Inshallah di arturobandini
Talal non aveva mai visto uno spettacolo simile in tutta la sua vita. Pensò al suo villaggio in Cisgiordania, a come non gli fosse mai stato possibile allontanarsi legalmente per più di pochi chilometri dall'abitato. Questo perché suo padre era stato un agitatore politico ed era in carcere da più di quindici anni. Non l'aveva quasi conosciuto e di lui non aveva altro che i ricordi di bambino. Non avrebbe mai ottenuto i documenti per potersi trasferire, per poter viaggiare o studiare all'estero. Non poteva richiedere nemmeno quelli per lavorare in Israele, come persona di servizio o bracciante, tanto meno quelli per poter svolgere i lavori stagionali negli insediamenti. Non contava nulla il fatto che suo padre fosse stato iscritto a un partito o che avesse compiuto la sua attività sindacale alla luce del sole. Per il nemico era solo un terrorista.
Guardò ancora verso il basso e gli occhi vennero folgorati dai mille riflessi del sole sull'acqua nell'immenso bacino. Strinse le palpebre per il fastidio ma continuò a guardare oltre il parapetto di cemento, ammirato dalla quantità e dalla forza di quel liquido così raro nella sua arida terra. Inevitabilmente la sua mente andò a ricordare un episodio della sua infanzia, accaduto poco dopo l'arresto del padre.
Era a casa dei nonni e nell'aria vi era l'aroma della sua torta preferita, la kunafa, il tipico dolce egiziano a base di pistacchi, mandorle e uvetta. Sua nonna, seppure palestinese, era originaria de Il Cairo e sapeva come il nipote avesse una particolare predilezione per quella torta, semplice eppure ricca. Il nonno gli aveva chiesto di andare a sedersi vicino a lui, nella magra striscia di terra che contornava il retro della casa, poco più di una baracca.
“Talal, non devi essere triste per tuo padre, mio figlio. E' in carcere per una giusta causa e presto ne uscirà, vedrai: l'Onu non potrà accettare che continuino ad esistere ingiustizie simili”.
Anche il nonno era un idealista e un ingenuo, trascorsi diversi anni ormai il ragazzo ne aveva la drammatica consapevolezza. Nella mente di Talal erano però rimaste impresse le successive parole dell'anziano, morto pochi anni dopo quella conversazione.
“Quando avevo la tua età, i sionisti non erano ancora arrivati e con i miei genitori vivevamo nel deserto, nomadi da un'oasi all'altra. Ricordati sempre di quanto sia importante l'acqua, Talal, perché è fondamentale per l'esistenza di tutte le creature. Gli ebrei ce l'hanno tolta, obbligandoci a vivere in queste terre aride e ce ne lasciano solo un filo, il necessario per non morire, impedendoci però di prosperare. Onora sempre l'acqua, perché è sacra. Non devi dimenticarlo mai, promettimelo”.
Talal pronunciò sottovoce le parole “Lo prometto”, con la stessa solennità con cui le aveva pronunciate allora, rivolte all'amato vecchio.
Si riscosse e provò fastidio per la fatica e il sudore che lo ricopriva dalla testa ai piedi. Fece scorrere le braccia attraverso gli spallacci e lo zaino pesante che portava sulla schiena finalmente scivolò a terra. Si stirò con vigore, dopo tirò fuori dal sacco un pesante contenitore di metallo. Talal sapeva di essere ancora in grado di svolgere il proprio compito, anche se non poteva permettersi di perdere ulteriore tempo. Eppure tutta quell'acqua davanti a lui non poteva che fargli ricordare un altro momento della sua vita.
Se si sforzava poteva ancora sentire sulla pelle il vento che faceva muovere le fronde degli ulivi, in una sera di sette anni prima. Ricordava di essere seduto a terra, appena quindicenne, colmo di imbarazzo e allo stesso tempo di eccitazione. La ragione della sua alterazione era seduta di fronte a lui, la cugina Nadira, più grande di due anni. La ragazza era arrivata da poco al villaggio, proveniente da Beirut, e agli occhi del ragazzino appariva esotica e bellissima. In famiglia vi era stata molta curiosità per quel ritorno, poiché il padre di Nadira aveva vissuto all'estero per più di vent'anni. Molti non lo vedevano dalla sua partenza per il Libano e non avevano potuto nemmeno mai incontrarne la moglie e l'unica figlia. Era considerato un cattivo musulmano e si mormorava che in realtà fosse ateo e comunista, anche se in passato aveva collaborato con Hezbollah. A Talal lo zio era sembrato un gigante, un uomo alto e distinto, con un accento così diverso da quello che sentiva abitualmente. Il ragazzo non voleva nemmeno ascoltare le voci sul fatto che il ritorno a casa del suo parente fosse dovuto a dei debiti di gioco e non a una scelta politica.
