Kafka: guida alla lettura
Ci sono molte cose da dire su questo scrittore dilettante (Franz lavorava nelle assicurazioni, dopo essersi laureato in giurisprudenza tra l’altro).
La prima, e penultima, è che uno scrittore dilettante spesso e volentieri è migliore di uno scrittore che si crede tale (vedasi anche il caso di Primo Levi, scrittore dilettante dal talento eccezionale).
La seconda, e ultima, è che questo scrittore dilettante è stato il migliore scrittore del secolo.
Ma queste sono cose che evidentemente sappiamo già.
La produzione letteraria del buon Franz è piuttosto scarna e perlopiù abbozzata. I lavori si possono suddividere in tre categorie: romanzi, racconti, lettere. (Originale, nevvero?).
Detto in tutta franchezza di lettere non ne ho letta manco una. Non mi piace farmi i fatti degli altri di solito.
I racconti sono per certi versi i capolavori di Kafka. Ma ce ne sono troppi e non mi va di sceglierne appositamente da commentare. Per chi fosse curioso, buttatevi su qualsiasi racconto vi capiti a tiro (a parte qualche eccezione sono davvero brevi e scorrono via che è un piacere).
Parliamo di romanzi allora.
I romanzi scritti da Kafka sono solo tre. Non pago di ciò, sono pure tutti e tre incompiuti. Non solo. Sono stati pubblicati postumi, contro – tra l’altro – la volontà stessa dell’autore, che desiderava bruciarne i manoscritti. (Un grazie a Max Brod dunque, curatore testamentario del buon Franz e – immagino – unico amico del sopracitato).
Per fortuna si tratta di tre romanzi molto diversi fra loro, che trattano tre tematiche diverse e hanno allo stesso tempo in comune alcune caratteristiche che hanno posto Kafka sul gradino più alto del podio dell’universo.
Andiamo in ordine di pubblicazione:
Il processo (1925)
Il castello (1926)
Il disperso (Amerika) (1927)
No, scherzavo. Parlerò dei romanzi tutti e tre insieme.
La prima caratteristica che accomuna tutti e tre i romanzi è il protagonista maschile. Egli deve affrontare un mondo avverso e ostile in tutti e tre i casi, è uno straniero in tutti e tre i casi e non si arrende mai in tutti e tre i casi. Ne il processo è un uomo di 30 anni (Josef K.), che deve lottare per capire che crimine ha commesso. Ne il castello è un uomo credo più maturo (K.), che deve lottare contro la burocrazia e la diffidenza degli abitanti di un villaggio che circonda un castello. Ne il disperso (o Amerika) è un ragazzo di 16 anni (Karl) che deve lottare per sopravvivere, nel più classico e bel romanzo di formazione di tutti i tempi. Alcuni credono che Amerika sia il romanzo meno Kafkiano. Balle. Per certi versi è il capolavoro di Franz e il suo lavoro più intimo. A differenza dei personaggi più grandi il giovane Karl rappresenta l’innocenza. E’ un personaggio positivo a tutto tondo, giovane e ingenuo, buono e coraggioso al punto da commuovere (quasi). Deve sopravvivere in una terra straniera (l’America appunto) dove praticamente tutti approfittano di lui. La maestria con cui Kafka delinea la leggerezza del fanciullo e la sua fragilità sono il più alto punto della letteratura mondiale di tutti i tempi. Chiunque farebbe il tifo per Karl, persino Silla e Himmler.
Non che Josef K. E K. Siano personaggi negativi. No, di certo. Essi sono però costretti a tirar fuori gli artigli dalle circostanze assurde in cui, loro malgrado, si cacciano all’inizio della vicenda. Perché in effetti tutte le tre storie parlano di come riuscire a risolvere un problema. E le difficoltà che i protagonisti incontrano e le loro idee e le loro argomentazioni sono uniche nel loro genere. Mai ho letto nulla di vagamente simile. I personaggi sono davvero “soli”, anche quando circondati da altre persone. Devono contare solo su se stessi, perché capiscono, con grande sgomento e un po’ di delusione, che non possono fidarsi di nessuno (e quelle persone di cui potrebbero fidarsi e si fidano sono persone perlopiù di poco conto e di alcun aiuto). Non solo. Kafka riesce a far portare la verità di un’argomentazione da una parte all’altra con dei dialoghi che sono – a mio modesto parere – il trionfo della retorica (nell’accezione positiva del termine) (vedasi a questo riguardo il dialogo tra il vescovo e Josef K. nella cattedrale vuota quando il vescovo espone al protagonista una parabola sulla giustizia e l’interpretano tutti e due, cercando soluzioni molteplici. Bene, lì il lettore è portato a credere a ogni singola parola di uno per poi ricredersi e cadere assuefatto e persuaso nelle braccia dell’altro). In queste cose, e mi dispiace per gli altri, Kafka non ha proprio eguali.
Ma la caratteristica più originale (e che ha reso celebre l’assicuratore boemo che scriveva in tedesco) è la condizione onirica che riesce a creare come sfondo della storia. Le vicende dei protagonisti non sono ambientate in dei posti reali. Sono a tutti gli effetti dei sogni. Degli incubi, perlopiù. Tutto è surreale, le cose che accadono, i fraintendimenti, le ingiustizie, le situazioni e le coincidenze. Gli stessi personaggi sono solamente abbozzati e presentati parzialmente per condurre il lettore per mano in uno stato quasi onirico (soprattutto ne il processo). Gli stessi protagonisti dei tre romanzi si chiamano Josef K. ne il processo (non si sa il cognome), Karl in America (non si sa il cognome) e addirittura K. ne il castello (non si sa uno stracazzo su come si chiami). Questo sfondo così assurdo e affascinante permette al lettore di essere catapultato nel libro e immedesimarsi nel protagonista molto più che in altri libri. Qui non è possibile immedesimarsi in altri se non nel protagonista, anche perché i tre protagonisti di Franz sono a tutti gli effetti tre uomini comuni: intelligenti e coraggiosi, ma comuni. Non hanno superpoteri, non sono più forti di altri, ma non si arrendono mai. Credo che questo messaggio sia il più importante: non arrendersi. Nonostante tutto quello che stava accadendo loro, questi tre eroi ignoti hanno sempre trovato la forza di rialzare il capo, di credere in una giustizia che non arriva mai, in un epilogo sereno, credere alla soluzione dell’indovinello. Sono alla costante ricerca della felicità, che per loro è rappresentata molto umilmente dal riuscire a risolvere i loro piccoli, minuscoli problemi.
Solo ne il processo sappiamo come finisce la storia, perché il romanzo, incompiuto, ha comunque il capitolo finale.
In amerika e ne il castello le storie finiscono in modo diverso. In amerika il finale, seppur incompiuto, è uno dei finali più belli di sempre (invece che “il finale” bisognerebbe scrivere “il momento in cui la storia si interrompe”). Sicuramente è il finale più delicato dei tre.
Ne il castello invece la storia si interrompe in modo brusco e inatteso. E credo che non potesse finire in modo migliore.
In conclusione i tre romanzi possono essere catalogati un po’ con queste parole:
Amerika è il romanzo dell’innocenza
Il processo è il romanzo dell’ignoranza
Il castello è il romanzo dell’alienità
Chiunque volesse provare a leggerli, consiglio l’ordine in cui lì ho messi qui alla fine.