Inizio di una storia d’amore
La prima volta che portai Viola a camminare in montagna decisi di andare in Grignetta.
Da Milano non ci vuole molto, poco più di un’ora.
Arrivati al punto da cui parte la direttissima – che poi direttissima non è – le spiegai i pochi semplici passaggi che ci saremmo trovati a fronteggiare. Robe da dilettanti, ma non si deve dare nulla per scontato.
Scelsi di imbragarla nel punto più complicato perché mi pareva un po’ titubante.
- E se cado da qui?
- Non puoi cadere perché sei agganciata coi moschettoni. E poi col dissipatore non dovresti nemmeno sentire il colpo
- E se si stacca la catena e cado?
Guardai giù, verso il piccolo abisso.
- Beh... se cadi davvero non hai più dubbi
Le sorrisi. Lei si mise a ridere ma vedevo che aveva paura.
- Scemo, non scherzare
Passai avanti io e le detti la mano. Lei avanzò piano. Poi qualcosa la fermò.
- Ok, Viola, adesso stacca un moschettone e fallo passare avanti. Poi stacchi il secondo e fai la stessa cosa
Notai che non voleva guardare giù. Giusto. Brava.
Ma vidi anche che non riusciva ad afferrare il moschettone.
- Soffro di vertigini, Guido. Aiuto
- Da qui non posso fare nulla. Ma ti tengo. Stai calma
- Se cado ti tiro giù. Non puoi tenermi
- No che non mi tiri giù
Una bugia a fin di bene.
- E poi non soffri di vertigini. Le vertigini hanno dei sintomi gravi che tu non hai
- Non parlare, Guido. Lasciami stare un attimo
Non lasciai la sua mano. Respirava affannosamente. Tipico attacco d’ansia.
- Hai solo una sensazione di vuoto. Un po’ di paura del vuoto. Ce l’hanno tutti. Pure io
- Se cado muoio
E ora che le dico? Un’altra bugia?
- Sì, è vero ma non puoi cadere perché sei agganciata alla catena. Non ci pensare e basta
Povera Viola: sapevo perfettamente quello che le passava per la testa. Ma l’unica cosa era andare avanti. Tornare indietro sarebbe stato più pericoloso.
Passò qualche minuto di silenzio. Qualche minuto di paura.
Tutto normale. Non c’è fretta
- Ok, adesso lo stacco
Prese il moschettone con mano non proprio ferma e, senza quasi guardare, riuscì ad agganciarlo alla catena dall’altra parte del chiodo.
- Brava, Viola. Ora l’altro
Stessa cosa, lo fece anche più velocemente. Passò dalla mia parte ed ero fiero di lei. Mi baciò con passione un po’ per sfogarsi e un po’ non lo so.
Continuammo verso la cima senza grossi intoppi, dopo aver tagliato le nuvole.
Ero già stato là alcune volte, avevo compiuto imprese più ardite, ma ero contento come sempre. La sensazione della cima è sempre la stessa. Cercai di spiegarglielo a parole.
- Vedi? In cima l’abisso è tutto intorno, ma per assurdo più lontano non potrebbe essere. Ti circonda il vuoto a 360 gradi ma non puoi averne paura. La cima è un attimo in cui non puoi pensare a qualcosa di oscuro. E svanisce subito, quindi ricordalo
Le spiegai tante altre cose e cercai di convincerla che non soffriva di vertigini. Aveva semplicemente paura del vuoto. Come tutti gli esseri umani. La paura del vuoto è in definitiva la paura di morire. Questo dettaglio glielo risparmiai.
Poi la annoiai con l’elenco delle cime che riuscivo a identificare all’orizzonte. Molte le avrò anche sbagliate. Mangiammo, prendemmo il sole; ci conoscemmo un po’ meglio.
In breve era già tempo di scendere. Cambiammo strada e decisi per quella che a mio parere è la vera direttissima. La facemmo velocemente; così velocemente che colpii una roccia con il ginocchio che mi si gonfiò subito.
Viola mi prese un po’ in giro ma poi mi pulì la ferita con grande zelo.
Un po’ meno frettolosamente, tornammo giù alla macchina le chiesi se aveva voglia di guidare, che avevo troppo male al ginocchio.
E così – cosa piuttosto rara – mi trovavo sul sedile davanti della mia macchina senza guidare.
La strada era semplice e stavano finendo i tornanti quando un gatto, un po’ titubante, ci attraversò la strada. L’impatto fu una fatalità. Viola aveva frenato ma non era bastato a evitare la collisione.
Riuscii a vedere nello specchietto il gatto che ruzzolava sull’asfalto e si rimetteva in piedi barcollando per poi essere investito definitivamente da un’altra macchina che ci superò di slancio.
Viola fermò la macchina e uscì con gli occhi lucidi verso quello che restava della povera bestiola. Ero sceso anch’io ed ero rimasto qualche metro dietro di lei. Rimanemmo in silenzio per qualche secondo; poi vidi che si portava le mani al volto. Si girò verso la macchina, verso di me, ed era sul punto di crollare. Feci quei pochi passi che mi separavano da lei.
E allora, prima che Viola mi cadesse fra le braccia, la abbracciai. Appena prima che fosse lei a farsi abbracciare. Mi piacque pensare che fosse una differenza importante.
Tremava di paura. Cominciò a piangere. Ma fra le mie braccia non poteva, non doveva temere nulla. Niente poteva più farle paura, nessuno le avrebbe fatto del male. Io non lo avrei permesso.
La strinsi ancora più forte e potevo sentire i suoi singhiozzi che avevano raggiunto il culmine e piano piano si facevano più flebili, il suo respiro meno affannoso e il cuore che rallentava; mentre il mio accelerava.
Credetti che fossi in grado di prendere su di me il suo dolore e le sue paure. Che fossi in grado di trasferire il male su di me.
Così si era calmata e la guardai; era stata una giornata lunga, intensa. Soprattutto per lei.
Decisi che il mio dolore al ginocchio non era poi così insopportabile e mi misi al volante senza nemmeno chiederglielo.
Riuscii a far tornare il sorriso a Viola dopo qualche chilometro. Riuscii soprattutto a rimuoverle il cancro del senso di colpa. In effetti il gatto era morto solo dopo la seconda collisione. Io l’avevo visto e ci misi un po’ a spiegarle che non lo dicevo solo per rincuorarla. Lo dicevo perché era la verità.
Tornammo a Milano che la paura del vuoto – che da sempre mi accompagna - non mi era ancora passata e non sarebbe certamente svanita d’improvviso, ma sapevo che Viola non stava già più pensando alle vertigini e questo mi bastava.