Tutte le cene del mondo di White Lord
Akmad si lascia accarezzare fugacemente dagli ultimi tepori del giorno, mentre inforca la bici e un raggio del sole crepuscolare balugina sui suoi polpacci scoperti. Pronti, via. Un enorme zaino cubico in spalla e giù a rotta di collo a pedalare. In un attimo forme e colori si mescolano in un insieme dai contorni sfumati e indistinti, come quella sfilacciata distesa temporale che i più definiscono con una certa eufemistica approssimazione ora di cena.
Akmad non ha bisogno di concentrarsi fra quelle strade familiari. Lo guidano i sensi: il rumore del vento fra gli aceri di Viale della Repubblica, i profumi dei ristoranti etnici nelle stradine intorno a Piazza dell’Unità, i colori dei cipressi in fiore di Via dei Bersaglieri. Riconosce le strade dagli infissi delle finestre, dai vasi in mostra sui balconi, dai sorrisi dei passanti che le animano fino a tarda notte, e in un attimo raggiunge ogni destinazione. La porta si spalanca e lo accolgono urla chiassose dal fondo di un corridoio illuminato, che per qualche istante si fa finestra su altre vite e su altri mondi. Ne erutta un viso familiare e un attimo di confusione smorza il sempiterno sorriso di Akmad: ha mica sbagliato indirizzo? «Ma che ci fai qui?». Risate. «Eh, sono a casa di amici! Come stai Akmad? Grazie della pizza!».
Gli sembra quasi di salutare un amico di vecchia data, anche se è solo da pochi mesi che Enrico è in quella città – studente fuorisede – e i loro volti hanno acquisito reciproca familiarità in quei fugaci attimi vespertini. Quando ordina a casa sua prende sempre una pizza cipolla e acciughe, la sua preferita, ma questa volta non ve n’è traccia nel numeroso ordine. Questa volta Enrico si è accontentato di una margherita: spera di accompagnare a casa Fabiana, al ritorno e, chissà, magari ci scappa un bacio. Mentre Enrico insegue il vociare proveniente dal salone e vi entra con le pizze, questo pensiero sembra essere rimasto fuori con Akmad, in fuga con la sua bicicletta: Fabiana, sul divano, non ha occhi che per Giovanni ed Enrico avrebbe una gran voglia di una pizza cipolle e acciughe.
Una consegna grossa ora. Ordine abbondante da uno dei sushi più esclusivi della città. Akmad non è avvezzo né al ristorante né al destinatario. Una zona residenziale leggermente al limite del suo solito giro. Akmad si lascia eccitare dalla novità – e dalla cifra sulla ricevuta che gli fa sperare in una lauta mancia – mentre si fa strada fra villette a schiera e condomini eleganti, separati da strade poco trafficate e tranquille, capaci di infondere alternativamente una placida serenità o una velata malinconia, a seconda di come la luce del sole decida di farsi strada fra le fronde dei tigli che ne puntellano i marciapiedi, o a seconda di come le quotidiane noie piccolo borghesi affliggano l’animo dell’occasionale passante. Sulla porta si affaccia una donna vestita e truccata di tutto punto; un’eleganza quasi ridondante, a stento trattenuta dallo sfociare in una fastidiosa cacofonia; ma magari è solo il contrasto con lo sguardo austero, le labbra vermiglie contratte sotto il peso di un umore che potrebbe soffocare qualsiasi sorriso, ma non quello di Akmad mentre le porge due grosse buste: «Ecco a lei signora! Buon appetito!». Lo sguardo basso della donna si guarda bene dall’incrociare il suo. Un mugugno indistinto è tutto quello che gli lascia mentre il lussuoso portone finemente decorato si chiude dietro di lei. È andata male, niente mancia. Ma il sorriso di Akmad non si spegne, mentre risale sulla bicicletta: andrà meglio la prossima volta.
