Jean
Sul piroscafo/Una lettera gradita/Ricordi dolci e amari/Troppi incontri
Jean fissava la terra ferma, stringendo gli occhi nel sole forte e spietato dell’estate: laggiù da qualche parte, vi era la città di Bombay, non ancora visibile a causa della distanza. Entro la fine della giornata il piroscafo su cui si trovava sarebbe giunto nel porto dell’immensa città e lui avrebbe potuto incontrare James.
Non era la prima volta che si recava in India: vi era stato ormai quasi ventotto anni prima, in un viaggio assieme al suo datore di lavoro dell’epoca. Allora era un uomo nel pieno delle facoltà fisiche, sebbene maturo avendo all’incirca trentanni. Ora si sentiva vecchio, anche se il suo corpo era ancora forte e muscoloso. Infatti non erano tanto le condizioni fisiche a gravare su di lui, bensì i dolori che avevano sconvolto la sua esistenza. La sua vita era stata serena se non addirittura felice per lungo tempo, ma negli ultimi anni la fortuna che l’aveva contraddistinta sembrava essersi esaurita.
Per rincuorarsi prese da una tasca interna della giacca la lettera che l’aveva spinto ad attraversare per la seconda volta l’Oceano Indiano e la rilesse avidamente.
Bombay, 4 giugno 1900
Caro Jean,
perdonami se ho lasciato trascorrere così tanto tempo tra la tua ultima gradita missiva e questa mia. Entrare nell’Amministrazione Coloniale di Sua Maestà è stato estremamente difficile, per quanto incredibilmente appagante ed interessante: i funzionari dell’Ufficio del Governatore non sono stati particolarmente disponibili nei miei confronti, come sempre a causa delle mie origini. Tuttavia ho scoperto molte più cose in questo primo anno a Bombay di quante ne ho imparate ad Oxford in tanti. Ti prego di credermi se affermo che mi sei mancato terribilmente e che mi pento di non essermi fatto vivo come invece avrei dovuto. Sei l’ultimo legame con i miei adorati genitori, il mio unico vero congiunto, per quanto nelle nostre vene scorra un sangue diverso. Siamo uniti da qualcosa di più grande di una semplice parentela, e l’affetto tra noi sarà inestinguibile per sempre.
Per queste ragioni ti invito a raggiungermi a Bombay quanto prima, ma non soltanto: oltre al desiderio di rivederti ho necessità assoluta di un uomo nel quale possa riporre una fiducia incondizionata, di una persona dalla quale so di non poter ricevere altro che onestà e dedizione. Quella persona non puoi che essere tu, mio caro Jean, poiché di nessuno mi posso fidare quanto mi fido di te.
Ti immagino intento a leggere la mia lettera: starai mugugnando, affermando di essere ‘Troppo vecchio’ o ‘Troppo stanco’, ma non è così. Molti ventenni vorrebbero avere la tua forza e la tua prestanza fisica e non possono che invidiarti (lo sai benissimo, anche se non lo ammetterai mai). E’ stato il dolore ad invecchiarti precocemente, nella mente più che nel corpo, togliendoti la gioia di vivere dopo la morte dei miei genitori. Quello che ti serve è uno scopo che ti possa offrire speranza per il futuro, ed io penso di potertelo offrire.
Preferisco non descriverti ancora quali saranno i tuoi compiti, ma ti posso accennare che si tratterà sia di lavoro d’ufficio, dove potrai mettere a frutto la tua capacità di organizzatore, sia di lavoro sul campo, dove potrai aiutarmi con la tua grande esperienza. Ti prego di non pensarci troppo e di buttarti nell’avventura in maniera istintiva, come hai saputo fare tanti anni fa assieme al mio amato genitore. Non scrivo altro perché conto di incontrarti presto e di poterti aggiornare a voce riguardo la mia vita e la mia fortuna.
James
P.S. Ti prego di segnalarmi su quale piroscafo ti imbarcherai: in questo periodo viaggio molto fuori Bombay, per cui voglio essere sicuro di essere in città quando arriverai, ma devo saperlo con anticipo. A presto!
Jean rilesse tutta la lettera, fino all’ultima parola e sorrise pensando a James, al suo contagioso entusiasmo, sebbene ormai non fosse più un bambino, bensì un laureato di Oxford summa cum laude e un funzionario governativo di Sua Maestà.
