Il distacco del piccione
“domani, alle 9, qualcuno ti vuole parlare. Non mancare. SD”
Imboccato lo stretto vicolo scorgo l’insegna arrugginita dell’Osteria della Luna. L’appuntamento è qui, una vecchia topaia polverosa miracolosamente scampata ai bombardamenti della modernità. Non è mica un concetto così evidente, la modernità. Qui palazzi e portoni sono sempre gli stessi, che uno si illude che tutto sia uguale a quarant’anni fa. Poi basta entrarci dentro agli edifici, o specchiarsi nelle carrozzerie lucide delle macchine parcheggiate per strada, per capire che un’ondata di soldi ha lavato via il passato di questo gran villaggio, mentre io ne trascino ancora le scorie. Non mi spiego come l’Osteria abbia resistito alla piena.
Apro la vetusta porta in legno e il puzzo del sigaro di Sante Delacroix mi invita ad entrare. Il mio culo ancora freddo riceve il benvenuto: – Monin, diocane, quante volte ti ho detto che qui non serviamo Brunello. La stessa frase da quindici anni a questa parte, da quando seppe che facevo il giornalista. A Sante i giornalisti stavano parecchio sul cazzo, li considerava, e non credo che ad oggi abbia cambiato opinione, dei fighetti cacasotto, pennivendoli al soldo del miglior offerente. “Giornalisti, Brunello e aperitivi” mi diceva. Solo col tempo aveva cambiato parere su di me. Ero sempre un pezzo di merda, ma un po´ meno degli altri.
– Buongiorno Eugenio, oggi è nuvolo ma per fortuna ci sei tu a risplendere .
– In culo te e il meteo – mi risponde imbruttito.
L’Osteria è il solito ricettacolo di polvere e ragnatele, è così da quasi mezzo secolo. I tavolini in massello stanno in piedi come vecchi con stampelle e braccia deboli, traballanti ad ogni minima sollecitazione. Tutto, nella sala vuota, oscurata da vetri opachi e fumosi e lampade stanche di vivere, porta con se il gene della precarietà. Eugenio , al contrario, è ancora piuttosto in forma, quasi che da novello Dorian Gray abbia ceduto l’onere della vecchiaia al suo vecchio rifugio. Con la solita noncuranza, mi indica con un cenno del capo la porta in fondo alla sala: –Ti aspetta nel retro.
Oltrepassata la soglia vengo investito da un tanfo irrespirabile, mi blocco.
– Coraggio amico, – mi accoglie una voce, mentre porto il braccio fra bocca e naso per filtrare i miasmi – Sopporta per qualche minuto il mio odore , in fin dei conti sono anni che subisci ben di peggio.
Cosa vuole questo, Monin?
Avanzo nel tugurio semi buio, verso quella che sembra essere l’origine della voce che mi ha ricevuto. Lo vedo e caccio un urlo: – E tu che cazzo sei?
– Secondo i manuali di ornitologia sono un colombo triganino modenese, – risponde per niente sorpreso dalla domanda – Noto agli esseri umani con il nome di piccione. Ma puoi chiamarmi Ludovic Johnson.
Ok, calma Monin, non impazzire proprio ora. Stai parlando con un piccione e sei un giornalista. Ricorda le basi, mai farsi travolgere dall’evento.
- Calma Monin, – me lo ripete pure lui, di star calmo – capisco che la faccenda non sia proprio come te l’aspettavi, ma suvvia, dammi qualche minuto del tuo prezioso tempo.
Ruota lentamente il collo nero corvino verso me, che nel mentre raccatto uno sgabello e mi ci siedo. Respiro a fatica e la poca aria che mi va nei polmoni sa di muffa e sterco. Gratto nervoso la barba sotto il mento e sento la tecno pulsare sul collo. Starebbe per riprendere a parlare ma lo anticipo.
– Calmarmi? Dovrei calmarmi? – beh effettivamente dovrei, o mi verrà un infarto – Sto parlando con un piccione…
- Un triganino modenese, per la precisione – mi corregge flemmatico.
– Triganino, piccione, come cazzo ti pare! Chi sei? Come fai a parlare? Cosa vuoi da me? -Sul perché noi triganini parliamo, ti risparmio la spiegazione – risponde, cogliendo col becco alcuni semi di zucca da un sacchetto poggiato su una vecchia panca.
E aggiunge :– Voglio solo raccontarti una storia. Così quando ti chiederanno la fonte potrai rispondere “me l’ha detto un uccellino", come nei film. Ora apri le orecchie.
Si bravo Monini, ogni tanto è meglio sedersi e stare a sentire. L’avresti dovuto fare anche dieci anni fa, l’11 gennaio 2002. Invece hai perso la pazienza, non le hai dato retta e sei uscito di casa. Poi ti hanno chiamato.
Sante mi riporta alla realtà. È entrato senza che me ne accorgessi, poggia sul tavolo una ciotola colma d’acqua per Ludovic Johnson e un bicchiere di lambrusco per me. Non ha l’aria sorpresa e probabilmente conosceva la verità sui piccioni già da tempo. Con la stesso garbo con cui è entrato, il vecchio torna alle sue faccende. Ludovic Johnson ingoia un altro seme di zucca e mi guarda: – La storia che devo raccontarti inizia più di sessant’anni fa. Allora qui vivevano i nostri avi. Arrivarono in città, dalle campagne, sollecitati dai governanti di allora.
– Dunque sapevano di poter comunicare con voi?
