede altro alla sua vita, adrenalina. Da qualche tempo scopa le prostitute di strada senza preservativo, per il semplice desiderio di mettere la propria vita in gioco. Per ora ha solo preso un paio di malattie veneree, ma prima o poi si ritroverà con qualcosa di peggio e sembra non vederne l’ora. Perché da un paio d’anni si crogiola in questo desiderio di autodistruzione? La risposta esiste ed è racchiusa in un nome. “Barbara”. Ora Silvano ricorda, ricorda che è più o meno da queste parti che ha “perso” Barbara, che è successa la “cosa” per cui lei l’ha lasciato. Tutta colpa di quel ciclista del cazzo, di quell’idiota con il suo abbigliamento tecnico, il caschetto e la bicicletta da gara. Lui può capire che un poveraccio vada in bici per spostarsi, se non può permettersi una macchina. Ma non riesce davvero a comprendere perché qualcuno dovrebbe fare tutta quella fatica solo per tenersi in forma. Ricorda bene quel pomeriggio di due anni prima, quando lui e la sua ex si sono imbattuti in quello stronzo d’architetto. Avevano mangiato in un agriturismo della zona, onorando generosamente la pregiata cantina. “Guarda Ba, adesso gli faccio il pelo, guarda...” Barbara aveva gridato allarmata, perché sapeva bene quanto il suo ragazzo fosse ubriaco. Del resto anche lei lo era e per quella ragione non aveva cercato di prendergli le chiavi per mettersi lei stessa alla guida. “Ma no Silva, che cazzo fai… Noooo….” Silvano aveva appena avvertito un colpo e subito si era preoccupato di aver rovinato la fiancata della macchina. Non gli era neppure venuto in mente di aver fatto male al ciclista, la cui unica colpa era stata quella di trovarsi sulla sua stessa strada. “Torna indietro idiota coglione, torna indietrooo. Ma non ti sei accorto che l’hai toccato? Testa di cazzo...” Perché Barbara si era scaldata tanto? Perché sembrava prossima a una crisi isterica? Alla fine Silvano era tornato sui suoi passi e si era accorto di come lei avesse ragione. Se non fosse stato per la sua donna, quel poveraccio sarebbe morto di sicuro, dato che su quella strada non passa mai nessuno. Ora ricorda di quando è andato a trovare lo stronzo in ospedale, due mesi dopo l’incidente. Barbara l’aveva già lasciato, per giunta trasferendosi all’estero e Silvano aveva goduto nel vedere quell’uomo nel letto, con la gamba in trazione. Si era presentato da lui su consiglio dell’avvocato, ma ci sarebbe voluto andare comunque, per vedere come era ridotto il bastardo che gli aveva portato via la sua donna. Gli aveva sorriso con il miglior sorriso, certo di poter ingannare un appassionato di bici, di certo mezzo ritardato. Dentro di se l’aveva odiato come non aveva mai odiato nessuno, nemmeno il padre, perché per “colpa sua” Barbara se ne era andata e mai sarebbe tornata indietro. Dopo che la sua ragazza lo ha lasciato, è ulteriormente peggiorato, avendo perso l’unico freno alla sua folle sregolatezza. Ancora più droga, ancora più alcol, solo più prostitute, per una vita fredda, senza amore, priva di ogni speranza. Ora Silvano inchioda, lasciando parecchi euro di gomma sull’asfalto. Si trova ad un bivio, ed è certo che una delle due strade conduca al luogo dove ha investito quel deficiente. Vorrebbe rivederlo, quel luogo, vorrebbe celebrare nuovamente una delle poche cose buone degli ultimi anni, ovvero aver messo sotto quello stronzo. La cocaina parla forte per lui e dentro di lui, rimbombando direttamente nel suo cervello, amplificata dall’influenza. La rabbia viene pompata da ogni punto del suo corpo, pronta ad esplodere con potenza inaudita, selvaggia. Chiede al suo istinto di indicargli la strada giusta e all’improvviso gli giunge la rivelazione: “Quella a destra, Silva”. La macchina parte come un bolide, andando su di giri come se fosse un aeroplano. Non è la stessa con la quale ha investito Carlo, ogni anno cambia, ma il rumore del motore è più o meno lo stesso. Ovviamente ha sbagliato. Il suo istinto fa schifo, la sua lucidità non esiste più, minata dall’alcol e dalle droghe. Se Silvano fosse stato in grado di riconoscere la strada giusta, si sarebbe