Ricordava ancora perfettamente la grande gioia che i genitori del giovane avevano provato quando questi era venuto al mondo due anni dopo quel primo viaggio in India. Nel suo cuore rimaneva il ricordo di come la madre del neonato l’avesse invitato ad avvicinarsi al letto, poche ore dopo il parto.
“Venite Jean, poiché vi voglio presentare James! Consideratelo come un nipote, e vi prego di accettare di esserne il padrino quando lo battezzeremo. Siete stato il mio testimone di nozze, ed ora vorrei che foste partecipe della nostra gioia e il primo amico per questa splendida creatura”.
Jean sorrise ricordando la bella donna stesa a letto, il volto provato dal parto, eppure radioso, colma di una felicità che nessun uomo potrà mai provare davvero. Il piccolo James dormiva, coccolato dalle braccia della madre, pacifico e felice di essere al mondo.
Il bambino era cresciuto sano e forte e fin dai primi anni aveva mostrato una predilezione nei confronti di Jean, chiamandolo ‘zio’ e cercandolo insistentemente per farsi raccontare una storia o rispondere alle molte ed intelligenti domande. Il piccolo era rimasto stupito, scoprendo come il francese fosse il domestico di famiglia.
“Tu sei amico della mamma e del papà! Non è giusto che tu debba anche lavorare per noi: gli zii non lavorano per le loro famiglie”.
“James, io non sono proprio tuo zio. Ho iniziato a lavorare per tuo padre poco prima che conoscesse tua mamma e da allora sono sempre rimasto con loro. Sono stati molto buoni con me e sono degli ottimi datori di lavoro. Mi hanno trattato come se fossi un congiunto e le loro richieste sono ragionevoli e gradevoli da esaudire. Non mi posso certo lamentare, anzi”.
“Sì, ma loro sono anche i tuoi padroni, e non è giusto: mi permettono di chiamarti ‘zio Jean’, e ti concedono di darmi del tu, ma sono solo menzogne”.
James aveva litigato con il padre proprio per quelle ragioni, e il domestico era intervenuto per calmare gli animi. Per lui era un piacere lavorare per quella famiglia e si sentiva privilegiato ad essere considerato un amico e non un semplice servitore. Era stato trattato con grande gentilezza e il padrone si era sempre fidato di lui, tanto da affidargli grosse somme di denaro senza remora alcuna.
Gli anni erano passati in gioia ed armonia, mentre James diventava sempre più forte, bello e intelligente. La prima increspatura si era creata quando il giovane era andato ad Eton, nella prestigiosa scuola dove venivano iscritti i ragazzi di buona famiglia come lui. Non era stato accolto al meglio per via delle origini della madre, ed era stato rifiutato e trattato dall’alto in basso dai compagni di collegio. James aveva sofferto molto, eppure aveva stretto i denti portando a termine gli studi in maniera brillante.
La situazione si era stabilizzata e alla fine il giovane aveva stretto amicizia con i ragazzi più aperti mentalmente. Eccellendo negli studi era stato inoltre accettato dalla famosa e gloriosa Università di Oxford. Proprio durante l’inverno del primo anno di studi universitari, la buona fortuna della famiglia si era spezzata, quando la madre si era ammalata gravemente. La donna aveva contratto una forte influenza, apparentemente senza che la malattia rappresentasse un problema, ma ben presto il malanno si era trasformato prima in bronchite e poi in polmonite. Mentre aspettavano che James tornasse da Oxford per correre dalla malata, quest’ultima aveva convocato Jean nella sua camera da letto e per la prima volta nella storia della loro amicizia gli aveva dato del tu:
“Jean, amico mio, sono certa che non vedrò l’anno nuovo, ma volevo dirti che non mi pento di niente e che sono felice che tu mi abbia salvato da quell’assurdo rogo, ormai più di vent’anni fa”.
“Signora...”
“No, chiamami per nome: tu sei stato uno dei miei salvatori e sei come un fratello per me. Non debbono più esserci formalità tra di noi”.
“Aouda...”
Jean le aveva preso la piccola e morbida mano e aveva pianto, incapace di parlare. L’aveva amata molto anche se di un amore platonico ed ideale, ritenendola troppo in alto per se e invece perfetta per il suo padrone.