– Ovviamente. Col tempo poi, i bastardi, hanno cercato di convincerci e convincersi che non fosse vero, così sono iniziati i problemi.
– Perché vi hanno voluto in città?, – gli chiedo – Cosa guadagnavano loro, e cosa voi?
Bravo Monin, fai il giornalista, subito al sodo.
– A noi garantirono cibo e sicurezza. Dopo tutto la vita in campagna non era tutta rose e fiori. Cibo da spartire con tanti altri uccelli, e poi i predatori. Gli uomini ci guadagnavano in belle figure. Un tempo ci consideravano graziosi animali ed erano disposti ad offrirci cibo per riempire e ripulire le piazze, divertire i bambini, volare in stormo e dare spettacolo. Loro vendevano becchime in quantità industriali e si arricchivano, nel frattempo noi ingrassavamo.
Mando giù il lambrusco in due sorsi. Ludovic Johnson beve dalla piccola ciotola, afferra col becco un altro seme, ne deve andar matto, il pennuto, e prosegue: – A un certo punto è tutto cambiato. Hanno preso a chiamarci topi con le ali, ci hanno accusato di diffondere malattie, di imbrattare la città...
Gli si rizzano le piume sul collo e il suo occhio sbarrato mi fissa gelido, perdendo la calma serafica con cui si era presentato: – Hanno iniziato a non tollerare la nostra presenza. Hai mai contato tutti gli spilli acuminati sui davanzali, sui tetti e le grondaie, messi per evitare che noi ci poggiamo? Ce lo stanno spiegando chiaro e tondo, voi qui non siete più graditi. Da anni distribuiscono becchime avvelenato, tanti compagni sono finiti all’altro mondo.
– Ludovic, – chiedo confuso – Dove mi vuoi portare?
– Da nessuna parte, – ribatte lui – Voglio solo che tu capisca cosa ci state facendo. Noi siamo il lercio di questa città mentre voi la asfissiate senza pietà. Noi non meritiamo più di vivere fra i tetti dei vecchi quartieri, mentre voi li sventrate e ci costruite gabbie per umani da vendere a caro prezzo. Voi avete il diritto di cacciarci, noi solo il dovere di esservi utili.
Ludovic Johnson spiega le ali da triganino modenese con la fierezza e l’orgoglio dell’aquila reale.
– Non ci faremo ammazzare, Monin, – sentenzia ergendosi maestoso – Stavolta non resteremo indifferenti. Nella storia non è esistita specie vivente capace di sterminare la nostra stirpe. Mai nessun uomo è arrivato a dare un calcio in culo a un piccione. Ci avvicinano alle spalle, caricano il tiro certi di colpirci, ingannati dal nostro vigile distacco. Ma quando il colpo sta per arrivare muoviamo un passo in avanti, sempre.
Ha ragione il piccione, a volte anch’io sono stato tentato. Va bene Monin, ragiona. Cosa può volere da te, ucciderti? Magari spera che tu scriva un articolo. Si certo, ti rinchiuderebbero in un manicomio. Basta, vattene, mandalo a fanculo.
Non faccio in tempo ad aprire bocca o a levare le tende, Ludovic insiste: – Siamo milioni e abbiamo colonie in tante città. Ormai manca poco alla nostra riunione nel Grande Stormo. Ci nutriremo nelle campagne e scaricheremo tutta la portata dei nostri intestini sui vostri tetti e sulle vostre teste. Vi riempiremo di merda, Monin, cacheremo sulle vostre calunnie quotidiane, sulla vostra insolenza, sulla vostra violenza.
Colgo l’ira nel suo sguardo ma in un attimo le sue piume tornano docili: – Il motivo per cui ho voluto incontrarti è che ho un debito con te, o meglio, con una persona a te molto cara.
Cosa dice, Monin?! Lei se è morta 10 anni fa, uccisa da uno psicopatico. Uccisa perché sei stato così stronzo da lasciarla sola quel pomeriggio. Uccisa perché mentre giravi in macchina come un coglione, al lavoro ci è andata a piedi. E mentre bevevi una sambuca dietro l’altra in quel bar di periferia, il Jolly ricordi?, la telefonata.
Mentre penso a Sara, a quel giorno di gennaio, a lei riversa per terra e circondata di piume come un angelo abbattuto, Ludovic mi guarda, ora con pietà. Di me e di se. Ha perso il furore, la rabbia, il desiderio di vendetta. Di merda e sangue. Conosce la mia storia, la mia vita e il momento preciso in cui si è conclusa.
– Quel giorno c’ero anche io. Erano i tempi dei primi fermenti in città contro i piccioni. Non era raro trovare cibo avvelenato ma nessuno si aspettava ciò che poi accadde. Ero con la mia compagna, in cerca di riparo sotto un tetto, quando all’improvviso ci spararono addosso. Vidi il suo corpo esplodermi di fronte e cadere sulla via. Feci appena in tempo a raggiungerla...
…E poi il ricordo si fa confuso. La donna che sopraggiunge, le urla dello psicopatico, lei che implora “metta giù il fucile, è solo un piccione!” e infine l’ultimo colpo sordo, prima del silenzio definitivo. Quella seconda fucilata, destinata a Ludovic Johnson, triganino modenese comandante del futuro Grande Stormo e vendicatore di milioni di piccioni e di un uomo solo, colpì la donna. Sara, la mia Sara.
Arriverà la vendetta dei piccioni, arriverà dal cielo. Mai come oggi vorrei avere ali anch’io. Come Ludovic planare sulla città, la città di 10 anni fa, e ritrovare la mia ombra.