imbattuto proprio in Carlo, durante la sua prima uscita in salita dai tempi dell’incidente. Per fortuna si è sbagliato, altrimenti avrebbe potuto “finire il lavoro”. La strada che ha scelto, sale in maniera più morbida rispetto all’altra, e poi rimane in alto, sul costone, praticamente parallela alla prima. Al ciclista non è mai piaciuta particolarmente, perché il pendio è poco impegnativo, anche se il paesaggio è più bello. Silvano accelera in maniera folle, incurante del fatto che lungo la strada vi siano diverse abitazioni e che potrebbero passare altre macchine. La sua Porsche è una macchia gialla lungo la collina, un pugno nell’occhio, perché fluo e quindi fasulla. Le curve sono strette e vengono affrontate tutte al limite. Da ragazzo ha pilotato i kart e pensa di essere un buon guidatore, ma ora i suoi sensi sono alterati e il suo corpo è sconquassato dal virus. All’uscita da una curva, la macchina sbanda violentemente a causa di un buco nell’asfalto. Il pilota cerca di tenere la vettura in assetto, ma quando le ruote si imbattono in un piccolo dosso, perdono aderenza. La Porsche vola letteralmente all’interno del cortile di una grande cascina, travolgendo una cancellata e tutto quello che si trova sulla sua strada. Gli airbag stranamente non si aprono, difettosi. Il parabrezza si crepa e quando il veicolo raggiunge un’altra recinzione, Silvano viene sbalzato fuori, poiché non si è rimesso la cintura dopo essersi fermato ad orinare. Incredibilmente la macchina lo evita mentre lui plana sopra un immenso covone di paglia. Non ha grandi conseguenze fisiche, soltanto qualche piccola ferita sulle braccia e un lieve trauma cranico. Nulla che non si possa risolvere con qualche punto e molto riposo. La debolezza data dall’influenza ha alla fine vinto sull’iperattività fittizia concessa dalla cocaina, impedendogli di trovare la forza per controllare la potente vettura. Quest’ultima prosegue la sua folle corsa, sempre più lentamente ma in maniera inesorabile. Per alcuni istanti danza sul bordo del dirupo che si apre dietro alla tenuta agricola. E’ una scarpata vera e propria, profonda e nel primo tratto quasi verticale. Silvano ha lo sguardo offuscato dalla botta, gli occhi pieni di lacrime. Ma si rende immediatamente conto del disastro quando la macchia gialla scompare oltre l’orlo. La gravità ha catturato l’auto, portandola nell’abisso. La macchina precipita per molti metri tra gli arbusti, andandosi a schiantare laddove pochi istanti prima due caprioli stavano brucando gli sparuti germogli di alcune piante autunnali. Sono animali dannosi per le colture, e si riproducono in maniera incessante. Durante i periodi di caccia selettiva vengono decimati, ma ogni anno ricompaiono, diventando nuovamente una grave minaccia per i contadini. I due caprioli sono terrorizzati, e schizzano tra gli alberi presenti sul fondo del dirupo senza controllo. Sono velocissimi e intenzionati a mettere quanta più distanza possibile tra loro e quella “cosa” che stava precipitando sulle loro teste. Giungono ad una strada, ma ovviamente non si fermano. A loro non interessa che lungo la carreggiata vi sia un ciclista, il cui nome è Carlo Giovine. Vogliono solo fuggire lontano, mettersi in salvo. Il loro pelo è marrone, come normale durante la muta autunnale. Silvano saprà solo in un secondo momento di avere nuovamente attentato alla vita dell’architetto, per quanto involontariamente. Tra se e se maledirà il fatto di aver perso un’altra buona occasione per porre fine alla vita di quel ciclista del cazzo. L’uomo che gli ha portato via Barbara. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Strade