Lucrezia lascia cadere le buste sul pavimento e poi il suo corpo alla parete della sala da pranzo, a cui affida il peso di tutti i suoi malumori. Nicola, suo marito, le ha telefonato solo cinque minuti prima per farle sapere che no, non manterrà la sua promessa di cenare assieme stasera, scusa amore, il lavoro, magari domani eh? Questa volta Lucrezia non ha fatto tragedie, non ha urlato, non ha pianto. Sa che non serve che a peggiorare le cose. Solo ora concede a qualche lacrima di rigarle il volto, in silenzio; e nel suo pianto clandestino questa volta riesce a sentirsi un pochino meglio e forse avrà la forza di raggiungere il letto e trovare consolazione nei sogni. Il cibo abbondante è rimasto abbandonato in un angolo, dimenticato e ormai freddo. La fame è passata da un pezzo e Lucrezia vorrebbe nutrirsi di cose che il denaro non può comprare.
Akmad intanto è già dall’altra parte del quartiere. La sua zona preferita: case di studenti, strade vive e chiassose, l’odore occasionale di fritto che si libera da una finestra spalancata al primo piano, qualche urlo sguaiato che lo insegue nelle sue corse e si infila fra i pedali. Akmad conosce la casa: vi abita un’avvenente ragazza sui vent’anni, che indossa la sua bellezza giovanile con la grazia sacrale con cui si indossa un abito nuziale. Ordina spesso e Akmad è sorpreso di vedersi aprire la porta da un uomo a torso nudo, decisamente più maturo di lei. Mentre consegna le due pizze lui gli sorride sornione e gli allunga una banconota da 10 euro. Grazie. Buon appetito. La ruota gira ed ecco la sua generosa mancia.
Nicola chiude la porta dietro di sé. Si sente tornato indietro all'adolescenza con lei, a passare la notte sveglio, fra umori e sudore, trangugiando fette di pizza sul letto sfatto, intervallando così baci sconci e carezze proibite. Il sorriso sornione non abbandona il suo volto: il sole è ormai tramontato sui sensi di colpa.
Ancora viuzze, passaggi nascosti, scorciatoie. Akmad le conosce come le sue tasche, come conosce clienti e ordini abituali. Ed ecco ora gira a destra, una stradina quasi completamente nascosta dall’enorme campana verde per il vetro. Taglia a sinistra e attraversa un piccolo cortile interno e via, di nuovo sulla strada, ma parecchi metri più in là, parecchi minuti prima. Le luci elettriche, che timidamente si riscaldano, tingono di bianco i grandi appartamenti residenziali, così rassicuranti nella loro disciplinata uniformità.
Rossella è una garanzia: ristorante cinese, tutti i venerdì sera. Pollo con mandorle, riso alla cantonese e tre involtini primavera. Pochi minuti dopo è sul divano, abbracciata alla coperta, davanti alla sua serie tv preferita, portando alle labbra il secondo involtino; e per i pochi istanti di una cena consumata in solitudine, la sua mente conosce tregua e non pensa al lavoro, a quel progetto da definire, a quella promozione da conquistare, alla sua agenda piena e a quel qualcosa dentro di sé che invece proprio non riesce a riempire. Sul tappeto, ai suoi piedi, giacciono teglie di alluminio ancora tiepide, svuotate con la stessa famelica voracità di chi è abituato a mordere la vita senza assaporarla. Solo il terzo involtino è ancora lì, e lì resterà abbandonato come tutti i venerdì sera. Chissà se l’artista, dipingendo il quadro con metodica cura, ha consapevolmente scordato quella piccola imperfezione sulla tela, in un catartico memento.
Le ore passano, ma è sempre ora di cena e Akmad non smette di pedalare. Domicilio noto, ristorante nuovo. Il cameriere lo scruta torvo mentre gli consegna il pacco da cui emanano vapori e fragranze esotiche. Veronica lo accoglie con un sorriso; gli occhi azzurri venati da un tremolio di curiosità.