Ancora in quel momento sentì gli occhi pizzicare e una lacrima scese lungo la guancia. Poteva trovarsi su un piroscafo o in centro a Londra, ma ogni volta che pensava a quella donna bella e coraggiosa non poteva che commuoversi. Aouda era morta poche ore dopo, felice di essere riuscita ad incontrare per l’ultima volta l’amato figlio e di essere circondata dalle persone a cui aveva voluto bene.
Dal funerale della donna in poi la fortuna aveva abbandonato del tutto casa Fogg. Il padrone di Jean, Phileas, si era lasciato andare, accantonando la sua abituale flemma, rotta in precedenza soltanto dall’amore per la sua sposa, ma sempre presente nel suo agire quotidiano. L’uomo aveva smesso di curarsi di se, e senza Jean non avrebbe neppure mangiato o fatto i suoi bisogni in maniera civile. Aveva cominciato a bere pesantemente, sfuggendo al controllo del suo domestico ed ignorando gli appelli dei pochi amici che gli erano rimasti.
Jean aveva chiamato anche l’ispettore Fix, l’uomo che aveva rischiato di distruggere la fortuna di Mr. Fogg con il suo rigore, al termine del viaggio-impresa che il gentleman aveva compiuto nel 1872. Insieme avevano cercato di convincere Phileas a smettere di bere, invitandolo a superare la scomparsa dell’amata consorte, ma tutto era stato inutile e l’uomo era venuto a mancare circa un anno dopo Aouda.
Jean scoprì come Mr. Fogg gli avesse lasciato una buona rendita, grazie alla quale non avrebbe più dovuto lavorare per mantenersi, se avesse voluto fino al termine dei suoi giorni. James l’aveva affrancato dal servizio, invitandolo a vivere ovunque preferisse, mentre lui era intenzionato ad entrare nel corpo burocratico coloniale. Quello che un tempo era stato un domestico aveva aperto una piccola bottega di tessuti nella parte migliore dell’East End, ma non aveva amato particolarmente quel lavoro, per quanto incapace di starsene con le mani in mano. Quando era arrivata la lettera di James non ci aveva pensato due volte e aveva deciso di buttarsi nuovamente all’avventura.
L’attenzione di Jean venne interrotta dai forti richiami dei rimorchiatori che avrebbero condotto il piroscafo alla fonda. Scosse il capo e mise a fuoco la meta, ormai finalmente visibile nella sua interezza. Gli parve che Bombay fosse ancora cresciuta nel corso degli anni, nuovi sobborghi costruiti ovunque fosse possibile. All’epoca del suo primo viaggio non era riuscito a visitarla come avrebbe voluto, essendo il suo padrone terribilmente di fretta, dovendo compiere il giro del mondo in ottanta giorni. Finalmente se ne sarebbe preso il tempo.
Le operazioni portuali si svolsero con puntualità e Jean fu tra i primi a scendere la scaletta per raggiungere il molo. Era riuscito ad avvertire James, ed era certo che quest’ultimo sarebbe venuto ad accoglierlo. Aguzzò lo sguardo e scorse il suo amico, il figlio dei suoi amati Phileas e Aouda. Non poté non notare sul volto del giovane uomo i caratteri che lo legavano ai genitori, gli occhi e la bocca della madre, il naso e la fronte del padre, ben combinati tra di loro.
All’improvviso un movimento strano nella folla catturò il suo sguardo: un uomo con un turbante da Thug si stava avvicinando all’ignaro James, il quale dopo aver scorto a sua volta l’amico aveva alzato un braccio per salutarlo. Il giovane venne aggredito e non ebbe modo alcuno di rispondere al vile attacco: un laccio tipico di quella setta venne stretto attorno al suo collo, rompendogli la trachea e portandolo alla morte per affogamento nel proprio sangue.
Il francese tentò di correre verso l’amico per soccorrerlo, pur sapendo che ormai non vi era alcuna speranza, quando venne bloccato da due uomini. Uno di questi sussurrò nel suo orecchio destro:
“La dea Kalì non perdona”.
Un laccio si chiuse attorno alla gola di Jean, il quale morì pochi istanti dopo.