M: “Lo sai? L'altro giorno mi son visto con Laura.” N: “E come è andata?” M: “Bè, all'inizio bene. Siamo andati da Bepi a prendere un gelato. A proposito, ha messo fuori un nuovo gusto, frutti di bosco e liquirizia, devo ripassare. Comunque poi abbiamo fatto una breve passeggiata e chiacchierato un po'” N: “E cos'è successo dopo?” M: “Dopo ha fatto un discorso strano.” N: “Del tipo?” M: “Mi ha invitato a casa sua questo weekend.” N: “E bravo! Dai che concludi!” M: “Ma no, mi stava solo prendendo in giro.” N: “Perchè?” M: “Ha detto che i suoi sono via, che avremmo potuto mangiare una pizza insieme e guardare un film.” N: “E cosa c'è di strano?” M: “Poi mi ha spiegato dove abita. Via Ambaradam 69.” N: “E quindi?” M: “Io le ho detto: <<eh sì, e cicì cocò, non prendermi per il culo.>>” N: “...” M: “Cioè, almeno inventarsi un nome decente se proprio non vuoi dirmelo. Poi il 69 finale è la ciliegina!” N: “Sicuro che non abbia detto via Amba Aradam?” M: “E io che ho detto?” N: “Sei un coglione.” M: “Ho fatto una cazzata?” N: “Sì. Amba Aradam è un altopiano africano dove noi italiani negli anni 30 abbiamo sterminato un po' di negri con il gas, perché eravamo così incapaci che non ci riuscivamo con i fucili. E da qualche anno hanno cominciato a dare quel nome alle nuove strade di alcune città per ricordare quanto siamo stati stronzi.” M: “Ho fatto la cazzata.” N: “Sì, e anche grossa. Ma non potevi pensarci un attimo prima di rispondere così?” M: “E' che poi lei ha aggiunto dell'altro.” N: “Cosa avrà mai detto di così grave?” M: “Si è giustificata spiegando che è una laterale della strada che porta ai colli e di dover girare a destra quando si vede il negozio per animali Mondo Cane. Ahah!” N: “...” M: “Adesso dimmi che esiste un negozio con un nome così ridicolo. Chi mai può essere così deficiente da chiamare così la sua attività?” N: “Mia sorella ci porta là il meticcio per fare la toelettatura.” M: “Eh?” N: “Quella troia di mia sorella porta lì il bastardo rognoso per fargli lavare il culo e togliere le pulci.” M: “Ah...” N: “Sì, hai sbagliato un goal a porta aperta.” M: “E ora che faccio?” N: “Fai come ogni uomo degno di tal nome. Ti prostri a terra e le chiedi scusa dandoti dell'immenso coglione.” M: “Credi che basterà?” N: “No, ma almeno è un inizio.” M: “E poi?” N: “I fiori funzionano sempre. Un bel mazzo, non fare lo spilorcio.” M: “Ma lei non è il tipo.” N: “Ascoltami. Anche la peggior darkettona farà gli occhi luccicosi alla vista di tre roselline offerte. Alla fine son sempre donne.” M: “Mmm... e dove trovo una fioreria che non mi spenni.” N: “Prova quella vicino agli impianti sportivi. Almeno risparmi sulla benzina.” M: “Dov'è?” N: “All'angolo tra la strada principale e via Macoppe.” M: “Mi prendi per il culo anche te?” N: “Se uno nasce scemo, rimarrà sempre scemo..” M: “Esiste davvero?” N: “Sì, Knips Macoppe, un medico importante di qualche secolo fa.” M: “Ma chi è quel coglione che decide di mettere questi nomi alle strade?” N: “Qua concordo. E' uno stronzo che gode nel pensare ai cittadini costretti ogni volta a fare lo spelling quando devono comunicare la propria residenza. O forse è talmente pieno di sé da voler ostentare la propria cultura invece di badare alla logicità delle cose.” M: “Quando parli così mi ricordi Maciste, il prof di filosofia.” N: “Lascia perdere. Hai capito dov'è allora?” M: Ma sì, vicino al campetto di via Vlaovic.” N: “Vlacovich.” M: “Ma il giocatore del Padova si chiamava Vlaovic, non Vlacovich!” N: “Sei proprio un coglione. Vlacovich era un altro medico. Qualcuno ha coperto la C con il simbolo del Padova. E poi Vlaovic non è mica morto!” M: “Perchè? Danno il nome delle strade solo ai morti?” N: “Abbiamo capito che sei ignorante come una capra. Ora torniamo all'argomento, hai capito dov'è, vero?” M: “Sì sì, certo che con questi nomi!” N: “Quindi suppongo tu non abbia mai badato al nome delle vie di quel quartiere. Harvey, Mantua Benavides, Sulpicia, Steiner, Azzo d'Este...” M: “Cazzo d'Este! Ah ah ah!” N: “Azzo, non cazzo!” M: “Siamo lì. Comunque, come si chiama questa fioreria?” N: “Il glicine petaloso.” M: “...” N: “Sì, lo so.” M: “Oookkk! Va bene. Il programma prevede fiori e una pessima figura chiedendo scusa come uno zerbino. Altro?” N: “Non ti basta questo per cominciare? La strada è erta e impervia.” M: “La strada del bosco, l'è lunga l'è larga l'è stretta, l'è fatta a barchetta, l'è fatta per fare l'amor!” N: “Speranze pari a zero...” |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
L'Argomento è stato bloccato.