Nadira lo guardò dritto negli occhi e sorrise indovinando l'ammirazione del cugino più giovane nei suoi confronti.
“Talal, hai mai visto il mare? Ovviamente no, dalla Cisgiordania non si può quasi uscire al giorno d'oggi. Beh, quello che mi mancherà di più di Beirut è il mare, così grande e immenso e meraviglioso”.
Il ragazzo annuì, ma non riuscì a proferire che qualche monosillabo, arrossendo sempre più imbarazzato. Dopo cena Nadira l'aveva preso per mano e l'aveva trascinato con sé nel magro oliveto "Stanca di ascoltare, le quattro stronzate di mio padre”.
“Ogni volta che mi era possibile, durante l'estate, andavo a fare il bagno di nascosto, assieme alle mie compagne cristiane. Loro non hanno i problemi che abbiano noi musulmane a mostrare il corpo e il bagno è meglio farlo in bikini piuttosto che avvolte nell'hijab”.
La ragazza si beò nel vedere come Talal immaginasse quella scena così eccitante, una spiaggia piena di donne seminude.
“Cugino, hai mai baciato una ragazza?”
Talal sentiva ancora quelle parole e nei momenti più impensati, durante la veglia o il sonno. Nadira si era avvicinata a lui, eccitata a sua volta dall'interesse del ragazzo più giovane e aveva posato delicatamente le proprie labbra su quelle del cugino. In realtà Nadira non era così esperta come avrebbe voluto far credere ed era più pudica di quanto non millantasse.
Quando erano tornati a casa, il fratello del ragazzo, Mohammad, diventato il capofamiglia ancorché giovanissimo, dopo l'incarcerazione del padre e la morte del nonno, li affrontò a muso duro. A quanto pareva, un'altra loro parente, li aveva visti baciarsi e aveva spifferato tutto agli adulti. Anche il padre di Nadira sembrava arrabbiato e allo stesso tempo divertito. Il fratello maggiore redarguì il fratello minore e lo schiaffeggiò di fronte a tutti, ma quello che lo fece andare in bestia, fu notare la piccola macchia umida e scura sui pantaloncini chiari di Talal. Le emozioni erano state troppo forti e il ragazzino non era riuscito a trattenersi, senza accorgersene.
“Vergognati, figlio di un demone! Hai profanato il corpo di Nadira, la nostra ospite”.
Mohammad era molto rigido, poiché si era rivolto al Corano e alla jihad per cercare un sostegno per il suo duro compito. Anche se lo zio non avrebbe voluto che Talal venisse punito fisicamente, Mohammad lo frustò davanti a tutti. Nadira pianse e chiese che il cugino fosse lasciato in pace, ma venne ignorata.
Chi aveva profanato il corpo di chi? Talal se l'era chiesto a lungo, in maniera incessante, notte dopo notte. Non aveva mai più visto Nadira, eppure sapeva che alla fine lei era riuscita ad andare a vivere in Canada. Scosse la testa e prese il contenitore di metallo, aprendo il tappo posto sulla sommità con grande circospezione. Il contenuto era un veleno micidiale e la sua missione era quella di inquinare l'acqua del bacino, destinata a un kibbutz poco lontano. Entro pochi minuti gli israeliani avrebbero aperto una piccola chiusa e l'acqua sarebbe stata risucchiata verso le grandi tubazioni che l'avrebbero condotta poi a destinazione. Talal salì sul parapetto di cemento, nascosto da una delle torrette di controllo del camminamento sopra la diga e poggiò accanto ai piedi la tanica di metallo. Terminato di versare il veleno, ne bastava un piccolissima quantità per metro cubo d'acqua per essere letale, doveva buttare il contenitore nel bacino. Essendo molto pesante sarebbe sparito, andando a fondo e per lungo tempo i sionisti non avrebbero potuto ovviare alla minaccia.