Veronica non sa ancora cosa mangerà stasera, ma già quei profumi la stanno trasportando lontano, tanto che i piedi nudi a malapena sembrano sfiorare il delicato parquet di mogano, mentre Veronica si avvia volteggiando in camera. Lì, fra l’eccitazione che si prova davanti ai regali di Natale e con la delicatezza con cui si accarezzerebbe un bambino, Veronica apre i piccoli contenitori di cartone, annaspando dietro quei profumi, e nell’attimo di un boccone si ritrova in Libano, insieme al suo ragazzo. Sta viaggiando per lavoro e ad ogni nuovo Paese che tocca, lui le ordina qualcosa e così le fa sapere dove si trova. Veronica socchiude gli occhi e veleggia lontano, per cenare con lui all’ombra dei cedri.
Akmad accetta l’ultima consegna e mentre la ripone nello zaino il pizzaiolo gli urla qualcosa in arabo: «Akmad! Ti va qualche trancio avanzato?».
La bicicletta giace stanca, abbandonata al muro marcescente. Graffiti neri si confondono al buio, dipanandosi dal sellino, tatuaggi sul cemento. Akmad allunga un trancio a Zante, seduto in terra di fronte a lui, fra due cartoni e una coperta, e in un attimo la barba incolta si riempie di briciole. Lungi dal farsi più sciatto, il volto di Zante prende invece colore e gli occhi opachi acquistano nuova vivacità; sotto la luce tremolante di un lampione incerto, Zante appare ora molto più rassicurante di quanto appaia di giorno allo sguardo sdegnato degli impiegati affrettati in giacca e cravatta. «Oggi Marco ha ordinato pollo al curry sai? Strano, non lo prende mai!», mormora Akmad con una solennità che Zante deve giudicare insufficiente, dal modo in cui strabuzza gli occhi: «Deve essersi innamorato! Gli uomini iniziano a fare cose inconsuete, quando si innamorano... Ah!» e scoppia in una risata sguaiata. «Ma che ne sai tu dell’amore?» lo sfotte Akmad, ma in fondo invidia il vecchio barbone e quanto lui sappia del mondo. Akmad conosce tutte le porte del quartiere, ma Zante possiede tutte le chiavi.
La catena della bici cigola nel silenzio della notte, quasi a lamentarsi e a reclamare, anch’essa, un po’ di meritato riposo. Le strade, sempre vive e trafficate, languono ora deserte, mentre i profumi delle cene serali hanno ormai lasciato spazio ai freschi effluvi della brezza notturna. Akmad si avvia lentamente verso casa, camminando, la bici accompagnata a forza di braccia – ha pedalato abbastanza per stasera. Mentre lega la bicicletta Akmad alza per un attimo lo sguardo al palazzo di fronte. La finestra al quinto piano è ancora illuminata. Marco giace ancora vestito sul letto, perso in fantasticherie e nel pensiero di lei; lo schermo del telefono, adagiato vicino al cuscino, conserva nel suo tepore il calore dei loro scambi amorosi. Il sonno ha timore degli innamorati e questa notte volerà altrove a regalare i suoi doni.
Akmad si sforza di far piano mentre entra in casa e a stento trattiene quel sospiro liberatorio che accompagna il desiderio di soffiare via la stanchezza. Corrono ad abbracciarlo i profumi assopiti di una cena lontana: sommacco, cumino e coriandolo lo prendono per mano e delicatamente lo guidano verso il divano, dove sua moglie e sua figlia sono cadute assieme fra le braccia di Morfeo. Akmad si muove leggero nel rinvigorire il morbido abbraccio delle coperte e con la stessa leggerezza si siede vicino ai suoi tesori. Il profumo dei capelli di sua moglie sembra irradiarsi lungo la stoffa del divano e annodarsi in morbide trecce con le spezie orientali che pervadono l’aria. Akmad chiude gli occhi e lascia che quei profumi lo coccolino. In un attimo è al di là del mare, a cenare con la sua famiglia fra case bianche, basse: un foglio di pietra evanescente su cui si mescolano le sabbie del deserto e quelle delle spiagge. A casa.