|
Lezioni di strada
Ore 06:47 Sento le rane ma non sono a bordo lago. Realizzo che si tratta della sveglia Ore 06:56 Un abbraccio giallo s'impasta tra le mie fauci. Il croissant precotto surgelato del giorno prima, nonostante tutto, si rivela più gradevole del previsto Ore 07:19 Mi hanno chiuso. Ma non li biasimo. Anche a me è sempre piaciuto giocare a tetris. Hanno almeno avuto la decenza di lasciare un biglietto con il numero da contattare Ore 07:31 Finalmente la faccia assonnata fa capolino e mi libera la via Ore 07:33 Prima rotonda, destra, semaforo e striscia pedonale. Le stesse dove ho rischiato d'uccidere qualcuno in altre mattine. Oggi, per fortuna, me ne ricordo Ore 07:38 Il mercato abusivo delle cose rubate è al solito posto. Così come lo sono i vigili in divisa che non perdono occasione di controllare se c'è qualcosa anche per loro Ore 07:40 Un circense al semaforo. Questa è una novità ma il suo numero con le clavette non m'entusiasma. Peccato Ore 07:46 Stacco da Radio 105 a Radio Sportiva. Ore 07:47 Parlano di cazzate, meglio mettere la musica. Parte "Principessa" di Marco Masini. Ci sta e decido di cantarla a squarciagola per le vie che costeggiano il centro e fanno il solletico alle nuvole mentre si lasciano massaggiare dalle onde. Ore 07:52 È il turno de "L'odore" dei Subsonica. Altra canzone lodevole da cantare come un pazzo mentre attraverso l'abusivo quartiere a luci rosse di questa città che sta pian piano ritornando ad una velleitaria ed artefatta normalità. Ore 08:09 Skippo Annalisa, Caparezza ed Einaudi. Inizia "Bohemian Rhapsody" dei Queen. M'accompagna per tutto il lungo e noiosissimo tratto di tangenziale a due corsie dove non c'è niente e nessuno da osservare se non le banali insegne delle più note catene tipiche dei centri commerciali che costellano questa zona. Ore 08:19 Passato l'ultimo supermercato si ritorna in un piccolo centro ormai annesso al comune. Il solito Mastro Lindo aspetta l'autobus. I soliti cani nero e bianco si rincorrono sul prato che costeggia la ferrovia. La solita zingara scende la scaletta per timbrare il cartellino fuori dal negozietto come ho avuto modo di scoprire. Manca il ragazzo con le cuffie. Forse è in ferie. Forse sta male. Mi viene spontaneo fare una preghiera anche per lui. Ore 08:28 Abbasso il volume dell'ultima canzone partita random, "Nun te reggae più" di Rino Gaetano. Vorrei cantarla, ma non posso. Non so chi possa esserci ad aspettarmi dietro la seconda rampa di questo parcheggio che è anche l'ingresso degli uffici che mi ospitano. Metti che ci sono gli irlandesi... Me ne sbatto le palle, rialzo a ventitré e canto. Meglio un sorriso sfogato che un malinconico perbenismo. Me l'hanno insegnato i cantanti durante la strada. Ed è stato un piacere riuscire ad apprendere almeno qualcosa. |
|
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
L'Argomento è stato bloccato.
|
|