Talal sapeva che quello era il momento più difficile di tutta la missione, poiché lui aveva sempre amato l'acqua, grazie alla promessa fatta al nonno e perché gli faceva ricordare Nadira e il suo mare. Ancora amava quella ragazza, l'unica della sua vita anche se solo per un bacio.
La mente volò nuovamente via, leggera, trascinata dai ricordi.
Talal era stato mandato dal fratello alla scuola coranica perché venisse “raddrizzato” e giorno dopo giorno, aveva subito il lavaggio del cervello. I palestinesi non si erano mai sacrificati con attentati suicidi, non prima dell'undici settembre. Ora i suoi maestri gli insegnarono che la lotta, la jihad, passava anche attraverso il sacrificio estremo e che Allah lo avrebbe ricompensato grandemente. Per gli ulema, Talal era prezioso perché, grazie a un qualche strano incrocio genetico, il ragazzo aveva i capelli biondi, era di alta statura e con la carnagione chiara, simile a molti ashkenaziti, gli ebrei giunti dall'est Europa. Lo tennero sempre protetto, non lo mandarono mai a lanciare pietre contro i checkpoint, non lo fecero mai partecipare alle manifestazioni in cui venivano bruciate le bandiere degli Stati Uniti. Sapevano che i sionisti controllavano i filmati e non volevano che quel ragazzo venisse notato. Talal aveva imparato a parlare l'ebraico senza il tipico accento arabo ed era stato infiltrato diverse volte in Israele e sei mesi prima era stato assegnato alla sua gloriosa missione.
Nonostante le riserve, Talal non aveva potuto rifiutare e nemmeno lo avrebbe voluto. Lui odiava gli ebrei, anche se non credeva molto alla questione delle vergini che avrebbe ricevuto in premio nell'aldilà, nel caso fosse morto nell'attentato. Lui lo faceva per tutte le persone ammazzate dagli israeliani durante le demolizioni mirate per estirpare i terroristi, che così spesso colpivano anche civili inermi. Aveva accettato di farlo pensando ad Amina, a Fatima, ad Aziz, a Nidal, i bambini del suo villaggio uccisi in maniera indiscriminata. Sapeva anche che ormai era troppo tardi per comprendere di chi fosse davvero la colpa, se dell'esercito israeliano o delle milizie palestinesi, ma ormai non contava più: per lui esistevano solo il senso d'appartenenza e l'odio per il nemico.
Poche ore prima aveva eluso facilmente i controlli della polizia israeliana, spacciandosi per un militare in licenza, apparentemente desideroso di campeggiare sulle pendici delle montagne che circondavano il grande bacino idrico. Aveva dei documenti perfetti, falsificati in maniera straordinaria e il suo aspetto aveva fatto il resto. Dopo, risaliti i pendii, aveva potuto vedere come la missione fosse stata pianificata alla perfezione: tutto corrispondeva, i turni delle guardie, lo squarcio nella recinzione non ancora riparato, i sentieri nascosti che gli avevano permesso di giungere in cima non visto.
Talal guardò l'orologio: ormai non aveva più tempo poiché entro pochi istanti le guardie sarebbero tornate presso la sua posizione. Ammirò ancora l'immensa distesa d'acqua ed avvertì un groppo allo stomaco. Si chinò e impugnò il manico della tanica e nello stesso istante sentì delle voci che gli urlarono di farsi riconoscere. Talal rimase immobile e chiuse gli occhi attendendo di essere ucciso.
Eppure fu colto di sorpresa quando avvertì il doloroso impatto del proiettile contro la spalla destra, impatto che lo sbilanciò facendolo cadere in avanti, verso l'acqua. All'improvviso, ancora in volo verso la morte, si rese conto di non avere la tanica con sé, di aver lasciato andare l'impugnatura un attimo prima di essere colpito. Avrebbe quasi sorriso, se avesse potuto: lui l'acqua l'avrebbe rispettata, mantenendo così la promessa fatta al nonno.
Svenne e non avvertì l'urto contro il liquido che per il suo corpo fu come cemento, poiché stava cadendo da più di quaranta metri d'altezza. Venne letteralmente spezzato in due dall'impatto e morì sul colpo, finalmente in pace.